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giovedì 23 giugno 2022

Dall’ambasciata statunitense capirono subito l’intento di «far sentire agli Usa qualche parola buona su Tambroni»


Il rapporto Italia-Stati Uniti sulla crisi del ’60 è stato in gran parte trascurato dalla storiografia <85, tuttavia il comportamento di Tambroni, che tentò di rilanciare il condizionamento del conflitto bipolare sulla politica italiana, <86 impone un’attenzione ben maggiore. L’incarico, come ha ricordato Nuti, non fu accolto dall’ambasciata con particolare soddisfazione, soprattutto per la vicinanza di Tambroni a Gronchi <87. «Nel breve periodo - ha scritto Zellerbach - non c’era motivo di preoccuparsi, visto che la cooperazione con gli Usa e con la Nato non sarà molto diversa da quella di Segni». Addirittura le prospettive sulla politica estera italiana venivano definite «eccellenti». Tuttavia la scelta non era giudicata «una soluzione felice». Tra i maggiori pericoli legati al nuovo esecutivo c’erano la possibilità di altre «scorribande» neutraliste in politica estera e l’opportunismo del nuovo capo del Governo. Nello stesso tempo la solidarietà di Gronchi, a cui erano legati il futuro e la stabilità del governo, era tutt’altro che assicurata. <88 A fronte della nuova maggioranza, furono immediate le dimissioni dei ministri della sinistra democristiana Bo, Sullo e Pastore. Poi seguì un tentativo - fallito - di Fanfani, che rispecchiava lo stato di confusione in cui versava la Dc, più volte rilevata dagli osservatori statunitensi. Alla fine di aprile Gronchi invitò Tambroni a completare la procedura e presentarsi al Senato. La direzione Dc approvava e l’ampia maggioranza democristiana confermava il nuovo, tormentato governo. Commentando l’investitura, i funzionari di via Veneto non erano in grado di stimare le probabilità che l’esecutivo arrivasse all’estate. Il presidente del Consiglio, in una formula efficace e sintetica, veniva descritto come un uomo «temuto da molti, ma di cui nessuno si fidava». Tambroni, da par suo, considerava il plauso americano un fattore non secondario per la durata del suo governo. Fu Francesco Cosentino - segretario generale della Camera e consigliere legale di Gronchi - a “sponsorizzare” il governo, ma dall’ambasciata capirono subito l’intento di «far sentire agli Usa qualche parola buona su Tambroni».
[...] In varie città italiane salirono la tensione e il nervosismo <104. I comizi missini nelle città di Reggio Emilia, Parma e Messina furono impediti <105. A Bologna, invece, era stato il discorso di Pajetta, pronunciato in piazza Malpighi il 21 maggio, a provocare l’intervento della polizia <106. Gli scontri durarono quaranta minuti provocando numerosi feriti, tra cui Giovanni Bottonelli, deputato del Pci, che riportò gravi ferite <107.
L’episodio, secondo quanto annotava un funzionario del consolato, rifletteva ancora una volta la «prontezza comunista nello sfruttare gli scontri con le pubbliche autorità» <108. Era questo uno dei tratti maggiormente sottolineati dalle relazioni americane. In più, il giudizio sul partito era a dir poco lapidario. Il Pci non era più in grado di «cavalcare le agitazioni e la propaganda come faceva una volta». La sede dei disordini non poteva che dare credito all’intuizione. Dopotutto, si era trattato di uno scontro in una roccaforte del Pci dove un deputato comunista era stato arrestato e ferito. «Qualche anno fa - ha scritto il segretario d’ambasciata Lister - avremmo assistito a dimostrazioni di massa, scioperi e altre azioni contro il governo in tutta Italia» <109.
Altrettanto attivo era il partito neofascista, galvanizzato dall’appoggio esterno al governo. Il Msi aveva indetto il VI congresso nazionale a Genova, dal 2 al 4 luglio. In quell’occasione, avrebbe dovuto dichiarare fedeltà al metodo democratico e alla Costituzione, anche se la Carta non sarebbe stata accettata come documento intoccabile.
Com’è noto, la scelta di Genova, peraltro conosciuta da tempo <110, fu un’opzione poco felice.
Molti esponenti missini, negli anni successivi, avrebbero fatto autocritica sia sull’effettiva maturità del partito che sulla scelta della sede <111. A suscitare la protesta del fronte antifascista furono soprattutto due elementi. L’oltraggio di un congresso neofascista in una città medaglia d’oro della Resistenza e la presenza - più vociferata che accertata - dell’ex prefetto della città ai tempi di Salò, Carlo Emanuele Basile. Secondo alcuni avrebbe addirittura dovuto presiedere i lavori. Il nome di Basile bastava ad evocare lo spettro dei non lontani massacri di guerra, rendendo l’affronto missino insostenibile.
Sulla scelta di Genova e sulle voci che riguardavano Basile, però, rimangono forti perplessità. Il 15 maggio, quando vennero resi noti i giorni e la sede del congresso le reazioni furono piuttosto blande <112. Genova, inoltre, non era la prima città fortemente legata alla Resistenza in cui il Msi convocava il suo raduno nazionale. Quattro anni prima la sede prescelta era stata Milano. In più, dal 1956, la giunta comunale della città ligure era appoggiata dai voti missini. Certamente Genova era «più contaminata dal Msi con il voto determinante del governo cittadino che con un congresso di tre giorni» <113.
[...] Veniamo ai fatti. Una prima grande mobilitazione contro il Msi ebbe luogo il 25 giugno. Protagonisti - ed è una costante delle proteste anti-tambroniane - furono i movimenti giovanili dei partiti antifascisti e di altre associazioni <121. Il 28 giugno, poi, venne indetto un comizio in piazza della Vittoria a Genova, che si svolse senza problemi.
Per il 30, la Camera del Lavoro proclamava uno sciopero generale con una manifestazione autorizzata dal prefetto. Quel giorno, una volta giunti in via XX settembre al monumento ai partigiani caduti, i manifestanti andavano in piazza della Vittoria, dove avrebbe dovuto terminare il tutto. Qui, la processione tornò indietro al sacrario, con in testa comunisti e socialisti. Poi il grosso della folla si fermava in Piazza De Ferrari, dove cominciava la battaglia.
Gli ordini alla polizia e ai carabinieri e le misure che poteva aver indicato lo stesso Tambroni sono tuttora un punto oscuro. Per Baget Bozzo la polizia «non reagisce». <122 Citando i rapporti dei carabinieri, Garibaldi ha posto l’accento sul fatto che la polizia avesse le armi scariche, e fu maggiormente presa di mira dai manifestanti, che ne erano a conoscenza <123. Il tenente colonnello Gaetano Genco ha scritto che il comportamento della polizia fu molto diverso da quello dei carabinieri. Questi, infatti, non fecero uso delle armi «nemmeno a scopo intimidatorio» ed ebbero solo cinque feriti. E avrebbero addirittura fraternizzato con i manifestanti <124.
Secondo Adalberto Baldoni, l’unica spiegazione per l’atteggiamento così poco collaborativo dei carabinieri, risiederebbe in una «garanzia militare sull’apertura a sinistra». Tale strategia sarebbe stata ispirata dalla coppia Moro-De Lorenzo e dagli Stati Uniti. A Roma, Reggio Emilia e in Sicilia, sempre secondo Baldoni, si doveva esasperare lo scontro e i carabinieri parteciparono attivamente. Tuttavia, non è azzardato nutrire qualche dubbio sulle fonti utilizzate per avvalorare l’ipotesi del coinvolgimento statunitense nella vicenda <125.
Murgia e Del Boca hanno scritto invece di una polizia «in completo assetto da guerra» pronta a scagliarsi sulla folla, senza menzionare i comportamenti delle altre forze dell’ordine <126. Più equilibrate le posizioni di alcune opere di sintesi sulla storia della prima Repubblica, in cui emerge con una certa continuità la sorpresa degli agenti, almeno in un primo momento <127. Tale sorpresa, poi, era dovuta non tanto alla scarsa prevenzione delle autorità locali, quanto alla sottovalutazione delle autorità centrali, che non diedero il «dovuto peso» alle informazioni provenienti da Genova.
Non si negava, infine, «qualche sintomo di nervosismo» tra gli organi di polizia <128.
L’ambasciatore Zellerbach considerò le proteste «in buona parte giustificate». E definì «stupido» il prefetto Pianese per aver concesso l’autorizzazione ai missini <129. Comprensibilmente, però, prese corpo l’ipotesi di una maggiore irrequietezza della piazza rispetto alle forze dell’ordine, che, non a caso, subirono i danni maggiori <130.
[NOTE]
85 Se ne sono in parte occupati solo Nuti e Gentiloni Silveri, si vedano L. Nuti, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra, cit., pp. 285-299; U. Gentiloni Silveri, L’Italia e la nuova frontiera. Stati Uniti e centro-sinistra 1958-1965, Il Mulino, Bologna, 1998, pp. 49-58.
86 Si veda G. Formigoni, A. Guiso (a cura di), Tambroni e la crisi del 1960, cit., p. 368. Significativo è il fatto che Murgia, citando un editoriale del «New York Times», scrive che «sembra uscito dall’ufficio stampa di Tambroni», si veda P.G. Murgia, Il luglio 1960, cit., p. 139. Sfogliando «L’Unità» e «Il Secolo d’Italia» del luglio 1960 si trova una selezione degli editoriali di molti quotidiani stranieri. Naturalmente la stampa internazionale veniva usata per avvalorare la tesi dell’aggressione da parte delle forze dell’ordine o della provocazione di piazza. Era comunque indicativo dell’attenzione rivolta a quanto scrivevano all’estero per comprovare le proprie idee.
87 L. Nuti, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra, cit., p. 288.
88 Si veda L. Nuti, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra, cit., pp. 288-289.
104 Sul generale inasprimento delle autorità pubbliche nei confronti dell’opposizione di sinistra si veda P. Di Loreto, La difficile transizione, cit., pp. 365-367.
105 G. Roberti, L’opposizione di destra in Italia, cit., p. 138. Per le reazioni sulla stampa missina si veda Preordinate provocazioni dei socialcomunisti a Parma, «Il Secolo d’Italia», 1 maggio 1960.
106 A. Barbato, Da Bologna il primo squillo di tromba, «L’Espresso», 29 maggio 1960, p. 6. Si veda P.G. Murgia, Il luglio 1960, cit., p. 62.
107 Si veda G. Fanti, G.C. Ferri, Cronache dall’Emilia rossa: l’impossibile riformismo del Pci, Pendragon, Bologna, 2001, pp. 67-68.
108 Police breakup of Bologna communist meeting arouses strong reaction, M. Cootes (American Consul General) to the Department of State, May 30, 1960, NARA, RG 59, CDF, Box 1917, 765.00/5-3060.
109 Communists provoke incidents in Chamber June 1 over clash with police in Bologna, G. Lister (First Secretary of Embassy) to the Department of State, June 10, 1960, NARA, RG 59, CDF, Box 1917, 765.00/6-1060. Tuttavia, proprio in relazione ai fatti di Bologna, il parlamentare democristiano Elkan parlò di una grande quantità di armi detenute nelle case di alcuni arrestati o in luoghi vicini. Erano tutti esponenti del Pci e le armi facevano parte, secondo Elkan, di «oscuri e gravi ricordi di guerra civile», si veda AP, CdD, III Legislatura, Discussioni, Seduta del 1° giugno 1960, p. 14423.
110 «L’autorizzazione era stata data da tempo, addirittura da Segni come ministro degli Interni del suo governo», si veda L. Radi, Tambroni trent’anni dopo, cit., p. 105. La notizia del congresso apparve sul quotidiano neofascista a metà maggio, si veda In difesa dello Stato e della nazione insostituibile la funzione del Msi, «Il Secolo d’Italia», 15 maggio 1960. La mozione congressuale fu pubblicata, sempre sul quotidiano neofascista, il 3 giugno.
111 A. Baldoni, La destra in Italia, cit., p. 553; Servello ha scritto di un partito «completamente impreparato», della «sottovalutazione delle capacità di mobilitazione delle sinistre» e della «sopravvalutazione della capacità del governo Tambroni di gestire la situazione». I tempi, comunque, non erano ancora giudicati maturi, F. Servello, 60 anni in fiamma. Dal Movimento Sociale ad Alleanza Nazionale, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2006, pp. 63-68. Sull’autocritica di Almirante si veda A. Pitamitz (a cura di), Tre protagonisti 25 anni dopo, «Storia Illustrata», n. 337, dicembre 1985, p. 47. Particolarmente netto e amaro fu il giudizio di Anfuso, che nel 1962 arrivò a dire che il Msi avrebbe potuto anche sparire, se la Dc si fosse sforzata di comprendere le intenzioni del partito neofascista, A. Del Boca, M. Giovana, I “figli del sole”. Mezzo secolo di nazifascismo nel mondo, Feltrinelli, Milano, 1965, p. 202. La questione delle intenzioni missine è peraltro molto dibattuta. Ne «Il Secolo d’Italia» del 30 giugno ’60 si legge «il Msi rappresenta dunque, e assume apertamente di voler rappresentare, la continuazione del Fascismo». Tarchi ha ricordato la «classica connotazione bicefala del Msi», alla luce della quale l’obiettivo ultimo restava la costruzione di «un regime destinato a richiamare - sia pure in forme che nessuno avrebbe saputo indicare con precisione - quello mussoliniano», M. Tarchi, Cinquant'anni di nostalgia. La destra italiana dopo il fascismo, Intervista di A. Carioti, Rizzoli, Milano, 1995, p. 66
112 P. Cooke, Luglio 1960, cit., pp. 39-41; F.M. Solo la Dc a Genova non protesta contro il congresso dei neofascisti, «L’Unità», 11 giugno 1960; Per le reazioni missine si veda La farsa rossa dell’indignazione popolare contro il Congresso nazionale del Msi a Genova, «Il Secolo d’Italia», 11 giugno 1960. Il console Joyce rimase colpito dalla durezza della campagna che poi iniziò. A tal proposito citò un manifesto con la scritta: «Msi uguale fascismo, fascismo uguale nazismo, nazismo uguale camere a gas», Growing opposition to planned Msi convention in Genoa, R. Joyce (American Consul General, Genoa) to the Department of State, June 27, 1960, NARA, RG 59, CDF, Box 1917, 765.00/6-2760.
113 G. Baget Bozzo, Il partito cristiano e l’apertura a sinistra, cit., pp. 287-288. Pombeni ha scritto che lo «scandalo» per il congresso a Genova «era credibile fino a un certo punto», P. Pombeni, L’eredità degli anni Sessanta, in F. Lussana, G. Marramao (a cura di), L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta. Culture, nuovi soggetti, identità, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2003, p. 46. Secondo Cooke le difficoltà sul nascere del governo Tambroni si erano subito riversate a livello locale. Genova fu una delle prime città in cui i missini votarono contro importanti provvedimenti, provocando così la crisi della giunta, si veda P. Cooke, Luglio 1960, cit., pp. 26-27.
121 G. Baget Bozzo, Il partito cristiano e l’apertura a sinistra, cit., p. 288.
122 G. Baget Bozzo, Il partito cristiano e l’apertura a sinistra, p. 288; P.G. Murgia, Il luglio 1960, cit., pp. 76-77.
123 Il rapporto è il n. 113 del 30 giugno 1960, L. Garibaldi, Due verità per una rivolta, «Storia Illustrata», n. 337, dicembre 1985, p. 49.
124 P. Cooke, Luglio 1960, cit., pp. 85-88.
125 A. Baldoni, Due volte Genova, cit., pp. 97-104. L’ipotesi del coinvolgimento dei carabinieri - voluto da Moro - nella caduta di Tambroni non pare priva di fondamento. Ma sembra ragionevole, stando a quanto reperito negli archivi statunitensi e alle più recenti indagini storiografiche, non dare credito a dietrologie un po’ azzardate. In particolare l’autore pone all’origine dell’accordo Sifar-Cia contro Tambroni il piano Demagnetize, in realtà esauritosi nel ’53 senza risultati apprezzabili, si veda M. Del Pero, Gli Stati Uniti e la «guerra psicologica» in Italia (1948-56), «Studi Storici», a. XXXIX, n. 4, ottobre-dicembre 1998, pp. 961-974. In più Baldoni si rifà a opere giornalistiche (R. Trionfera, Sifar Affair, Reporter, Roma, 1968 e R. Faenza, Il malaffare, Mondadori, Milano, 1978) smentite da successivi lavori scientifici.
126 A. Del Boca, M. Giovana, I “figli del sole”, cit., pp. 200-201; P.G. Murgia, Il luglio 1960, cit., pp. 81-82.
127 «La violenza dei dimostranti, diversi dei quali erano armati, fu tale che le forze di polizia si trovarono a mal partito e lamentarono diverse perdite in uomini feriti e materiale distrutto», G. Mammarella, L’Italia contemporanea, cit., p. 260.
128 File with subject file copy of Genoa’s D-2 (in italiano), July 11, 1960, RG 84, Italy, US Consulate, Genoa, Box 3, f.300/500 Polit/Econ reporting 1960. Nello stesso documento si parla di azioni condotte con molta decisione, forse perché «era stata diffusa la voce che da parte delle forze dell’ordine non si sarebbe fatto uso di armi». Sui timori dei poliziotti si veda S. Medici, Vite di poliziotti, Einaudi, Torino, 1979, pp. 55-57.
129 L. Nuti, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra, cit., p. 295.
130 L. Garibaldi, Due verità per una rivolta, cit., p. 50. Si veda «Il Secolo XIX», 1 luglio 1960, articolo molto ricco citato interamente in P. Cooke, Luglio 1960, cit., pp. 91-95; Sul trattamento riservato ad alcuni agenti, in particolare sul tentativo di annegamento e sull’utilizzo di uncini si vedano G. Baget Bozzo, Il partito cristiano e l’apertura a sinistra, cit., p. 288; L. Fazi, Un comando rosso ha diretto l’insurrezione, «Il Secolo d’Italia», 2 luglio 1960.
Federico Robbe, Gli Stati Uniti e la Destra italiana negli anni Cinquanta, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 2009/2010

giovedì 16 giugno 2022

Il passaggio al teatro di persona non rappresenta una battuta d’arresto nella vita della compagnia Rame


Nel presentare il suo libro-intervista a Franca Rame "Non è tempo di nostalgia", Joseph Farrell parte dalle peculiarità - già evidenziate nel precedente capitolo della tradizione del teatro italiano, affermando che esso "ha dato relativamente pochi scrittori al canone convenzionale del teatro europeo. Penso che questo sia dovuto al fatto che il teatro italiano nel contesto di quello europeo sia anomalo, nel senso che è essenzialmente un teatro attoriale e non autoriale. Secondo il mio parere nella tradizione del teatro italiano il personaggio dominante è sempre stato l’attore, l’attore di un tipo molto particolare". <278
Entrando, però, nello specifico del caso di Franca Rame, aggiunge: "Franca è figlia d’arte, come Eleonora Duse, come Adelaide Ristori e molte altre. È importante sottolineare che l’attrice era nata in una famiglia di attori girovaghi, la Compagnia Rame si ritiene che affondi le sue radici nel Settecento. Fino alla fondazione dei teatri stabili erano famiglie di quel tipo che erano il cuore del teatro italiano, attori che improvvisavano. La Rame è nata praticamente sulla scena, ha fatto la sua prima comparsa quando aveva solamente otto giorni. Nel corso dell’intervista Franca ha spiegato come la Compagnia Rame producesse i propri testi, suo padre era il capocomico, radunava la famiglia e distribuiva i vari ruoli. Questa è la tradizione del teatro italiano, è una tradizione essenzialmente ed esclusivamente italiana e Franca Rame è stata l’ultima grande rappresentante di quella tradizione, perché adesso non esiste più". <279
Ora, che tipo di compagnia era, quella dei Rame? <280 Franca la definisce, prima di tutto come “una famiglia di attori, con una tradizione che possiamo far risalire alla Commedia dell’Arte del Seicento.” <281 Il concetto di “famiglia”, però, è da precisare. Altrove, infatti, Franca spiega che, almeno nel periodo in cui lei vi ha lavorato: “Per «famiglia», in verità, si intendeva l’insieme di due diversi nuclei familiari, più attori e attrici scritturati, nonché un numero cospicuo di dilettanti.” <282 I due nuclei familiari, per quanto diversi, erano comunque imparentati, “due famiglie associate dei Rame, quella di mio zio Tommaso e l’altra, di mio padre Domenico” <283 e, ai membri della famiglia, si aggiungevano, inoltre, altri attori e altre attrici, sia di professione, sia dilettanti, che facevano nella compagnia il loro apprendistato, in cerca di una formazione diversa da quella tradizionale. <284
Sull’origine storica della compagnia, le notizie divergono: come abbiamo visto, Farrell la colloca “nel Settecento”; Franca, nel 2009, dichiara: “I capostipiti della mia famiglia risalgono a una cosa come cinque secoli fa” <285, ma, nel 2013, sostiene che la sua tradizione possa “risalire alla Commedia dell’Arte del Seicento”. Quest’ultima ipotesi è riportata anche da altre fonti: Silvia Varale, infatti, afferma che Franca “proviene da una famiglia di attori girovaghi, le cui antiche tradizioni risalgono al ’600” <286 e anche il critico letterario svedese (membro dell’Accademia di Svezia, dal 1997 al 2009) Horace Engdahl afferma: "The Rame family’s ties to the theatre are very old. Since the late 17th century, they have been actors, and puppet masters, as the occasion required". <287
Nella sua monografia su Enrico Maria Salerno, invece, Valentina Esposito <288 afferma che "La Compagnia della Famiglia Rame, compagnia di marionettisti ambulanti, era stata fondata da Domenico Rame, nonno di Tommaso, agli inizi dell’Ottocento. Nell’intestazione delle lettere a Salerno, sono indicati data e luogo del primo spettacolo: Torino 1821". <289
A corroborare quest’ultima ipotesi concorrono le parole dello stesso Tommaso Rame (lo zio di Franca), il quale, in una lettera a Enrico Maria Salerno, definisce la compagnia “antica perché il mio povero nonno Domenico in Torino diede vita al teatro nel 1821 (con spettacoli di marionette)”. <290 Certo, questo non impedisce di ipotizzare che il “povero nonno Domenico” Rame (bisnonno di Franca) potesse discendere anch’egli da teatranti ed essere, quindi a sua volta, “figlio d’arte”. Non lo si può escludere, poiché il mestiere s’imparava “a bottega” e molto spesso la bottega era la famiglia. Figli d’arte, infatti, erano coloro che vantavano un’antica e continua tradizione familiare: ad esserlo in senso assoluto, non bastava essere nato da attori. Per averne il sacro crisma, la prima condizione era l’anzianità della discendenza. Era una vera e propria nobiltà sui generis quella dei figli d’arte e tanto maggiore era la gloria di appartenervi e tanto più legittimi i diritti di appartenenza quanto a più remoti lombi risalisse la primogenitura. <291
Ad ogni modo, il solo dato certo sull’esatta collocazione storica dell’origine della compagnia è la sua fondazione ufficiale, nel 1821, il che significa comunque che essa -per dirla con le parole dello zio Tommaso- è “antica” (alla nascita di Franca, nel 1929, stando a quanto afferma Tommaso, il gruppo ha già più d’un secolo), il che ci conduce a supporre che la tradizione della Commedia dell’Arte non si sia mai del tutto interrotta, come invece riteneva Copeau e ritengono tuttora Claudia Contin e Ferruccio Merisi.
La direzione della compagnia -ponendo come sua data di nascita il 1821-, dopo Domenico (il fondatore, bisnonno di Franca), passa a suo figlio, il marionettista Pio (1849-1921), il quale, a sua volta, ha tre “figli d’arte”: Domenico (il padre di Franca) <292, Stella e Tommaso. La compagnia, però, non comincia già nella forma che ha quando Franca nasce. Per quasi cento anni, il carro dei Rame girovaga per i paesi e le cittadine del Piemonte e della Lombardia unicamente con spettacoli di marionette e burattini. I primi cambiamenti risalgono agli inizi del Novecento, quando Domenico Rame (futuro padre di Franca) “dal 1908 introdusse spettacoli in cui attori ‘veri’ affiancavano le marionette” <293. Dal 1921, poi, lo stesso repertorio destinato alle marionette viene adattato esclusivamente ad attori veri e tramandato di generazione in generazione.
Col passaggio al teatro di persona, la stessa compagnia cambia nome, per assumere quello di “Gruppo Artistico Famiglia Rame”. Dunque, abbandonato definitivamente il teatro di figura, “l’attività teatrale della compagnia drammatica ambulante continuerà fino al 1940” <294, proseguendo, così, col teatro di persona fino allo scioglimento. Così Franca spiega le ragioni del passaggio al teatro di persona: "Con l’avvento del cinema sonoro (1920), mio padre, mio zio e tutta la compagnia intuiscono che «il teatro delle marionette» sarà presto messo in crisi, schiacciato da questo nuovo straordinario e anche un po’ magico mezzo di spettacolo. Con grande dolore del nonno Pio, decidono un cambiamento radicale del loro programma e della loro condizione: «Reciteremo noi i nostri spettacoli, entreremo in scena noi, al posto delle marionette»". Così le due famiglie dei Rame si sostituiscono ai pupazzi di legno (vere e proprie sculture snodate, tre delle quali sono ancora oggi esposte al Museo della Scala di Milano). <295
Ma il passaggio al teatro di persona non rappresenta una battuta d’arresto nella vita della compagnia, anzi: mette il gruppo di fronte alla necessità di sondare nuove possibilità nella loro arte attoriale, non senza far comunque tesoro dell’esperienza passata, che si rivela fondamentale prima di tutto sul piano scenografico: "I miei hanno cominciato con il teatro delle marionette e con quello dei burattini. Padroneggiavano ambedue i mestieri. <296 Arrivato il cinema, questo tipo di teatro andò via via perdendosi. I miei capirono che dovevano cambiare genere e si misero a fare, appunto, teatro di persona, utilizzando tutti i trucchi del teatro delle marionette che conoscevano molto bene. In questo modo riuscivano a creare degli effetti da film americani di adesso, ovviamente con le dovute proporzioni. Per quei tempi era qualcosa di impensabile". <297
Quest’utilizzo di “tutti i trucchi del teatro delle marionette” e la loro applicazione al teatro di persona rappresenta il vantaggio della compagnia dei Rame, rispetto alle altre compagnie di giro dell’epoca: "montagne che si spaccano in quattro a vista, palazzi che crollano, un treno che appare piccolissimo lassù nella montagna e che, man mano che avanza nei turniché entrando o uscendo dalle gallerie, s’ingrandisce fino a entrare in proscenio con il muso della locomotiva a grandezza quasi naturale. E poi mari in tempesta, nubi che solcano minacciose il cielo tra lampi e tuoni, gente che vola, scene in tulle in primo piano, che illuminate a dovere ti facevano immaginare come fosse il paradiso". <298
I Rame sanno bene di dovere alla tradizione la conoscenza di questi mezzi, perché sono “tutti gli espedienti tecnici delle macchine di spettacolo del Seicento perfezionate dal Bibbiena dentro la scenotecnica delle marionette.” <299 Il fatto interessante non è solo il loro utilizzo nel teatro di figura, né tanto il loro successivo trasporto nel teatro di persona, quanto soprattutto la scelta consapevole di costituire, in questo modo, una forma di spettacolo realmente alternativa alla settima arte, creando sulla scena “effetti da film americani” (fatte, ovviamente, le debite proporzioni).
In qualche modo, i Rame riaffermano la peculiarità del teatro (e la sua dignità professionale: si pensi all’attività di Domenico come Presidente dell’A.I.E.S.V.) rispetto al cinema, proprio nel momento in cui, da un lato, i Futuristi decretano l’imminente morte del primo sotto i colpi del secondo e, dall’altro -di lì a poco-, il Fascismo tenterà di trasportare il modello di produzione industriale cinematografica nell’arte teatrale. Cioè, in mezzo a questi due poli, i Rame sono -di fatto- un notevole esempio di resistenza attuata dalla grande arte degli attoriautori. E in questo, ben consapevolmente, essi si riallacciano alla tradizione del teatro all’italiana, ovvero alla Commedia dell’Arte.
Pochi anni prima di questo momento di svolta, a Bobbio -dove, nel 1912, la compagnia è appena arrivata per presentare uno spettacolo di marionette-, la futura madre di Franca (Emilia Baldini) conosce Domenico. Non proviene dall’ambiente del teatro -è una maestra-, ma entra nella compagnia l’anno successivo, nel momento in cui i due si sposano. Inizialmente si occupa dei costumi delle marionette e dei burattini; col passaggio al teatro di persona diverrà la prim’attrice del gruppo. Con tenerezza Franca rievoca il loro incontro: "La loro è una storia bellissima. Lei passava la settimana a insegnare in un villaggio su in montagna, scendeva in paese solo il fine settimana. Un giorno di vacanza e di festa, arriva il teatro delle marionette per fare spettacolo. Mamma è fra il pubblico, ad applaudire incantata. Con le altre ragazze va a fare i complimenti ai teatranti e conosce mio padre. Poi arriva il carnevale. Le sette sorelle vanno al ballo con eleganti abiti cuciti da loro stesse. Nel grande salone c’è mio padre, che indossa un abito azzurro da re. I due si guardano e ballano fino a tarda notte, fulminati. [...] Si sono scritti per un anno, poi si sono sposati". <300
Lo scioglimento della compagnia risale -come già detto- al 1940, cioè corrisponde all’entrata dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale. Nel corso degli anni di guerra, il teatro viaggiante della famiglia, infatti, viene destinato dal regime ad altro uso. Questo non implica l’interruzione dell’attività teatrale di tutti i membri della famiglia: Domenico continuerà a occuparsi di teatro fino alla morte, nel 1948; Franca, rimasta al seguito del padre nella sua attività d’attrice (dopo una breve parentesi in cui tenta di diventare infermiera), lascerà la famiglia nel 1950, assieme alla sorella Pia, per prodursi nella rivista: nella stagione 1950-’51 verrà, infatti, scritturata nella compagnia primaria di prosa di Tino Scotti <301 per lo spettacolo "Ghe pensi mi" <302 di Marcello Marchesi <303, in scena al Teatro Olimpia di Milano.
Tornando al suo teatro viaggiante, la compagnia teatrale girovaga dei Rame "si esibiva in un suo teatro in legno, smontabile, che conteneva oltre 800 posti a sedere e girava per i paesi e le cittadine della Lombardia, Veneto e Piemonte, recitando drammoni e operette. (Durante la guerra venne requisito dal governo e fu usato come ospedale da campo)". <304
Franca racconta dettagliatamente come fosse fatto questo teatro, a cominciare dai nomi dei macchinari, che le dovevano sembrare strani, dal momento che lo zio Tommaso, alla domanda, postale da lei, sulla loro origine "rispose: «Ce li siamo presi dalla marineria, a partire dalle corde, che noi chiamiamo appunto ‘cime’ come i marinai, e poi la fune lunga e la media; le vele, la randa di quinta, le fiancate e gli stangoni; dai marinai abbiamo appreso anche lo stesso modo di far nodi, di issare le scene e i fondali». «Ma che vuol dire questo? Che i primi attori erano marinai?» «No, non propriamente, ma di certo conoscevano bene come si costruisce una nave.»" <305
Perché questi primi attori conoscessero “bene come si costruisce una nave” non ci viene chiarito, ma è abbastanza per comprendere la ragione per cui Domenico chiamasse questo teatro viaggiante “Arca di Noè” <306. In realtà, dietro questo appellativo si rivela anche un riferimento religioso, rivisitato in chiave architettonica. Prosegue, infatti, Franca, sempre in merito: "Di qui, per analogia, mi appare l’immagine del nostro teatro smontabile. Mio fratello, che aveva qualche nozione d’architettura, diceva che era stato progettato secondo i canoni tipici di una primordiale chiesa metodista. [...] «Che significa?» gli chiesi. Enrico mi rispose: «Quando i Quaccheri arrivarono in America cercarono di mettere in piedi strutture che permettessero di raccogliere qualche centinaio di persone e tenerle al coperto. Usavano il legno, e la pianta di quelle piccole chiese era a croce.» [...] A nostra volta abbiamo scelto quell’impianto. Ogni asse o tavola era stata preparata «a terra» e issata solo dopo che tutti i pezzi erano approntati. Si sceglieva un prato o un terreno solido su cui si disegnava la pianta, e via!" <307
La stessa costruzione del teatro doveva affascinare Franca, che ne ha ricordi risalenti all’infanzia, ma riporta anche particolari interessanti sulla sua struttura: "Mi ricordo la prima volta che montarono il teatro, avevo poco più di sei anni: vidi gli operai issare quei pali tenendoli ritti per mezzo di funi. Lassù, in cima a lunghe scale, stavano i carpentieri, che incastravano i traversoni delle trabeazioni e poi li bloccavano coi bulloni. Era il vanto di mio padre, quando, ammirandolo, esclamava pieno d’orgoglio: «È come l’Arca di Noè, questo nostro vascello, tutto a incastro senza manco un chiodo. Si può montare o smontare in una giornata sola!» Dopo un paio d’ore ecco la gabbia dell’intero edificio già leggibile e pronta perché vi venissero sistemate le pareti. <308 [...] «Fate attenzione» disse a ‘sto punto mio padre, «vi voglio far notare un particolare straordinario di questa nostra struttura mobile: in primavera, d’estate e in autunno noi potremo dar spettacolo al fresco, senza pareti!» Così dicendo diede l’ordine e gli operai spinsero le pareti che si spostavano sulle loro guide. Mio padre contava ad alta voce: «Uno, due, tre...» Arrivò al dieci e tutte le pareti erano sparite, nascoste dietro il fondale. Un «ooh!» di meraviglia esplose sotto le trabeazioni del nostro tempio magico". <309
Franca racconta anche la ragione che spinge la famiglia a dotarsi di un teatro di questo tipo: essa risiede, sostanzialmente, nell’esigenza di disporre di uno spazio in qualche modo libero, non soggetto a condizionamenti esterni e a censure. A questo proposito, narra un aneddoto che sarà opportuno riportare per intero: "Pia, la seconda delle mie sorelle, [...] si lamentava a tormentone di questo andare in giro per piazze, costretti a subire le angherie, spesso ricattatorie, dei gestori delle sale private, parrocchiali o comunali, senza nessun rispetto della parola data o di un contratto stipulato e depositato. L’insulto che fece esplodere la rabbia nella nostra compagnia fu determinato dal parroco di un orrendo borgo del Lecchese che, dopo la rappresentazione del 'Giordano Bruno', dal fondo della platea arrivò come un giudice dell’Inquisizione in palcoscenico e ci ordinò brutalmente di far fagotto. Il prete gestore del locale salì in palcoscenico e urlò: «Tirate su i vostri stracci e, fra un’ora, voi e la vostra gente: sloggiate!» Mio padre diventò pallido, quasi più bianco dei suoi capelli bianchi, poi chiese: «Cosa vi ha tanto indignato, dello spettacolo?». «Il fatto del supplizio prima del rogo», rispose don Giussani (così si chiamava il prete), «quel far ingoiare uno straccio al condannato e poi tappargli la bocca con quella museruola perché non potesse proferir parola: questa è proprio una insopportabile menzogna gratuita da socialisti». Sempre per inciso devo ricordarvi che il fatto avveniva nel 1935, cioè in pieno fascismo, e fra Mussolini e il Vaticano si era appena firmato il famoso Concordato. «Macché gratuita!» risponde mio padre. «È nel testo accettato dal Ministero e già rappresentato centinaia di volte in Italia!». «Non me ne importa un fico dei timbri e dei permessi. Qui nel mio teatro non accetto i rossi, e basta così.»
Facemmo fagotto, come si dice, tutti zitti, nessuno proferì parola, ma era un silenzio più rumoroso di un uragano. Mi ricordo che quella notte io dormivo nella stessa camera di mio padre e mia madre. Loro continuavano, seppur sottovoce, a parlare. Ogni tanto sbottavano in grida. A un certo punto mi alzai avvolta nella coperta e protestai: «Io domani devo andare a scuola e voi non mi fate dormire. Non voglio addormentarmi come al solito con la testa sul banco!». «No, non preoccuparti, non dovrai andarci a scuola. Domani si parte per Novara.». «Recitiamo lì? In che teatro si va?». «Nel nostro. Lì c’è una cooperativa di carpentieri che ce lo costruirà.»" <310
L’episodio è molto esplicativo sia della formazione politica di Franca, sia delle scelte che, negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, lei farà con Dario. Da questo aneddoto, infatti, s’intuisce quanto la percezione del mondo come luogo che non permette una reale libertà espressiva sia radicata, nell’interiorità di Franca, fin dall’infanzia, tanto che potremmo dire che essa costituisca il proprio DNA politico, la propria eredità genetico-ideologica. È l’esperienza della propria famiglia a far crescere in Franca la consapevolezza che gli spazi di libertà vanno conquistati e che nessuno li concede (o, quanto meno, non senza secondi fini). Ma quell’esperienza infonde in lei, fin dalla giovinezza, anche il senso della definizione di “spazio libero”: si tratta di costruire luoghi di fronte ai quali lo Stato (o tutto ciò che, in qualche modo, rappresenta i poteri forti del mondo - sia pure un banale parroco di paese) faccia un passo indietro, per permettere ai singoli spiriti liberi di poter fare un passo avanti. È quello spazio che -facendo un calembour col suo nome di battesimo- chiamiamo qui “Zona Franca” [...]
[NOTE]
278 STOPPINI, Alessandra, “Intervista allo scrittore Joseph Farrell e all’editrice Silvia Della Porta”, 10 luglio 2013, in: http://www.sololibri.net/Intervista-allo-scrittore-Joseph.html, consultata il 9 luglio 2016.
279 Ibidem.
280 In ricordo della compagnia (che meriterebbe uno studio a sé stante), Franca ha scritto e recitato un incontro-spettacolo intitolato Ricordi di famiglia, andato in scena per la prima volta a Bobbio il 29 aprile 2000, nel quale propone una carrellata di inedite situazioni vissute in famiglia tra il comico e il grottesco. Cfr. [AUTORE NON INDICATO], “A Bobbio con Franca Rame mostra e ricordi di famiglia”, in: «Libertà», 23 aprile 2000.
281 RAME, Franca, Non è tempo di nostalgia, cit., p. 20.
282 RAME, Franca, FO, Dario, Una vita all'improvvisa, cit., p. 11.
283 Ivi, p. 12.
284 È il caso, per esempio di Enrico Maria Salerno. Nato a Milano nel 1926, entra nell’autunno del 1945 (a diciannove anni) nella Compagnia Rame - sotto la direzione di Tommaso -, come contrasto (così, nel gergo dei girovaghi, vengono chiamati gli estranei alla famiglia), cercando, allo stesso tempo, di conciliare la nascente vocazione d’attore con la frequenza regolare dei corsi all’Università. Franca racconta che, per spiegare la sua scelta, egli “disse: «Io sono venuto qui per imparare. Sono già stato allievo di un’Accademia d’Arte, ma dopo un mese mi sono reso conto che stavo perdendo il mio tempo. Qui invece sento che mi posso arricchire di qualcosa. Per favore, insegnatemi a recitare alla vostra maniera.»” (Ivi, p. 18) Rimarrà nella compagnia fino all’aprile del 1946.
285 Ivi, p. 21.
286 VARALE, Silvia, “Nel laboratorio di Dario Fo e Franca Rame. 1 - A colloquio con Franca, un’operosa ape regina”, in: D’ANGELI, Concetta e SORIANI, Simone (a cura di), Op. cit., p. 11.
287 ENGDAHL, Horace (a cura di), Nobel Lectures. Literature 1996-2000, New Jersey, London, Singapore, Hong Kong, World Scientific, 2002, p. 21.
288 Regista e drammaturga, Valentina Esposito (Roma, 1975), dal 1995 lavora presso il Centro Studi “Enrico Maria Salerno”, svolgendo attività di promozione culturale e produzione teatrale a livello nazionale ed europeo, con particolare attenzione ai problemi sociali. Dal 2003, collabora con Fabio Cavalli nella direzione del Laboratorio Teatrale del Carcere di Rebibbia, a Roma (testimoniato dal film "Cesare deve morire" dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani, di cui, tra il 2011 e il 2012, è stata responsabile organizzativa della parte teatrale). Nel 2013 ha fondato, con Fabio Cavalli, l’Accademia di Teatro Sociale con i detenuti in misura alternativa e gli ex detenuti del Carcere di Rebibbia - laboratorio di formazione teatrale permanente esterno al carcere. Attualmente Insegna Teatro nel Sociale presso l’Università La Sapienza di Roma. Ha esordito nel cinema con la regìa di "Ombre della sera", docu-film interpretato dai membri dell’Accademia di Teatro Sociale e Pippo Delbono (Italia, colore 2016).
289 ESPOSITO, Valentina, Il teatro di Enrico Maria Salerno: 1945-1994 (Tesi di Laurea in Scienze Umanistiche - Corso di Laurea in Lettere - Università “La Sapienza” di Roma), 2004, p. 8, scaricabile alla pagina web: http://enricomariasalerno.it/biografia_artistica.htm, consultata il 10 luglio 2016.
290 RAME, Tommaso, “Lettera a Enrico Maria Salerno”, Varese, 30 maggio 1959, in «Archivio E.M.S. - Epistolario». L’«Archivio Enrico Maria Salerno» si trova a Castelnuovo di Porto (Roma), all’interno dell’abitazione dell’attore.
291 TOFANO, Sergio, Il teatro all’antica italiana, Roma, Bulzoni Editore, 1985, pp. 71-72.
292 Domenico Rame (1885-1948) ha ideali socialisti. Nel 1913 sposa Emilia Baldini ed è sotto la sua direzione che la compagnia passa dal teatro di figura a quello di persona. Il fratello Tommaso (1888-1968) è suo stretto collaboratore. Nominato Cavaliere nel 1936, Domenico, dal 1940, sarà Direttore del Teatro Odeon di Milano (dove proprio Dario Fo muove i suoi primi passi) e, di lì a poco, Presidente dell’Associazione Italiana Esercenti Spettacoli Viaggianti (A.I.E.S.V.).
293 [AUTORE NON INDICATO], “Lo Scheletro di Pio Rame”, in: Catalogo del Museo dei Burattini di Budrio. Collezione Zanella-Pasqualini, Comune di Budrio (Bologna), 2000, p. 46.
294 Ibidem.
295 RAME, Franca, FO, Dario, Una vita all'improvvisa, cit., pp. 39 e 41.
296 Sarà bene, qui, precisare che la marionetta è un pupazzo di legno, stoffa o altro materiale, che compare in scena a corpo intero ed è mosso a distanza o con accorgimenti non visibili (i fili, il più delle volte, che la muovono dall’alto); mentre il burattino è un pupazzo con il corpo di pezza e la testa di legno o di altro materiale, che compare in scena a mezzo busto ed è mosso dal basso, dalla mano del burattinaio, che lo infila come un guanto. Nell’Ottocento, tuttavia, quest’ultimo termine diviene talmente popolare da indicare entrambi i tipi di pupazzo (il che spiega perché Pinocchio -che tecnicamente è una marionetta- sia definito dal Collodi “burattino senza fili”).
297 RAME, Franca, Non è tempo di nostalgia, cit., p. 20.
298 RAME, Franca, FO, Dario, Una vita all'improvvisa, cit., pp. 41-42.
299 Ivi, p. 42.
300 RAME, Franca, Non è tempo di nostalgia, cit., pp. 25-26.
301 Dopo essere stato calciatore professionista tra il 1924 e il 1933, Tino Scotti (1905-1984) inizia la carriera come attore di teatro, calcando le assi di palcoscenici sui quali vengono prodotti spettacoli di varietà e di teatro di rivista. Dotato di una memoria eccezionale e di una straordinaria capacità oratoria, si contraddistingue per la velocità e la precisione delle sue parlate, sempre convulse e frenetiche, ma mai incomprensibili. Per questo motivo, viene benevolmente soprannominato Tino “Scatti”. Da buon caratterista, inventa due personaggi destinati a segnarne il successo: il cavaliere con il famoso motto “Ghe pensi mi” e il bauscia, emblemi di una milanesità agli antipodi.
302 Interpretato, insieme a Tino Scotti, da Franca e Pia Rame, Sandra Mondaini e Annì Celli.
303 Intellettuale poliedrico, Marcello Marchesi (1912-1978) è giornalista, scrittore di varietà radiofonici e televisivi, sceneggiatore, regista cinematografico e teatrale, paroliere, attore e talent scout. Ha scritto e diretto una conquantina di testi per il teatro di rivista, interpretati dai più importanti attori e dalle più importanti attrici in Italia.
304 [AUTORE NON INDICATO], “Biografia - Franca Rame”, consultabile alla pagina web: http://www.archivio.francarame.it/bioFranca.aspx, consultata l’11 luglio 2016.
305 RAME, Franca, FO, Dario, Una vita all'improvvisa, cit., pp. 22-23.
306 Ivi, p. 20.
307 Ivi, pp. 23-24.
308 Ivi, p. 24.
309 Ivi, p. 26.
310 Ivi, pp. 24-25.
Fabio Contu, Zona Franca (Rame), Tesi di dottorato, Università di Siviglia, Anno accademico 2016-2017

Enrico Maria Salerno inizia il suo apprendistato d’attore sul palcoscenico ambulante della famiglia Rame. E’ l’autunno del 1945, la compagnia percorre le province del Piemonte e della Lombardia ridotte in macerie dai lunghi anni di guerra.
A bordo del carro “La balorda”, Tommaso Rame allestisce nelle piazze dei paesi l’antico repertorio un tempo destinato al teatro di marionette. Nel suo “registro delle recite”, annota le partecipazioni dei giovani allievi-attori. Il nome di Enrico Salerno compare accanto a tre ruoli: Giuliano Dè Medici nel Cardinale di Louis Napoléon Parker, il Tenente Ruggero ne Le due orfanelle di Adolphe Dennery e Paride nel Romeo e Giulietta di Shakespeare.
La tradizione che la famiglia porta con sé è quella della commedia dell’arte, una tradizione antica che si tramanda di padre in figlio direttamente sul palcoscenico. Accanto ai “figli d’arte”, Salerno impara le regole del “recitare all’improvviso”, gli schemi fissi dei canovacci, le convenzioni che reggono il teatro delle parti e dei ruoli.
Ha un grande amore per la scrittura. A Milano riesce a lavorare come cronista e reporter per la Cineteatro-Lancio, frequentando contemporaneamente i corsi di regia: ha appena vent’anni quando intervista Vittorio De Sica.
Valentina Esposito, Il teatro di Enrico Maria Salerno: 1945-1994, Tesi di laurea, Università “La Sapienza” di Roma, 2004

domenica 12 giugno 2022

Una tipografia partigiana clandestina a Lerici

La villa che ospitò la stamperia clandestina - Fonte: Amanda Antonini, Op. cit. infra

Una delle prime basi di stampa [clandestina] fu creata alla Spezia, nel quartiere operaio del Canaletto, e fu installata, dopo l’8 settembre, in casa di Faustino Gelli, un artigiano di origine toscana, uno dei più infaticabili animatori della Resistenza nel quartiere spezzino.
Da questo centro del Canaletto uscirono i primi appelli scritti su carta-riso o ciclostilati, che venivano posti nelle cassette della posta, lanciati nei portoni, abbandonati sui sedili dei tram, nei locali pubblici, collocati vicino alle macchine operatrici delle fabbriche, perché li potessero leggere tutti e potessero giungere ai giovani affinché non si presentassero alla chiamata alle armi dei repubblichini. <69
Ma, qualche macchina da scrivere o qualche ciclostile, non potevano soddisfare il bisogno crescente di informazioni e di orientamento; di giorno in giorno si rivelava più forte la necessità di disporre di una tipografia.
Presentare ai cittadini un foglio stampato tipograficamente e non scritto con mezzi tanto comuni (come è una macchina dattilografica, che alla fin fine poteva anche essere adoperata da singoli, più o meno avventurosi), era come dare la prova che esisteva una organizzazione ben solida e responsabile.
Scartata l’idea di appoggiarsi a qualcuno degli operai delle tipografie ancora funzionanti, per la comprensibile ragione che esse erano sotto l’assiduo controllo di nazifascisti o anche per il fatto che fra le maestranze potesse esservi alcuno di cui non fidarsi, si decise di creare, con i mezzi che erano ancora tutti da trovare, una tipografia completamente nuova e clandestina.
Già tra il 1929 e il 1933, venne prescelto Lerici per il suo prevalente carattere di località balneare e turistica, senza presenza di fabbriche, dove quindi non si dava per temibile la presenza di una estesa, capillare e perciò forte organizzazione di classe operaia, capace di dar vita ad un delicato congegno quale è sempre un centro di stampa. <70
Per le stesse ragioni, Lerici fu ritenuto il luogo più idoneo, sia per sviare ogni e qualsiasi ricerca della base di produzione della stampa, sia per collegarsi più rapidamente con i centri più vivaci della lotta, con La Spezia e specialmente con i nuclei più forti e organizzati di antifascisti, come Pitelli, Muggiano, Canaletto e Melara, e poi ancora con Arcola e Sarzana, che erano da sempre i Comuni più antifascisti ed aperti alla diffusione della stampa clandestina.
Al compagno Argilio Bertella venne in mente che posto più sicuro per la tipografia non poteva essere che la vecchia villa appartenente ai Marchesi De Benedetti costruita ai primi dell’800 sui monti della Rocchetta. Lontano dalle vie di comunicazione più praticate, quel casamento era poco abitato dai padroni, già da molti anni, tanto che a Lerici se ne andava dimenticando l’esistenza.
La costruzione, ancora oggi difficile da trovare tanto la vegetazione la tiene nascosta, era immersa tra gli alberi di un parco, che già tendeva a inselvatichirsi; i contadini ed i pastori del posto denominavano ormai il luogo con il nome significativo di “Fodo”, termine che nel dialetto lericino significa appunto “sito in cui la vegetazione è fitta e fosca”.
Nel 1943 la villa era di proprietà dell’avvocato Fontana di Carrara. Le informazioni presto assunte diedero la favorevole conferma che il Fontana era avvicinabile perché nella sua città aveva aderito al movimento antifascista.
Recatosi nella sua casa, Alfredo Ghidoni (a cui venne affidata la responsabilità della Stampa e Propaganda e quindi dell’allestimento della tipografia clandestina di Lerici), contrattò l’affitto, che fu fatto figurare in testa a Merani Virgilio, costruttore di barche a vela, che agli occhi dei fascisti, poteva ben permettersi di affittare una villa per stabilirvisi con la sua famiglia, come sfollati. L’accorgimento funzionò.
Il compito di redattore e tipografo venne affidato a Tommaso Lupi.
Sotto il profilo operativo restavano però da risolvere difficili problemi iniziali e condizionanti: trovare e procurare la macchina tipografica, con il relativo corredo di caratteri e di materiale da composizione; trasportare tutto ciò, eludendo la vigilanza dei molti posti di blocco; approvvigionarsi della carta e dell’inchiostro; individuare il sito più sicuro per sistemarvi la tipografia, in maniera che a nessuno potesse venire in mente che potesse funzionarvi un apparato tecnico del genere.
La macchina, una vecchia pedalina, fu presa dalla tipografia Zappa in Via Duca di Genova (ora Fratelli Rosselli). Qualcuno aveva informato che era abbandonata, come un ammasso di ferro vecchio, in un cortile adiacente allo stabilimento e che il padrone era disposto a vendere.
La macchina tipografica, del peso di ben 7,5 quintali, venne caricata in un carro trainato da un robusto cavallo e celata sotto quantità sufficiente di fieno; poi con grande rischio trasportata sino alla villa.
Se si fosse presa la strada più diretta per Lerici, non si poteva dare ad intendere a nessuno che si portava un carico di ferro vecchio ad una fonderia, perché a Lerici non ve n’erano.
Si decise di percorrere la strada di collina: Termo, Baccano, Canarbino, Pitelli, Pugliola, Rocchetta; tragitto più lungo ma certo meno battuto dal pattugliamento tedesco e quindi più sicuro. Una volta arrivata a destinazione la macchina venne montata pezzo dietro pezzo a ritmo febbrile.
La stampa veniva effettuata prevalentemente nelle ore in cui vi era il coprifuoco; tuttavia il fracasso, che la vecchia macchina faceva, era notevole e non poteva non dare preoccupazione.
Il rumore di una macchina tipografica era tipico con la sua cadenza e facile quindi da essere individuato.
Si pensò subito ad utilizzare la grande cisterna vuota, sottostante all’aia lastricata, da molto tempo fuori uso, quindi non umida e in buone condizioni di praticabilità.
Quando l’imboccatura della cisterna era ben tappata con il suo coperchio, all’esterno quasi non si sentiva nulla e comunque quello che si sentiva risultava indistinguibile a chi passava da quelle parti.
Si decise quindi di trasferire la macchina nella cisterna, di murare l’imboccatura naturale e, per accedere al vano, di scavare una piccola galleria di collegamento nel muro che dava direttamente nel bosco, dove, tra l’altro, approfittando della sorpresa, nel caso che si presentassero i tedeschi o le brigate nere, ci si sarebbe potuti nascondere meglio.
Con molta fatica di scalpello fu aperto così un buco nella spessa parete della cisterna, e purtroppo tempo prezioso occorse per smontare la macchina, che altrimenti non avrebbe potuto essere calata attraverso l’imboccatura per collocarla poi nel nuovo ambiente. <71
Durante le operazioni di stampa, tenuto conto della rumorosità, era prevista la guardia costante di un compagno che, con un bastone battuto sull’aia sovrastante, avrebbe dato un eventuale segnale dall’allarme allo stampatore in cisterna. <72
Una volta superato il rischio dell’acquisto della macchina, si doveva affrontare di continuo quello dell’acquisto della carta. Detto approvvigionamento, realizzato ad opera di Ghidoni, risultò la più delicata operazione.
Non si poté contare su una disponibilità esistente in qualche grosso magazzino, anzi alla Spezia, dove non ci sono e non c’erano allora cartiere, c’era la più assoluta scarsità di carta. Chi ne avesse acquistato in quantità notevole e non fosse conosciuto come gestore di tipografia, avrebbe sicuramente suscitato sospetti.
Il pericolo restava sempre quello che individuassero dove ci si riforniva di carta e di qui potessero risalire alla base della stampa. Dovettero perciò adottare ogni possibile accorgimento per eludere gli appostamenti ed i pedinamenti predisposti sicuramente presso le cartolerie ed i magazzini di rivendita di carta.
Si pensò poi, ad acquistare e procurare fuori mano alcune casse di caratteri tipografici necessari per comporre. Li andò a comprare Lupi, a Pistoia.
Si badò che fossero nuovi di zecca, e non invece già usati, per rendere impossibile, anche alla più meticolosa indagine poliziesca, l’individuazione della provenienza della stampa che ne sarebbe uscita.
Questo particolare accorgimento di usare caratteri nuovissimi servì, infatti, a far risultare vani tutti i tentativi e le investigazioni promosse dai nazifascisti per risalire alla provenienza degli stampati. Quando essi cominciarono a circolare giunsero, per l’appunto, anche agli uffici dei comandi militari e polizieschi dei nazifascisti.
Quando, entro pochi giorni alla fine di novembre, il primo volantino uscì fresco d’inchiostro da quello che poco prima era soltanto un ammasso di ferraglia, l’animo di chi aveva contribuito a quell’impresa era colmo di legittimo orgoglio.
Piena era la loro consapevolezza di aver dotato il movimento di liberazione spezzino di un potente strumento di lotta capace di armare le coscienze e di concorrere a distruggere, con la forza del ragionamento e della verità dei fatti che si susseguivano, tutti i castelli di menzogne della martellante propaganda repubblichina, più di quanto non si era riusciti a fare, fino ad allora, con le sole macchine da scrivere o con i ciclostili.
Vennero stampati manifestini rivolti alternativamente ai lavoratori delle fabbriche, per appoggiare le loro rivendicazioni, alla popolazione, alle donne, ai giovani. Il linguaggio era rapido, conciso, tale da imprimersi subito nella mente anche a gente che leggesse furtivamente e con tutti gli accorgimenti necessari per non farsi sorprendere.
I lavoratori e gli antifascisti chiedevano ed avevano bisogno di questa stampa che li informasse della situazione politica interna ed estera, che li incitasse alla lotta contro il fascismo.
Chi leggeva la stampa offriva una quota a favore del Soccorso rosso (organizzazione che forniva aiuti ai militanti); nelle grandi fabbriche, specie nello stabilimento dell’OTO Melara, vi era una rete di attivisti, diffusori e raccoglitori di denaro, che in parte serviva per acquistare la carta e l’inchiostro. <73
Venne il giorno in cui si iniziò a stampare, seppure senza una regolare periodicità, addirittura una edizione spezzina dell’Unità, quattro povere paginette a due colonne e niente di più, ma ricche di carica ideale e attese per le informazioni, che davano sugli scioperi e sulle azioni contro i fascisti.
Giunsero dalla Francia, con cadenza mensile, sottili cliché in zinco fuso, tali da poter essere pressati nei coperchi delle valigie dei corrieri (spiegò Lupi che si era adottato tale accorgimento dopo che alcuni corrieri erano stati scoperti nel trasporto di pacchi di volantini nei doppi fondi delle valigie).
Col sistema del cliché inchiostrato, si appoggiava su questo un foglio bianco, poi lo si pressava con un rullo a secco; dopo di che occorreva far asciugare una notte i fogli così stampati per poi passare a stampare l’altra facciata. In tal modo su di un foglio di due pagine usciva l’Unità clandestina, con una tiratura di cinquecento o mille copie a seconda dei momenti. <74
Di indubbia maggiore efficacia risultò l’edizione spezzina. Si comprese che un organo di stampa locale sarebbe concretamente servito a dare prova della crescente efficienza che conseguiva il movimento partigiano.
L’immediatezza delle notizie avrebbe fatto comprendere ai resistenti a che cosa fosse servito l’apporto, all’apparenza anche modesto, che ogni singolo aveva dato.
I collegamenti con la tipografia erano un capolavoro di paziente e di intelligente tessitura. Niente fu affidato al caso: un solo passo falso avrebbe potuto pregiudicare irrimediabilmente non solo ciò che, con grande capacità politico-organizzativa, venne messo insieme a Lerici, ma forse tutta l’organizzazione politica clandestina nell’intera provincia, compresa quella militare.
Il tessuto dei collegamenti era complesso, a cominciare dal recapito dei testi manoscritti con le direttive e con le notizie pronte per la divulgazione e dal rifornimento del materiale necessario, nella quantità richiesta dalla ininterrotta produzione, per giungere poi alla fase di smistamento della stampa prodotta.
Il materiale non veniva finito di stampare, che subito si provvedeva a fare il piano per la distribuzione: gli stampati venivano depositati in due località prefissate, dove gli incaricati, che soli sapevano il sito, passavano a ritirarlo nelle ore più opportune. Uno di questi siti era alla Venere Azzurra e l’altro a Martino di Solaro, sempre nel comune di Lerici. Di lì la stampa perveniva nelle fabbriche e nelle varie zone della provincia, passando di mano in mano, da una persona all’altra, senza che si cercasse di conoscere da dove venisse, ma sapendo bene però dove fosse da portare.
Ci fu, in tutti coloro che furono protagonisti di quelle difficili battaglie, la piena consapevolezza che la stampa clandestina costituì, nello svolgersi degli avvenimenti più significativi della Resistenza spezzina, una delle prove più alte della capacità di lotta e di direzione politica della classe operaia e del complesso intrecciarsi della iniziativa antifascista nelle fabbriche e nella guerra partigiana, con le masse popolari e con altri ceti della città e della campagna.
I Tedeschi furenti per essere stati beffati per 4-5 mesi, non ebbero la benché minima idea di dove fosse questa così importante base degli antifascisti; era facile prevedere che un giorno o l’altro i tedeschi si sarebbero fatti vivi anche sui monti della Rocchetta, dai quali si dominava tutta la costa della Versilia, la piana di Luni e la foce del fiume Magra. <75
Nell’editoriale n. 10 dell’anno XXI, agosto 1944, dell’Unità, edizione della Spezia, che vene stampato alla Rocchetta proprio in quei giorni si leggeva: “La guerra è alle porte”. <76 Questa frase apriva le quattro pagine del giornaletto stampato proprio mentre i tedeschi stavano salendo alla Rocchetta, ed è anche l’unico, fra tutti quelli stampati precedentemente, di cui si conserva una copia.
 

Accesso alla cisterna della stamperia - Fonte: Amanda Antonini, Op. cit. infra

[NOTE]
69 G. Fasoli, Una tipografia clandestina. Il centro stampa della Rocchetta di Lerici durante la lotta di liberazione, Edizioni Giacchè La Spezia 2006, p. 43-46
70 A. Giacchè, A. Bianchi, Tommaso Lupi partigiano, artefice della stampa clandestina antifascista, Edizioni Giacchè La Spezia, 2012, p. 13-25
71 G. Fasoli, Una tipografia clandestina. Il centro stampa della Rocchetta di Lerici durante la lotta di liberazione, Edizioni Giacchè La Spezia 2006, p. 51-59
72 A. Giacchè, A. Bianchi, Tommaso Lupi partigiano, artefice della stampa clandestina antifascista, Edizioni Giacchè La Spezia, 2012, p. 74-77
73 A. Giacchè, A. Bianchi, Tommaso Lupi partigiano, artefice della stampa clandestina antifascista, Edizioni Giacchè La Spezia, 2012, p. 33-35
74 G. Fasoli, Una tipografia clandestina. Il centro stampa della Rocchetta di Lerici durante la lotta di liberazione, Edizioni Giacchè La Spezia 2006, p. 64-69
75 M. Farina, La Spezia marzo 1944. Classe operaia e resistenza, Istituto storico della resistenza P.M. Beghi La Spezia 1976, p. 81-83
76 G. Fasoli, Una tipografia clandestina. Il centro stampa della Rocchetta di Lerici durante la lotta di liberazione, Edizioni Giacchè La Spezia 2006, p. 106-117
 

Caratteri tipografici utilizzati nella stamperia, rinvenuti dalla famiglia Gattoronchieri - Fonte: Amanda Antonini, Op. cit. infra

Amanda Antonini, Il potere della comunicazione tra regime e resistenza, Tesi di laurea, Università di Pisa, 2018

venerdì 3 giugno 2022

Dopo i ripetuti bombardamenti alleati al ponte di ferro sul fiume Po, i tedeschi organizzarono attracchi per traghetti

Valenza (IM): Palazzo Pelizzari, sede del Municipio - Fonte: Wikipedia

Le montagne dell'Ossola, le colline del Monferrato, le Langhe, la Val Borbera, l'Oltrepo pavese sono tutti luoghi che hanno vissuto una propria e caratterizzante storia resistenziale, oggi di facile ricostruzione e lettura.
Per le città, ciò difficilmente avviene.
Valenza ne è prova. Una città, organizzata e viva, porta con sé un patrimonio di relazioni fra istituzioni, fra poteri pubblici, centri di riferimento economico e sociale.
Negli anni 30'- 40' Valenza, pur in presenza dell'autarchia di Regime, era legata a filo doppio con Alessandria e Casale Monferrato; sviluppava relazioni con la Lomellina, con Pavia e Milano, con Genova e Torino.
Le vie di comunicazione stradale e ferroviaria erano adeguate, poste a raggiera, con frequenti intersezioni verso Milano, Torino e Genova; il Po fungeva da confine fisico fra Piemonte e Lombardia, ma anche da via di traffico e comunicazione naturale.
Le aziende orafe e calzaturiere alimentavano traffici a dimensione più ampia, oltre i confini italiani; i gerarchi fascisti erano correlati al capoluogo provinciale e da qui verso Torino e Roma; le scuole servivano parecchi paesi limitrofi, con scambi di culture fra contadini, operai, artigiani, imprenditori; il Regime aveva da decenni promosso ed organizzato il consenso, con tutte le varie iniziative di proselitismo e indottrinamento.
Era una città articolata, fatta di vissuto diverso, una città aperta e geograficamente polarizzante.
Furono proprio questi fattori a far decidere gli occupanti tedeschi a scegliere Valenza come centro per collocarvi comandi di polizia, squadre di milizie SS, sezione SD Sicherheit Dienst, militari della Wehrmacht, l'organizzazione Todt, la Zugleitung, postazioni di contraerea della Flak, gruppi di genio pontieri.
La presenza tedesca si rafforzò, dopo che Alessandria divenne sempre più frequente bersaglio dei bombardamenti alleati.
A Valenza venne trasferito il comando provinciale delle truppe tedesche. Non solo, vennero intensificati tutti i controlli sulle vie di comunicazione, sulla rete ferroviaria, sul fiume Po, ad ogni attracco di barche e sui vari ponti di attraversamento fra Trino, Casale e Valenza.
In questo contesto va collocata la storia resistenziale di Valenza, una città occupata dai tedeschi perchè ritenuta strategica, una città cerniera fra due regioni, una città sotto il dominio capillare della K 1014 Kommandantur e l'ausilio delle rinate presenze repubblichine, con comandi della G.N.R. e Brigate Nere.
Pur in questo difficile contesto, sorsero le formazioni GAP (gruppi di azione patriottica) di Enzo Luigi Guidi, detto Batista; poi alcune esperienze di SAP (squadre di azione patriottica); la componente comunista, come in passato era stata fattore determinante dell'antifascismo locale unitamente alla matrice socialista, costituì una significativa ispirazione per le formazioni partigiane; venne ricostituita la sezione del PCI, mix di militanza politica ed ideologica.
I distaccamenti Rasinone e Paradiso, il gruppo di Ticineto-Valmacca della Garibaldi, vissero fasi diverse di organizzazione, in crescendo per adesioni ed efficacia. Si affermarono, inoltre, le formazioni GL Paolo Braccini con la brigata Pasino, al comando di Carlo Garbarino fra San Salvatore e Castelletto Monferrato; con la brigata Lenti al comando di Filippo Callori nell'area di Vignale.
Operarono, inoltre, la Divisione Matteotti-Marengo Borgo Po, tra Valle San Bartolomeo-Filippona-Lobbi; la Divisione Patria fra Occimiano-Mirabello-Giarole; la brigata 108 Paolo Rossi della Garibaldi, con il distaccamento nell'area di Bassignana-Fiondi-Pecetto-Grava-Mugarone <1
Attorno a Valenza, mese dopo mese, venne creata una rete capillare ed efficace di dissenso operativo. Le formazioni partigiane si impegnarono in consistenti azioni di sabotaggio e danneggiamento verso i posti di blocco e controllo dei nazifascisti; ospitarono e nascosero per mesi i prigionieri alleati inglesi, americani, australiani, neozelandesi liberati dai campi di concentramento-prigionia del Piemonte e Lombardia e dal Forte di Gavi.
La stazione e la galleria ferroviaria fra Valenza e Valmadonna costituirono per mesi l'obiettivo di furti, saccheggi da parte delle formazioni partigiane.
Sull'arteria ferroviaria, infatti, i tedeschi fecero transitare armi e viveri verso altre località lombarde e piemontesi, per evitare i frequenti bombardamenti alleati su Alessandria.
In alcune circostanze, i partigiani nascosero le armi e munizioni saccheggiate ai tedeschi proprio all'interno della galleria di Valmadonna.
Le formazioni GAP attaccarono a più riprese le postazioni tedesche; le azioni di sabotaggio sono ampiamente documentate e citate in numerosi dispacci e fonogrammi che i tedeschi inviavano giornalmente ai comandi superiori, fonogrammi rinvenuti recentemente, tradotti e pubblicati nel volume "Resistenza e nuova coscienza civile" a cura dell'autore.
I comandi tedeschi giunsero a comminare multe salatissime ai comuni del Valenzano per disincentivare le attività di sabotaggio. Le multe dovevano essere pagate al comando tedesco di Valenza. I tedeschi non solo occuparono il territorio, ma inflissero sanzioni per punire le azioni di dissenso delle popolazioni.
Gli esordi, il CLN, una città controllata dai tedeschi.
La caduta di Mussolini del 25 luglio e l’armistizio dell' 8 settembre 1943 rialimentarono le convinzioni e le speranze per la libertà, anche a Valenza. Durante il ventennio fascista, il dissenso esplicito venne rappresentato, in modo efficace, dal socialista Francesco Boris, già capostazione. Non aderì al Fascio, dovette cercarsi un altro lavoro. Le organizzazioni comuniste, pur nell'omologazione dissuasiva del Fascio, tennero vivo il pensiero antifascista attraverso cellule di militanti. A Valenza era operativa una sezione comunista a tutti gli effetti, con riferimenti organici con Alessandria e Torino.
Anche nelle file cattoliche, si costituì nel ’42 la prima sezione della DC, d’ispirazione degasperiana. Nel laboratorio della farmacia Manfredi, alla presenza dell’ex popolare avv. Giuseppe Brusasca, venne fondata la sezione. Contribuirono Carlo Barberis, Gigi Venanzio Vaggi, Luigi e Vittorio Manfredi, Pietro Staurino, Luigi Deambroggi, Luigi Stanchi, Giuseppe Bonelli e Felice Cavalli. La sezione sviluppò immediatamente temi ed iniziative di dissenso clandestino al regime.
Alla notizia dell’arresto di Mussolini, nell’abitazione di Francesco Boris, si tenne un primo incontro per costituire il CLN valenzano. Accanto a Boris per il partito socialista, vi aderirono Luigi Vaggi per la DC, Ercole Morando per il PCI, Vittorio Carones per il Partito d’Azione e Poggio per il PLI, poi sostituito da Barberis detto Cuttica.
Il CLN di Valenza tenne varie riunioni, cambiando sede di volta in volta, per non destare sospetti. Si svolsero a casa Boris, a casa di Costantino Scalcabarozzi, in casa Mazza alle Terme di Monte Valenza, a casa dei fratelli Marchese, nella biblioteca Silvio Pellico dell’oratorio del Duomo di Valenza. <2
Francesco Boris e Paolo De Michelis (già parlamentare socialista negli anni ’20) furono arrestati a marzo 1944 e condotti nella sezione tedesca delle Carceri Nuove a Torino, per poi essere inviati nei campi in Germania. Vennero poi liberati, grazie ad uno scambio di prigionieri.
Il 16 gennaio 1944, il ventenne Sandro Pino venne colpito a morte in occasione di una perquisizione e retata della G.N.R. nel bar Achille, nel pieno centro, alla caccia di antifascisti e ribelli. Il fatto destò grande sconcerto ed intimorì i giovani. Giulio Doria, antifascista ed aderente a metà ’44 al movimento partigiano, ricorda dettagliatamente quei difficili momenti nell’intervista rilasciata a Maria Grazia Molina e pubblicata nel n. 23 di “Valenza d’na vota” edito a dicembre 2008. Il fratello di Giulio, Mario, aderì subito alla formazione autonoma Patria, guidata da Edoardo Martino e Giovanni Sisto. Il secondo fratello, Pietro, visse anni di prigionia in Germania, come militare catturato dai tedeschi. Giulio disertò la chiamata alla Capitaneria di Savona e si diede alla macchia, nella campagna valenzana. Giulio ricorda d’aver curato e nascosto cinque militari australiani, sfuggiti alla cattura dei tedeschi; di averli poi avviati in Lombardia. Anche Giulio entrò nella brigata autonoma Patria, si collegò con Vaggi e tesse una fitta rete di relazioni fra la città ed i comuni del Monferrato.
La presenza strutturata dei tedeschi occupanti cambiò il volto alla città. I liberi movimenti erano impossibili; le truppe tedesche, coadiuvate ed indirizzate dai fascisti repubblichini, erano pervasive. Vennero organizzati frequenti posti di blocco sulle vie di accesso, sulle arterie di comunicazione verso Pavia, Alessandria, Casale Monferrato, Tortona. La ferrovia era super controllata, perchè utilizzata spesso dai tedeschi per il trasferimento di esplosivi ed armi. Dopo i ripetuti bombardamenti alleati al ponte di ferro sul fiume Po, i tedeschi organizzarono attracchi per traghetti, sui quali transitavano truppe, armi e munizioni verso Milano.
Il 17 febbraio 1944, il 10 dicembre 1944 ed il 2 marzo 1945 si ebbero a Valenza rastrellamenti intensi e radicali, con minuziose perquisizioni ad intere vie ed isolati, arresti di giovani.
L' attività della missione americana Youngstown. Inediti dall'archivio di Gian Carlo Ratti
Una precisa conferma dell'organizzazione militare e logistica tedesca, delle forze partigiane operanti nel Monferrato e nel Valenzano, ci viene dall'inedito e significativo materiale documentale presente nell'archivio Gian Carlo Ratti, ora in consegna all'autore, di prossimo commento e pubblicazione. <3 L'archivio è costituito da un dettagliato memoriale, da ampia documentazione in originale, da mappe, appunti, manoscritti, rapporti, note di guerra, attestati, fonogrammi [...]
 

Un'immagine del bombardamento sul ponte e sulla strada di Torre Beretti (PV), effettuato il 27 Luglio 1944 dai bombardieri statunitensi del 320° Bomb Group, tratta dal sito www.320thbg.org, qui ripresa da Sergio Favretto, Op. cit. infra

[NOTE]
1 Si vedano i saggi: "Valenza antifascista e partigiana" di Enzo Luigi Guidi, edito nel 1981 dall'ANPI di Valenza; "Resistenza e nuova coscienza civile" di Sergio Favretto, edito da Falsopiano nel 2009; "La Provincia di Alessandria nella Resistenza" di William Valsesia, edito nel 1980; "Una brigata di pianura, cronaca della 108° brigata Garibaldi Paolo Rossi" di O. Mussio, edito dall'ANPI di Castelnuovo Scrivia, nel 1976.
2 Questi avvenimenti sono descritti nel volume "Resistenza e nuova coscienza civile" di Sergio Favretto, edito da Falsopiano nel 2009
3 L'archivio Ratti è stato solo recentemente consegnato in esame e custodia all'autore. Si presenta, già a primo acchito, come una fonte significativa di documentazione inedita. Per il 2013 si presume possa costituire la fonte di nuove analisi storiche e possa essere ospitato in alcune pubblicazioni sui temi resistenziali del Piemonte.
Sergio Favretto, La Resistenza nel Valenzano. L'eccidio della Banda Lenti, Comune di Valenza (AL), 2012

[ n.d.r.: nella bibliografia di Sergio Favretto: Partigiani del mare. Antifascismo e Resistenza sul confine ligure-francese, Seb27, Torino, 2022; Il papiro di Artemidoro: verità e trasparenza nel mercato dei beni culturali e delle opere d’arte, LineLab, Alessandria, 2020; Con la Resistenza. Intelligence e missioni alleate sulla costa ligure, Seb27, Torino, 2019; Un carabiniere, testimone di storia. Mussolini a Ponza e a la Maddalena narrato in un diario, Arti grafiche, 2017; Una trama sottile. Fiat, fabbrica, missioni alleate e Resistenza, Seb27, 2017; Coraggio e passione. Riccardo Coppo, il sindaco, le sfide, Falsopiano, 2017; Fenoglio verso il 25 aprile, Falsopiano, 2015; Resistenza e nuova coscienza civile. Fatti e protagonisti nel Monferrato casalese, Falsopiano, 2009; Il diritto a braccetto con l'arte, Falsopiano, 2007; Giuseppe Brusasca: radicale antifascismo e servizio alle istituzioni, Atti convegno di studi a Casale Monferrato, maggio 2006; I nuovi Centri per l’Impiego fra sviluppo locale e occupazione (con Daniele Ciravegna e Mario Matto), Franco Angeli, 2000; Casale Partigiana: fatti e personaggi della resistenza nel Casalese, Libertas Club, 1977 ]

mercoledì 1 giugno 2022

Spesso, poi, gli arresti non avvenivano durante i disordini ma successivamente, quando guardie e carabinieri si mettevano a setacciare i quartieri popolari di Parma

Parma: un angolo di Oltretorrente - Fonte: Wikipedia

Come si è visto nei precedenti capitoli, in cinquant’anni di storia, l’Oltretorrente [a Parma] fu protagonista di numerosi episodi di conflitto che guadagnarono ai suoi abitanti una certa fama nel resto d’Italia, amplificata da eventi straordinari come le proteste contro la guerra d’Africa del 1896 o lo sciopero del 1908 e poi coronata e sublimata, nel primo dopoguerra, dalle vicende delle Barricate antifasciste del 1922.
«Popolo ribelle» o «teppa» - a seconda del punto di vista da cui, di volta in volta, si è guardato a quella realtà sociale e politica e ai protagonisti di quella lunga serie di rivolte - sono le definizioni che più si sono avvicendate sia nelle cronache giornalistiche coeve, sia in non poche ricostruzioni storiche che, negli anni, hanno contribuito a rafforzare un alone leggendario intorno a coloro che parteciparono ai tumulti e alle sommosse, dandone quasi per scontata l’uniformità sociale, come se si trattasse di tutta la popolazione del quartiere. Mai nessun tentativo è stato fatto per comprendere meglio chi realmente fossero questi rivoltosi, mai è stato composto un loro ritratto particolareggiato, né sul breve né sul lungo periodo <737.
Uno degli obiettivi di questo lavoro, dunque, è stato anche quello di ridare un volto a quel popolo, e di verificare in che modo moti e rivolte hanno aderito alle pieghe della società locale, attraverso un’analisi dei loro protagonisti, almeno di quella parte di essi che è incappata nelle reti della giustizia e ha subito arresti o processi. Un’operazione non certo semplice o priva di pericoli che, come ha ben mostrato George Rudé, porta con sé il costante rischio di cadere in facili stereotipi o avventati parallelismi <738. Tenendo presenti i rischi, dunque, si è cercato di recuperare alcuni dei segmenti sociali che composero le folle dei rivoltosi e di analizzarne le caratteristiche.
Capire se si sia trattato di uomini o di donne, di giovani o meno giovani, di abitanti dei borghi o di altre zone non è infatti ininfluente per togliere quella patina di mito che si è depositata sulla storia delle classi popolari della città e, sebbene non si possa pretendere di giungere ad una definizione dettagliata dei protagonisti delle rivolte, è pur sempre possibile individuare le componenti sociali prevalenti e, sul lungo periodo, mostrarne le continuità e le discontinuità, le analogie e le differenze.
La maggior parte dei dati che supporteranno le prossime riflessioni è stata recuperata nelle carte di polizia: nelle relazioni degli agenti al prefetto e di questo al Ministero dell’Interno, infatti, oltre al racconto dei numerosi scontri e tumulti, vennero spesso indicati i nomi e le informazioni anagrafiche degli arrestati e, talvolta, l’imputazione loro contestata. Certo non si tratta di documentazione esente da lacune o mancanze ma, ugualmente, sulla sua base si è potuto costruire un data-base con i dati anagrafici e professionali di 568 uomini e donne fermati in occasione di proteste, manifestazioni, sommosse, tumulti, risse e scontri con la forza pubblica tra il 1888 - nei disordini per l’inaugurazione del monumento a Girolamo Cantelli - e il 1915, durante le manifestazioni interventiste del “maggio radioso”. Le informazioni raccolte su queste relazioni sono poi state confrontate e integrate con altre ricavate dalle cronache dei giornali e dalle carte dei processi celebrati dal Tribunale di Parma dal 1901 al 1915.
Le ragioni - anche molto diverse le une dalle altre - per le quali vennero incarcerate le persone riunite nel data-base ricompongono uno spettro di situazioni di conflitto sociale molto ampio: dalle donne che reclamavano un “giusto prezzo” per il pane, ai giovani che, in uscita da qualche osteria, si accapigliavano con pattuglie di agenti; dalla folla furibonda per l’assassinio di Pietro Cassinelli che prese d’assalto la stazione di Pubblica sicurezza di via d’Azeglio, ai sindacalisti rivoluzionari che per 50 giorni gestirono uno dei primi grandi scioperi del movimento contadino italiano; dagli anarchici e socialisti che inscenarono i primi e rumorosi cortei notturni ai protagonisti delle diverse ribellioni alla forza pubblica di cui l’Oltretorrente fu frequentemente teatro nel corso degli anni.
È tuttavia uno spettro, una fotografia, che ci deriva da una selezione operata, prima che dalla nostra ricostruzione, dalle forze dell’ordine che eseguirono gli arresti e che furono in questo orientate da ragioni molteplici. Ragioni che ebbero a che fare con l’organizzazione e la gestione dell’ordine pubblico in città, con le direttive del governo - che, in alcuni casi, come durante lo sciopero del 1904, impartì precise indicazioni perché le forze dell’ordine si astenessero dal compiere gesti che avrebbero potuto suscitare reazioni tumultuose -, con le abitudini e l’esperienza degli agenti che pattugliavano i quartieri popolari, con la loro capacità di identificare e riconoscere gli individui più “pericolosi”.
Inoltre, solo una esigua minoranza degli uomini e delle donne che scesero in strada o si scontrarono con la forza pubblica finì nei verbali e nelle celle di sicurezza, mentre la gran parte di essi riuscì a sottrarsi alle strette della repressione. E ciò anche in occasione di quegli eventi verso i quali l’azione di polizia fu più massiccia e che si conclusero con arresti di massa, talvolta anche ingiustificati e vanificati poi dall’esito dei processi, come nel caso del giugno 1908 e degli oltre cento dirigenti e organizzati della Camera del Lavoro catturati durante l’assalto in borgo delle Grazie, tutti assolti dal Tribunale di Lucca non senza polemiche per come la polizia e la magistratura parmensi avevano condotto l’istruttoria <739.
Spesso, poi, gli arresti non avvenivano durante i disordini ma successivamente, quando guardie e carabinieri si mettevano a setacciare i quartieri popolari in cerca di coloro che avevano, o credevano di avere, riconosciuto in strada. Non era dunque raro che, in simili circostanze, in ferri ci finissero uomini già noti alle forze dell’ordine per i loro precedenti penali. Anche per questo, probabilmente, tra gli arrestati predominarono quegli uomini giovani che, meglio di donne o di uomini più anziani, corrispondevano, nell’immaginario delle forze dell’ordine, allo stereotipo del rivoltoso e dell’individuo pericoloso.
Solo una parte degli arresti, dunque, venne eseguita nel pieno delle sommosse che, quasi sempre, per lo meno per gli episodi più tumultuosi, si concludevano con un fuggi fuggi incalzato dagli spari dei soldati. I tutori dell’ordine, poi, soprattutto quando i disordini avvenivano in Oltretorrente, mostravano una certa difficoltà nel contenere e reprimere gli scontri, impotenza che va senz’altro messa in relazione con il consenso che i tumulti trovavano in quartiere. Quel dedalo di vicoli e cortili, infatti, si trasformava in un labirinto di vie di fuga per i suoi abitanti che, da una casa all’altra, tramite i tetti o le corti interne, riuscivano a dileguarsi velocemente, mentre guardie e soldati dovevano accontentarsi di acciuffare i pochi che rimanevano nelle strade o ritardavano a rifugiarsi dietro i portoni. Talvolta, dunque, i fermi avvenivano in modo piuttosto arbitrario: gli avventori di un’osteria nei pressi di uno scontro, gli abitanti di una casa da cui era piovuto un sasso, o coloro che, circondati i borghi, rimanevano casualmente impigliati nella retata della forza pubblica.
[NOTE]
737 Gli unici esempi di analisi in questa direzione, infatti, riguardano i “sovversivi” del ventennio fascista, cfr. M. Palazzino, Nel buio. L’antifascismo parmense e lo Stato di polizia, in M. Giuffredi (a cura di), Nella rete del regime…, cit., pp. 1-34; W. Gambetta, L’esercito proletario di Guido Picelli (1921-1922), «Storia e documenti», n. 7, 2002, pp. 23-46.
738 G. Rudé, La folla nella storia…, cit., pp. 19 e 231.
739 Cfr. U. Sereni, Il processo ai sindacalisti parmensi…, cit.
Margherita Becchetti, Oltretorrente. Rivolte e conflitto sociale a Parma. 1868-1915, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Parma, 2010

giovedì 26 maggio 2022

Il comandante partigiano Renato

Otello Pighin sottotenente del 9° reggimento artiglieria Brennero (Arch. Pighin - Bortolin) - Fonte: Adolfo Zamboni Jr, art.cit. infra

La Resistenza padovana fu invece incentrata e organizzata soprattutto all'interno dell'università della città, o comunque da personalità legate al mondo accademico, tanto che all'università di Padova, unica in Italia, venne assegnata nel dopoguerra la medaglia d'oro al valore militare. Nei giorni seguenti l'armistizio Silvio Trentin, (già professore a Ca' Foscari), Concetto Marchesi e Egidio Meneghetti, rispettivamente rettore e prorettore dell'università patavina, organizzano il Cln Veneto (dotato anche di una sua propria pubblicazione, ”Fratelli d' Italia”) che aveva la sua sede a Padova nel palazzo Papafava.
Oltre all'università operano anche altri protagonisti. Il partito comunista aveva insediato a Padova la delegazione triveneta delle brigate “Garibaldi”; squadre di Giustizia e Libertà, guidate dall'ingegnere Otello Pighin, si dedicavano ad attentati e sabotaggi a fabbriche e mezzi di comunicazione. Arrivarono anche ad incendiare la sede, in uno studio dell'università, del giornale studentesco fascista “Il bò”.
A Padova operava anche la banda fascista chiamata “Carità“(dal nome di Mario Carità). Dopo un trascorso in Toscana, la banda scelse come sua sede il Palazzo Giusti, continuando nel tentativo di indebolire la Resistenza, tramite frequenti torture e uccisioni.
Francesco Corniani, Un marinaio in montagna. Storia di Bruno Viola e dell’eccidio di Malga Zonta, Tesi di laurea, Università Ca’ Foscari, Venezia, Anno accademico 2009-2010

Il prof. Egidio Meneghetti dopo la Liberazione (Arch. CASREC unipd) - Fonte: Adolfo Zamboni Jr, art.cit. infra

L'ingegnere Otello Pighin e don Giovanni Apolloni, professore di matematica al Seminario Maggiore e al Liceo Barbarigo di Padova, furono tra i primi organizzatori della Resistenza nel Veneto; fin dal gennaio 1944, Padova divenne teatro di azioni dinamitarde che, se non recavano danni sostanziali, infliggevano ai nazifascisti pesanti colpi sul piano psicologico. In particolare, durante la notte tra il 6 e il 7 febbraio 1944, in occasione dell'anniversario della rivoluzione studentesca antiaustriaca dell'8 febbraio 1848, Otello Pighin, Corrado Lubian, Guido Billanovich e lo studente Gianfranco De Bosio entrarono al Bò' con l'aiuto di un bidello, seminarono per tutte le aule migliaia di volantini inneggianti alla rivolta, posero una bomba ad orologeria nello studio del direttore del giornale universitario “Il Bo'”, di ispirazione fascista, ricoprirono le pareti di scale e segreteria di scritte “fuori i tedeschi! viva Marchesi! rivoltatevi! ricordatevi di Matteotti! per una università libera! ricordiamo don Minzoni!”. L'esplosione dell'ordigno, programmata per l'8 febbraio, venne tuttavia coperta dalle esplosioni dovute al pesante bombardamento che subì Padova; durato più ore, provocò 200 morti. Il 7 gennaio 1945, Otello Pighin cadde in una imboscata, ferito e catturato, sottoposto a torture, fu fucilato dalla banda Carità. Il 20 marzo anche Corrado Lubian, che l'aveva sostituito, cadde in un tranello e venne ucciso. Gianfranco De Bosio, successivamente affermato regista, traspose le vicende alle quali aveva partecipato in un film; “Il terrorista” del 1963. (cfr. Padova nel 1943. Dalla crisi del regime fascista alla Resistenza, a cura di Giuliano Lenci e Giorgio Segato, Il Poligrafo, Padova 1996, pag. 270 e Pierantonio Gios, Un vescovo tra nazifascisti e partigiani. Mons. Carlo Agostini vescovo di Padova (25 luglio 1943- 2 maggio 1945), Istituto per la storia ecclesiastica padovana, Padova 1986, pagg. 54 e 55).
(a cura di) Francesco Tessarolo, È questa l'ora … diario di Lino Camonico Martire bassanese della Resistenza (7 ottobre 1943 - agosto 1944), Attilio Fraccaro editore, 2011

Fonte: Adolfo Zamboni Jr, art.cit. infra

La mattina del 10 gennaio 1945 il custode del cimitero di Abano trovò, abbandonato presso il camposanto, un cadavere nudo e insanguinato. Dalle prime indagini e dal “Verbale di visita a cadavere di sconosciuto”, redatto nel pomeriggio dello stesso giorno dall’ufficiale di stato civile del comune, assistito dall’ufficiale sanitario, risultò che il cadavere era quello di una persona di sesso maschile “deceduta per ferite d’arma da fuoco all’Albergo Trieste, sede dell’Ospedale Germanico n° 12462”, “di corporatura media, statura sui 170 centimetri, capelli castani, barba rasa, baffi castani, completamente privo d’indumenti e di documenti di identificazione, dell’apparente età di anni 40”.
La notizia si diffuse rapidamente e presto si venne a sapere che il corpo che, restituito in modo così barbaro e pietosamente sepolto in una fossa senza nome, era quello dell’ingegner Otello Pighin, assistente alla facoltà di Ingegneria, ma soprattutto uno dei più audaci e abili comandanti partigiani, notissimo in tutto il Veneto col nome di battaglia di “Renato”. Pighin era stato gravemente ferito il 7 gennaio 1945 a Padova in un agguato organizzato dai fascisti della “banda Carità” con la collaborazione di un traditore, torturato mentre era in fin di vita e infine spirato il 9 gennaio nelle mani dei tedeschi.
A Pighin l’università di Padova deve una delle pagine più luminose dei suoi ottocento anni di storia. Nato a Lusia (Rovigo) nel 1912 e laureato in ingegneria meccanica a Padova nel 1939, come i migliori tra i giovani cresciuti nel ventennio della dittatura aveva maturato la sua coscienza politica grazie alla guerra, combattuta da sottotenente di complemento del 9° reggimento artiglieria Brennero. Partecipò nel giugno del 1940 alla breve e fallimentare campagna sul fronte occidentale contro la Francia, e pochi mesi dopo fu mandato a combattere sul fronte greco-albanese, dove soffrì le tragiche conseguenze dell’impreparazione dell’esercito italiano.
Pighin fu rimpatriato per malattia in agosto 1941 e dopo lunga degenza ospedaliera fu posto in congedo assoluto in aprile 1942 e iscritto nel ruolo d’onore degli ufficiali inabili al servizio per invalidità di guerra.
Il 16 agosto 1943 fu nominato assistente supplente presso l’Istituto di Macchine della Facoltà d’Ingegneria per l’anno accademico 1943-44. Nei pochi mesi in cui poté prestare servizio, prima di doversi allontanare precipitosamente dall’Istituto, il 30 dicembre 1943, per sfuggire all’arresto della Feldgendarmerie, si dimostrò “assistente capace e solerte”, come disse il prof. Egidio Meneghetti (1892-1961), principale animatore della Resistenza in Veneto, nell’orazione funebre tenuta il 29 maggio 1945 a Palazzo Bo.
Dopo l’8 settembre 1943 e la fuga del Re e degli inetti comandanti dell’esercito, a Padova il rettore dell’università Concetto Marchesi (1878-1957) e il pro-rettore Egidio Meneghetti dettero vita al Comitato di Liberazione Nazionale Regionale Veneto (C.L.N.R.V.), da cui derivò il C.L.N. provinciale di Padova. Il manifesto di Marchesi, largamente diffuso in tutto il Veneto, fu il primo documento della guerra dichiarata ai nazifascisti e l’invito a dare inizio alla lotta.
Nella sua decisione di aderire alla resistenza Pighin trovò ispirazione e appoggio in Adolfo Zamboni (1891-1960), grande decorato della guerra 1915-1918 e maggiore di complemento dell’esercito, avversario dichiarato del regime fin dal suo inizio e promotore a Padova del Partito d’Azione, cui anche Pighin aderì. Zamboni e Pighin, animati da grande amore per la patria e spinti da un forte senso del dovere di stampo mazziniano, fecero proprie le esortazioni del grande patriota ottocentesco, evidenziandole anche nella testata de “il Maglio”, il giornale dei giovani del Partito d’Azione di cui Pighin fu promotore, redattore e diffusore.
Essi sapevano di poter contare effettivamente su pochi uomini, ma “puri e decisi”, e solo successivamente, dopo aver sparso il seme, su una più larga adesione popolare. Perciò il tipo di lotta contro fascisti e tedeschi che Pighin condusse brillantemente per più di un anno a capo di piccoli gruppi mobilissimi di audaci patrioti si ispirò ai metodi mazziniani della “guerra d’insurrezione per bande”, la guerra del popolo “invincibile e indistruttibile”, che costringe il nemico a una guerra insolita, insidiosa e logorante, spingendolo senza scampo alla disfatta.
Come armi Pighin, da esperto ufficiale d’artiglieria e ingegnere, scelse gli esplosivi e le miscele incendiarie, preparate nei laboratori universitari o nelle cantine di case bombardate, che, “per salvare la Patria, dovevano lacerare le carni della Patria stessa”. Le prime ampolle di fosforo Pighin le provò nel lavandino della stanza dello studente Gianfranco de Bosio al Pensionato “Antonianum”. Poi andarono insieme a lanciarle nel retro dell’ultimo camion di una autocolonna militare tedesca mentre entrava nella grande autorimessa della Wermacht, facendo divampare un incendio che distrusse una quantità di veicoli.
L’altra arma prediletta da Pighin fu il ciclostile, con cui imprimeva su manifestini e giornali “le parole della ribellione, dell’incitamento, dello sdegno, della rivolta”, come disse Meneghetti al suo funerale.
Incurante dei rischi mortali e della allettante taglia di un milione di lire, enorme per quel tempo, messa dalle autorità sulla sua testa, “Renato” si muoveva impavido per la città, solo leggermente travisato con abiti dimessi e grandi occhiali cerchiati “che smorzavano la fredda audacia degli occhi azzurri”. Quando Lina Geremia, la sua eroica moglie, fu arrestata in aprile 1944, fu tanto audace da farle visita nel vecchio e tetro carcere dei Paolotti, spacciandosi per lontano parente.
Fin dall’inizio Pighin seppe affratellare nella lotta studenti e cittadini. Tre giovani di Voltabarozzo, due studenti e un operaio, già uniti idealmente, furono tra i primissimi ad unirsi a lui. I nuclei divennero squadre, che si moltiplicarono col passare dei mesi diventando battaglioni, alcuni con carattere di piccole formazioni militari permanenti, fino a costituire la famosa Brigata Guastatori Giustizia e Libertà, che fu intitolata a Silvio Trentin (1885-1944), il grande antifascista e federalista arrestato a Padova il 19 novembre 1943 e morto il 12 marzo 1944: la brigata “universitaria” prediletta dal prof. Meneghetti.
La Brigata contava tra i suoi componenti anche dei sacerdoti: don Giovanni Apolloni, insegnante del collegio Barbarigo, che per mesi fu carcerato e torturato dalla “Banda Carità”; don Francesco Frasson, amministratore del Seminario; i Benedettini del monastero di S. Giustina padre Angelo Marincich e padre Stefano Graiff. Altri religiosi resero generosi e preziosissimi servigi: il padre abate di S. Giustina Timoteo Campi, padre Carlo Messori, padre Mariano Girotto, don Pietro Costa, don Luigi Panarotto e tanti altri.
Padova era allora il cuore di una regione strategicamente importantissima: a Luvigliano aveva sede il comando della X Armata tedesca; ad Abano quello della Luftwaffe; a Recoaro a fine settembre 1944 il maresciallo Kesselring trasferì il comando supremo tedesco in Italia; a Montemerlo era installata la centrale telefonica per l’intera Alta Italia.
Una delle prime azioni di “Renato” ebbe luogo il 17 novembre 1943, requisendo a Padova, rivoltella alla mano e con un solo compagno, 450 cappotti militari, che servirono per equipaggiare i partigiani della costituenda Brigata Giustizia e Libertà “Italia Libera”, legata al Partito d’Azione, che Lodovico Todesco (1914-1944), laureando in Medicina, stava costituendo sul Grappa a Campocroce. Poco dopo organizzò a Noale il sequestro di 23 quintali di tritolo. Molte armi gli furono fornite da carabinieri simpatizzanti.
Nei primi mesi Pighin si occupò anche del salvataggio dei moltissimi militari britannici e del Commonwealth fuggiti dai campi di prigionia del Padovano dopo l’8 settembre 1943 e braccati dai nazifascisti. Alcuni di loro furono avviati in montagna, dove combatterono con i partigiani. Molti furono protetti, nutriti e avviati verso Sud; molti altri furono aiutati a raggiungere la salvezza in Svizzera, spesso supportati da un’organizzazione di giovani coraggiosi guidati da padre Placido Cortese e Armando Romani con le tre sorelle Martini. Con l’aiuto dei carabinieri che collaboravano con lui, Pighin fece mettere al sicuro in Valrovina, sopra Bassano, anche alcuni gli ebrei padovani.
Sul finire dell’anno all’Istituto di Macchine giunse voce che l’ing. Pighin esercitasse attività politica e fosse ricercato dalla polizia. La mattina del 30 dicembre 1943 Pighin scampò all’arresto allontanandosi dall’Istituto poco prima che due funzionari della Felgendarmerie si presentassero per cercarlo. Così i poliziotti arrestarono sua moglie Lina, che si trovava casualmente in Istituto, la fecero salire sulla loro vettura e si fecero accompagnare nella sua abitazione per ricercare delle armi che sospettavano vi fossero nascoste.
Nel gennaio 1944 “Renato” avviò azioni intimidatorie contro alcune fabbriche che producevano per i tedeschi. La sfida ai nazifascisti fu lanciata proprio nel cuore dell’Ateneo, alla vigilia dell’8 febbraio 1944: due squadre, composte per lo più da studenti, distrussero con una bomba la redazione del giornale Il Bò, organo del Gruppo Universitario Fascista (G.U.F.). Nei giorni seguenti furono lanciati nelle vie cittadine i volantini con l’appello alla rivolta del prof. Concetto Marchesi, il Rettore Magnifico costretto a rifugiarsi in Svizzera.
Nei mesi successivi Pighin e i suoi uomini si dedicarono con efficienza a una straordinaria campagna di attentati, sabotaggi alle linee ferroviarie e telefoniche e ai ponti stradali che misero seriamente in difficoltà gli occupanti nazifascisti. “Renato” però non volle mai che si facessero esecuzioni sommarie di nemici, ma si limitò a beffarli e a ridicolizzarli. In aprile 1944 grande effetto psicologico ebbe l’uso del fosforo in fialette con cui per parecchie sere furono spruzzate e incendiate le divise di una ventina di ufficiali fascisti, i quali agitandosi in preda al panico si coprirono di ridicolo davanti ai cittadini.
Parte del supporto logistico veniva della “Fra.Ma.”, l’organizzazione così denominata dalle iniziali dei cognomi dei professori Ezio Franceschini e Concetto Marchesi; con loro collaboravano l’industriale padovano Giorgio Diena (1897-1960), titolare della fabbrica Zedapa, che per la sua attività fu deportato a Dachau, e la sorella Wanda Diena Scimone.
Il 12 aprile 1944 Pighin, da tempo sospettato, fu arrestato e condotto alla caserma Mussolini, nel vecchio collegio Pratense di fronte al Santo, da cui riuscì subito a fuggire, rifugiandosi nel pensionato universitario “Antonianum”, retto dai Gesuiti.
Alle speranze dell’estate, quando la guerra di liberazione pareva ormai vicina alla vittoriosa conclusione, seguì la più amara delusione, quando l’offensiva sferrata a fine agosto 1944 dall’8a armata britannica e dalla 5a armata statunitense si infranse contro le fortificazioni della Linea Gotica che si stendevano da Massa a Pesaro. I tedeschi in ripiegamento dal Centro Italia e i fascisti al loro seguito si addensarono nel Veneto, scatenando “le più atroci furie della più atroce guerra”, come scrisse Meneghetti esortando i Veneti alla “prova suprema”.
Quando il C.L.N. venne in possesso dei piani segreti con cui i tedeschi intendevano devastare il Veneto con estese distruzioni e vasti allagamenti per fare della regione la loro estrema linea di resistenza all’avanzata delle forze angloamericane, l’ing. Pighin venne designato come comandante della piazza di Padova col compito di operare alle spalle dei tedeschi con un ridotto contingente di giovani audaci.
Intanto nei primi giorni di novembre 1944 giunse a Padova e si insediò a palazzo Giusti in via S. Francesco uno dei più feroci organi repressivi della R.S.I.: il Reparto Servizi Speciali, alle dipendenze delle SS-SD tedesche, comandato dal maggiore Mario Carità (1904-1945). Adottando senza alcuno scrupolo i metodi nazisti, in breve la famigerata “Banda Carità” causò perdite disastrose per il C.L.N., non per merito di abilità investigative particolari, ma per effetto del disprezzo di ogni legge, dell’impiego di spie, delatori e traditori e soprattutto dell’uso sistematico della tortura. Carità usava volentieri i suoi forti pugni da pugilatore, ma prediligeva il crudele supplizio dell’elettricità, che provocava dolori tremendi nelle parti più delicate del corpo senza sporcare le mani dei torturatori.
A Natale del 1944 l’ing. Pighin, sentendosi sempre più braccato, dovette ancora una volta cambiare abitazione e si trasferì in una casa dell’Arcella, il quartiere più bombardato. Calmo e instancabile come sempre, il comandante “Renato” lavorava nella stanza adibita a tipografia clandestina, tra molte armi e pacchi di sigarette sequestrate da distribuire ai suoi compagni. Nella stanza accanto la moglie Lina, laureata in Medicina, che non si era mai voluta allontanare dal marito, stirava serenamente e la figlioletta Elena giocava vivacissima.
l 7 gennaio 1945 fu il giorno più funesto per la Resistenza veneta. Quel giorno, alle ore 17.30, Pighin fu attirato sotto i portici di via Rogati, presso il ponte Barbarigo, da Mario Santoro, alias “Capitano Castelli” e poi “Leonida”: un partigiano azionista che, a seguito della cattura, aveva ceduto alle sevizie e si era trasformato in zelante traditore. Si trattava di un agguato: nel gelido imbrunire Pighin venne ferito a morte dal sergente Corradeschi del “Reparto speciale AK Padova”, il quale pochi giorni dopo ricevette in nome del Führer la Croce di ferro di seconda classe.
Contemporaneamente i principali membri del C.L.N. regionale, traditi anch’essi da Santoro, vennero arrestati nella clinica oculistica Palmieri, dove si erano riuniti, e trascinati nel covo della “Banda Carità”.
Giunto a Palazzo Giusti Meneghetti vide Pighin agonizzante con “intorno alla barella insanguinata, la turba oscena dei sicari che insultavano, torturavano, inquisivano”, mentre “la sola risposta del morente erano due dolci nomi [della moglie e della figlioletta, ndr], continuamente ripetuti: ‘Lina… Elena… Lina… Elena…’”.
Gli altri componenti della Brigata, prontamente avvertiti della retata, dovettero darsi alla fuga nella neve alta mezzo metro, disperdendosi per la città in cerca di rifugi sicuri. La Brigata “Trentin” si riorganizzò a stento, ma a febbraio riprese le attività e fu tra le formazioni protagoniste dell’insurrezione, che a Padova avvenne tra il 26 e il 28 aprile 1945. Di essa fecero parte 495 partigiani combattenti e 188 patrioti, tra i quali le donne erano una cinquantina. I caduti furono 21, i feriti 10, i prigionieri e gli internati 42. Entrambi i comandanti della Brigata che erano succeduti a Otello Pighin, Corrado Lubian e Sergio Fraccalanza, caddero anch’essi in azione.
[...] Alla memoria di Otello Pighin fu conferita la Medaglia d’oro al valor militare; la stessa altissima decorazione fu conferita all’università di Padova e da allora fregia il suo antico gonfalone, cui spetta l’onore, per questo motivo, di sfilare alla testa del corteo nelle cerimonie. Alla storia dell’ing. Pighin, che era stato il suo comandante, si ispirò nel 1963 il regista Gianfranco de Bosio per la sua sceneggiatura e regia del film intitolato provocatoriamente “Il Terrorista”, con Gian Maria Volontè nella parte di “Renato”. [...]
Adolfo Zamboni Jr, Il comandante «Renato», Il Bo Live - Università di Padova, 25 aprile 2020                     

Il maggiore Mario Carità (al centro), comandante del Reparto Servizi Speciali - Fonte: Adolfo Zamboni Jr, art.cit. infra

Le formazioni azioniste nella Resistenza veneta occupano, per quantità, il secondo posto dopo quelle guidate dal Partito comunista: a Padova si formano, con la direzione di Meneghetti e attraverso suoi fidati collaboratori, gruppi di sabotatori, guidati da Otello Pighin, il mitico “Renato”, che sarebbe stato ucciso nella grande retata del gennaio 1945
[...] La direzione azionista della Resistenza dura fino al gennaio 1945. Il ciclo di arresti iniziato in settembre con Giuseppe Calore e Elvio Del Piero, proseguito con la retata di novembre che decapita il Triumvirato insurrezionale, la Federazione provinciale e l’Intendenza regionale del Partito comunista culmina con gli arresti di gennaio, favoriti anche dalle rivelazioni di un azionista, Mario Santoro, fino a quel momento stretto collaboratore di Meneghetti <25. Pighin viene colpito a morte per strada, Meneghetti, Ponti e altri vengono presi nella clinica privata del professor Palmieri, e portati, con don Apolloni, Attilio Casilli, Adolfo Zamboni, Luigi Marziano, Gianni Dogo, Aldo Cestari a palazzo Giusti, nelle mani della “banda Carità” <26.
[NOTE]
25 Cfr. C. Saonara, Nelle mani del nemico. la caduta del Cln regionale veneto, in Istituto veneto per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, Annale XXIIXXIV, cit., pp. 127-160.
26 Sulla “banda Carità” vedi R. Caporale, La “Banda carità”. Storia del Reparto Servizi Speciali (1943-45), Lucca 2005: sugli arresti padovani, cfr. C. Saonara, Egidio Meneghetti, cit., pp. 115 e ss.
Chiara Saonara, Meneghetti, Giuriolo e gli altri: il PdA nel Veneto in (a cura di) Renato Camurrri, Antonio Giuriolo e il «partito della democrazia», Istrevi, 2008