Come ogni altra convenzione definitoria, anche le demarcazioni tra generi letterari attigui, pur nella loro indubbia utilità ermeneutica, risultano nella maggior parte dei casi più facili da tracciare che da riconoscere. "Heart of Darkness" riserva, in tal senso, alcune interessanti occasioni di riflessione <1: la ferma avversione dimostrata da Conrad - straordinario narratore dell’angosciosa indicibilità della condizione umana - nei confronti di certe derive soprannaturaliste in letteratura <2 non fa che rendere, ad esempio, ancor più inaspettata e rilevante la presenza, nel racconto dell’oscura odissea del capitano Charles Marlow lungo un non ben specificato fiume dell’Africa nera, di tutta una serie di elementi che sembrerebbero rimandare al fantastico, qui e là condensati in alcuni passaggi particolarmente evocativi:
"Going up that river was like traveling back to the earliest beginnings of the world, when vegetation rioted on the earth and the big trees were kings. An empty stream, a great silence, an impenetrable forest. The air was warm, thick, heavy, sluggish. There was no joy in the brilliance of sunshine. The long stretches of the waterway ran on, deserted, into the gloom of overshadowed distances. On silvery sand-banks hippos and alligators sunned themselves side by side. The broadening waters flowed through a mob of wooded islands; you lost your way on that river as you would in a desert, and butted all day long against shoals, trying to find the channel, till you thought yourself bewitched and cut off for ever from everything you had known once - somewhere - far away - in another existence perhaps. There were moments when one’s past came back to one, as it will sometimes when you have not a moment to spare for yourself; but it came in the shape of an unrestful and noisy dream, remembered with wonder amongst the overwhelming realities of this strange world of plants, and water, and silence. And this stillness of life did not in the least resemble a peace. It was the stillness of an implacable force brooding over an inscrutable intention. It looked at you with a vengeful aspect. I got used to it afterwards; I did not see it any more; I had no time. I had to keep guessing at the channel; I had to discern, mostly by inspiration, the signs of hidden banks; I watched for sunken stones; I was learning to clap my teeth smartly before my heart flew out, when I shaved by a fluke some infernal sly old snag that would have ripped the life out of the tin-pot steamboat and drowned all the pilgrims; I had to keep a lookout for the signs of dead wood we could cut up in the night for next day’s steaming. When you have to attend to things of that sort, to the mere incidents of the surface, the reality - the reality, I tell you - fades" <3.
Sono diversi, d’altronde, i punti del romanzo in cui Conrad indugia su descrizioni che sembrano voler compendiare, come in questo breve passo, i principali stilemi della produzione fantastica del XIX secolo: il battello a vapore su cui Marlow e i suoi uomini risalgono, «like phantoms» <4, presumibilmente il fiume Congo per raggiungere l’avamposto dell’enigmatico signor Kurtz - figura, a metà strada tra il tagliagole e il filosofo, che controlla l’importante traffico di avorio della zona - si addentra poco a poco in una dimensione imperscrutabile tagliata fuori dal tempo e dallo spazio, dove l’allucinata reiterazione di gesti e paesaggi scandisce, in un labirintico viaggio a ritroso nelle ere che ha tutti i caratteri del sogno, il progressivo sfaldarsi del paradigma di realtà dell’uomo europeo. Sospesa, come per sortilegio, la messinscena che va sotto il nome di civiltà, a quest’ultimo non resta che scrutare nel cuore oscuro e pulsante delle cose, perso in un mondo primordiale dove il fiume (ben lontano dalla descrizione delle acque addomesticate del Tamigi che dà inizio al racconto) si rivela essere un pericoloso dedalo di banchi di sabbia e isolotti su cui ippopotami e coccodrilli si crogiolano al sole come oziosi mostri preistorici, il fuoco attorno al quale gli indigeni (per lo più cacciatori di teste e cannibali dai denti aguzzi) officiano i loro sacrileghi rituali rimanda ombre demoniache e la vita stessa si presenta, in un’asfittica immobilità, come quell’«implacable force brooding over an inscrutable intention» <5 contro cui un agonizzante Kurtz scaglia il suo estremo grido di avvertimento. Più che esprimere, allora, un tardivo pentimento per le atrocità commesse sotto l’insegna di una pretesa civilizzazione, le ultime parole pronunciate da ciò che resta del feroce colonizzatore europeo - «The horror! The horror!» - rappresentano l’inoppugnabile giudizio di chi, superato l’inconsistente velo delle costruzioni culturali e dell’autoinganno con sguardo «wide enough to embrace the whole universe, piercing enough to penetrate all the hearts that beat in the darkness» <6, si è calato, oltre il punto di non ritorno, negli abissi di una realtà di crudele insensatezza, riemergendone solo per mettere in guardia dall’orrore, esistenziale e cosmico, che ribolle sotto il tappeto del pensiero razionalista e del suo ingenuo antropocentrismo.
Nella terribile perentorietà di una sola parola, insomma, pare avverarsi, con quasi trent’anni di anticipo, la profezia che apre forse il più suggestivo dei racconti di Lovecraft, "The Call of Cthulhu", per cui «some day the piecing together of dissociated knowledge will open up such terrifying vistas of reality, and of our frightful position therein» <7 che non resterà altro scampo se non quello di cedere, come Kurtz, alla pazzia o di trovare riparo in una nuova epoca di oscurantismo.
A comprovare la vicinanza dell’opera conradiana con il genere fantastico basterebbe, del resto, il ricorrere, in ognuno dei tre capitoli che compongono il romanzo, dell’indicativa formula “fantastic invasion”, utilizzata - con modalità molto simili e una sostanziale coincidenza di significato <8 - per indicare tanto l’irragionevolezza dell’intrusione dell’uomo europeo in una dimensione che non lo contempla, talmente estranea e indecifrabile da sembrare irreale, quanto la personale esperienza che Marlow e Kurtz fanno di quel mondo, il loro esserne segnati, seppur in maniera diversa, irrimediabilmente. Nel suo invariato riproporsi, d’altra parte, una simile associazione di vocaboli non può essere in nessun modo considerata, nella cornice teorica che si è proposto di adottare, casuale o irrilevante: per meglio rappresentare il giustapporsi di due realtà tra loro incomparabilmente distanti e antitetiche - da una parte la fulgida Inghilterra e Londra, «the biggest, and the greatest town on earth» <9, dall’altra l’ostile mistero della giungla africana, «a place of darkness» <10 fuori dal tempo - Conrad si rivolge con tutta evidenza ai motivi e alle soluzioni formali della tradizione letteraria che più di tutte, come si è cercato di dimostrare alla fine del precedente capitolo, ha fatto della narrativizzazione dell’improvviso collidere di piani di esistenza inconciliabili la sua logica costitutiva, quel fantastico costantemente evocato nella costruzione dell’alterità, per essere poi lasciato, insieme alle sue suggestioni e alle atmosfere soprannaturali, alla soglia del testo, come una cattiva frequentazione.
[NOTE]
1 Nel suo saggio del 2010, "The Conspiracy against the Human Race", Thomas Ligotti dedica alcune interessanti pagine allo stretto rapporto che lega il capolavoro di Conrad alla letteratura di genere fantastico, così come alla sua capacità di evocare il soprannaturale senza mai fare direttamente riferimento ad esso nella narrazione, pagine dalle quali questa riflessione muove i passi. Cfr. Thomas Ligotti, «Autopsy on a Puppet: an Anatomy of the Supernatural», in Id., "The Conspiracy against the Human Race. A contrivance of Horror", Penguin Books, New York 2018, pp. 173-222.
2 Nell’affermare che «the belief in a supernatural source of evil is not necessary; men alone are quite capable of every wickedness», il narratore di Under Western Eyes riassume nel modo più efficace il principio che si direbbe sottendere il realismo esotico e metafisico dello scrittore polacco. Joseph Conrad, Under Western Eyes, Harper & Brothers, New York 1911, p. 149.
3 Joseph Conrad, "Heart of Darkness", Penguin, London 2012, p. 38 («Risalire quel fiume fu come viaggiare a ritroso verso i più lontani inizi del mondo, quando la vegetazione impazzava sulla terra e i grandi alberi regnavano sovrani. Una corrente deserta, un grande silenzio, una foresta impenetrabile. L’aria era calda, densa, pesante, stagnante. Nessuna gioia nella magnificenza del sole. I lunghi tratti navigabili si perdevano innanzi, deserti, nell’oscurità di lontananze avvolte dall’ombra. Sugli argentei banchi di sabbia ippopotami e alligatori si crogiolavano al sole fianco a fianco. Le acque, allargandosi, correvano per un labirinto di isole boscose; smarrivi la strada su quel fiume, come in un deserto, e, cercando di trovare il canale, tutto il giorno si andava nelle secche, fino a credere di essere preda d’un sortilegio e tagliati fuori per sempre da tutto ciò che un tempo si era conosciuto, chissà dove, molto lontano, forse in un’altra esistenza. In certi momenti, il passato tornava alla memoria, come capita talvolta, quando non hai un attimo di respiro; ma tornava in forma di un sogno inquieto e tumultuoso, ricordato con stupore fra le soverchianti realtà di quello strano mondo di piante, e acqua, e silenzio. E quella immobilità di vita non somigliava minimamente alla pace. Era l’immobilità d’una forza implacabile che covava imperscrutabili propositi. Ti guardava con un’aria di vendetta. Poi mi ci abituai; non la vedevo più; non ne avevo il tempo. Dovevo stare attento a seguire il canale; dovevo distinguere, per lo più per intuizione, gli indizi dei banchi nascosti; stare all’erta contro le rocce sommerse; imparavo a stringere i denti alla svelta perché il cuore non mi scappasse, quando schivavo per un pelo qualche infernale vecchio tronco sornione che avrebbe strappato l’anima a quel barattolo d’un vaporetto e annegato tutti i pellegrini; dovevo essere pronto a individuare la presenza di legna secca da tagliare di notte per la navigazione dell’indomani. Quando si deve badare a cose di questo genere, ai normali incidenti della superficie, la realtà, la realtà, vi dico, svanisce». Trad. it. di Giorgio Spina, "Cuore di tenebra", Rizzoli, Milano 2016, pp. 95-96).
4 Ivi, p. 40.
5 Ivi, p. 38 («una forza implacabile che covava imperscrutabili propositi». Cuore di tenebra, cit., p. 96).
6 Ivi, p. 87 («abbastanza ampio da abbracciare l’intero universo, abbastanza penetrante da violare tutti i cuori che pulsano nella tenebra». Cuore di tenebra, cit., p. 161).
7 Howard P. Lovecraft, «The Call of Cthulhu», in Id., The Complete Fiction, Quarto Publishing, New York 2014, p. 381 («la ricomposizione del quadro d’insieme ci aprirà, un giorno, visioni terrificanti della realtà e del posto che noi occupiamo in essa». Trad. it. di Giuseppe Lippi, «Il richiamo di Cthulhu», in Howard P. Lovecraft, "I capolavori", Mondadori, Milano 2008, pp. 79-80).
8 Significative sono, in tal senso, le parole che precedono la prima occorrenza della formula nel romanzo, a comprova dell’assoluta consapevolezza con cui l’aggettivo “fantastic” è utilizzato: «I’ve never seen anything so unreal in my life. And outside, the silent wilderness surrounding this cleared speck on the earth struck me as something great and invincible, like evil or truth, waiting patiently for the passing away of this fantastic invasion». Joseph Conrad, "Heart of Darkness", cit., p. 26 («Non ho visto mai niente di più irreale in vita mia. E fuori, la silente distesa desolata che circondava questo bruscolo disboscato sulla terra mi colpiva come qualcosa di grande e invincibile, come il male o la verità, pazientemente in attesa che scomparisse questa fantastica invasione». Cuore di tenebra, cit., p. 76). Sempre ad un’inconciliabilità irrisolvibile tra l’immoto mistero africano e la prospettiva “razionale” del conquistatore fa riferimento il riproporsi del binomio nel secondo capitolo, in quello che si presenta, a tutti gli effetti, come un calco piuttosto fedele del passo precedente: «The high stillness confronted these two figures with its ominous patience, waiting for the passing away of a fantastic invasion.» Ivi, p. 37 («La quiete sovrana fronteggiava queste due figure con la sua minacciosa pazienza, attendendo il dileguarsi di una fantastica invasione». Cuore di tenebra, cit., p. 94). L’accostamento dei due termini si ripete, infine, nel terzo capitolo, a indicare le ragioni della «terrible vengeance» messa in atto dalla selvaggia inintelligibilità della foresta contro i suoi profanatori. Ivi, p. 67.
9 Ivi, p. 3 («la più vasta e più grande città della terra». Cuore di tenebra, cit., p. 41).
10 Ivi, p. 8.
Davide Carnevale, Narrare l’invasione: traiettorie e rinnovamento del fantastico novecentesco, Tesi di dottorato, Sapienza Università di Roma, Anno accademico 2020/2021
A differenza del narratore di "Historia secreta de Costaguana", e di scrittori postcoloniali come
Chinua Achebe, <10
Juan Gabriel Vásquez nutre nei confronti di Joseph Conrad una grande ammirazione:
“Más vale que lo diga de una vez por todas: Nostromo es, con distancia, la mejor novela sobre Latinoamérica jamás escrita fuera de la lengua española. Es más: Nostromo, se me ocurre a veces, es uno de los antecedentes más claros (y menos señalados) del boom latinoamericano.” <11
Entrambi gli autori hanno scritto le loro opere lontani dalla propria terra d’origine: Conrad in Inghilterra e Vásquez (principalmente) a Barcellona.
[NOTE]
10 Nel famoso articolo "An Image of Africa: Racism in Conrad’s Heart of Darkness",
Chinua Achebe accusa Conrad di razzismo, e di descrivere l’Africa come “a place where man’s vaunted intelligence and refinement are finally mocked by triumphant bestiality.” (ACHEBE, C., An Image of Africa: Racism in Conrad’s Heart of Darkness, in Conrad, J., Heart of Darkness, New York/London, W. W. Norton & Company, 1988, p. 252).
11 VÁSQUEZ, J. G., El arte de la distorsión, cit., p. 147.
Alessio Pisci,
Costaguana Writes Back/Along: di come Juan Gabriel Vásquez ha sfidato Joseph Conrad per scrivere un'iTentica storia della Colombia, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Cagliari, 2017
[...] la questione odonomastica e monumentale di Leopoldo II del Belgio, “the King with Ten Million Murders on his Soul” (Twain, 1905, p. 23). Al re si attribuì la responsabilità piena di crimini - che ora verrebbero definiti contro l’umanità - pubblicamente denunciati dai suoi contemporanei (Williams, 1890; Conrad, 1899; Casement, 1904; Twain, 1905; Conan Doyle, 1909), per i quali venne richiesto un processo internazionale e l’impiccagione del monarca (Stead, 1905). In particolare, nella prefazione del suo volume, scrive Conan Doyle (1909, p. III): “There are many of us in England who consider the crime which has been wrought in the Congo lands by King Leopold of Belgium and his followers to be the greatest which has ever been known in human annals. … There have been great expropriations like that of the Normans in England or of the English in Ireland. There have been massacres of populations like that of the South Americans by the Spaniards or of subject nations by the Turks. But never before has there been such a mixture of wholesale expropriation and wholesale massacre all done under an odious guise of philanthropy and with the lowest commercial motives as a reason. It is this sordid cause and the unctious hypocrisy which makes this crime unparalleled in its horror. The witnesses of the crime are of all nations, and there is no possibility of error concerning facts”. Il colonialismo belga in Congo continuò a essere fonte di ispirazione per scrittori indignati: dopo Joseph Conrad (1899) fu la volta di André Gide (1934). A prescindere dalle valutazioni storiografiche oramai incontrovertibili, “nessun tribunale, belga o internazionale, ha mai dovuto giudicare questo fatto storico. Nessun pentimento fu pronunciato” (Michel, 2015b; Wiltz, 2015); quindi, larga parte dell’opinione pubblica e del mondo politico in Belgio è tuttora convinta che Leopoldo II pur commettendo “errori” abbia anche permesso l’adesione del Congo alla modernità (Kibangula, 2013) e non desta meraviglia la circostanza che nel paese, di cui fu re dal 1865 al 1909, strade e monumenti dedicati a Leopoldo II siano ancora innumerevoli [...]
Pompeo Volpe, Auasc, Etiopia, 18 maggio 1937. Quattro volti senza nome e la memoria coloniale nell’Italia repubblicana, Padova University Press, 2021