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lunedì 27 settembre 2021

Togliatti si augurava la sconfitta delle truppe italiane in Etiopia

Addis Abeba, 5 maggio 1936. La popolazione sventola drappi bianchi in segno di resa all’ingresso in città della colonna Badoglio. Foto Fondo Bottai, Milano - Fonte: paginerosse.wordpress.com

Addis Abeba, 5 maggio 1936. Foto Fondo Bottai, Milano - Fonte: paginerosse.wordpress.com

[...] Negli anni Trenta, il Partito Comunista d’Italia adotta un atteggiamento anticolonialista, a partire dal pensiero gramsciano e dalla solidarietà globale con gli oppressi e con la manodopera migrante di tutto il mondo. Presto, il PCd’I lancia una campagna anticoloniale contro l’invasione dell’Etiopia, cercando di influenzare anche le comunità italiane all’estero, augurandosi ottimisticamente che possa fare da leva per la caduta del regime (la si dipingeva come una guerra dispendiosa per l’Italia che avrebbe mietuto molte vittime fra gli arruolati che provenivano dalle classi povere), quando invece la guerra d’Etiopia fu, come è noto, il momento di maggior popolarità del Fascismo e del suo capo.
Nel 1938, il PCd’I invia una sua «missione» in Etiopia, composta da tre membri, Ilio Barontini (già antifascista in Spagna e futuro partigiano), Domenico Rolla e Anton Ukmar; secondo lo storico Angelo Del Boca, dietro la missione c’era anche lo zampino dell’intelligence britannica che voleva raccogliere informazioni sulle forze ribelli etiopi, tanto che infatti un ufficiale inglese accompagnò i tre compagni nel loro viaggio verso l’Etiopia. In ogni caso, l’obiettivo della missione era coadiuvare l’organizzazione dei partigiani locali in piccoli gruppi di guerriglia, per contrastare più efficacemente gli italiani. Nella testimonianza pubblicata nel 1966 su Rinascita, emerge come ai tre fu chiesto di presentarsi ai loro compagni etiopici non come membri del Partito, né come italiani, ma come militanti internazionalisti.
Nel tuo libro Italian Colonialism and Resistances to Empire, 1930-1970 (Palgrave, 2018) proponi una nuova storia culturale dell’imperialismo italiano. Sostieni che l’Impero fascista permetta di disintegrare un’idea di colonialismo e di resistenza anticoloniale tutta influenzata dai modelli inglese e francese. Non si tratta tanto di una specificità del colonialismo italiano (che venne rivendicata a scopo legittimante fin dalla guerra di Libia e che viene ancora utilizzata a scopo giustificativo da chi continua a pensare che «italiani = brava gente»), ma piuttosto di una specificità della Resistenza anticoloniale in Etiopia, che fu molto sostenuta, fuori dal paese, da un’internazionale nera, mossa dal significato simbolico e politico che l’Impero etiope aveva agli occhi della diaspora nera nel mondo. Gli stessi giacobini neri ai quali è intitolata questa rivista vennero raccontati dall’intellettuale caraibico C.R.L. James proprio su spinta della resistenza in Etiopia: Black Jacobins uscì nel 1938 [...]
Michela Pusterla, La storia nascosta dell’anticolonialismo italiano, Jacobin Italia, 14 novembre 2019

La mancata reazione immediata all'incidente di Ual-Ual (5-6 dicembre 1934) <1 sulla stampa del P.C.d'I. è forse dovuta al fatto che, quando esso avviene, sia "L'Unità" che "Lo Stato Operaio" (organo e rivista teorica del partito) sono già chiusi in tipografia.
Tuttavia, anche se il P.C.d'I., da sempre attento alle malefatte del fascismo, ignora che i primi piani italiani per conquistare l'Etiopia risalgono al 1932 - cioè a subito dopo la totale pacificazione della Libia <2 - , la tregua concessa al Duce dal P.C.d'I. sul problema etiopico durerà ben poco. Se, infatti, all'inizio del 1935, a Ual-Ual e al problema etiopico si fanno solo degli accenni <3, essi saranno poco dopo affrontati direttamente. Si riparlerà infatti dell'incidente e di un'eventuale guerra italiana all'Abissinia, che pare sempre più vicina, in occasione della firma degli accordi franco-italiani di Roma (6-7 gennaio 1935). <4
In uno scritto su questo tema, oltre a notare che questo patto non diminuisce affatto il pericolo di guerra, si scrive: "Ma più importante di ciò che l'Italia ha ottenuto è ciò che (...) si ripromette di ottenere in Africa nel campo della collaborazione «pacifica» in Etiopia, e il cui primo atto è la partecipazione alla ferrovia Gibuti-Addis Abeba. Questa dichiarazione (...) viene fatta nel momento in cui il governo abissino fa appello alla Società delle Nazioni contro l'aggressione delle truppe italiane sul territorio del paese africano. L'Italia, dunque, avrebbe avuto carta bianca per la sua penetrazione «pacifica» (...) in Etiopia?" <5
Questa prima reazione del quotidiano può apparire inadatta a quanto potrebbe accadere, poiché è espressa in forma dubitativa, ma è spiegabile perché: 1) non è noto il vero senso degli accordi di Roma; 2) il P.C.d'I. ignora che, fin dal 30 dicembre 1934, Mussolini ha consegnato ai suoi più stretti collaboratori un memoriale dal titolo "Direttive e piano d'azione per risolvere la questione italo abissina". <6 Anche questa nuova tregua durerà ben poco: infatti, "Lo Stato Operaio", già nel febbraio 1935, pubblica due articoli che chiariscono come ormai si aspetti solo il momento dell'attacco fascista all'Etiopia, poiché non ci si illude su una composizione pacifica della vertenza italo-etiopica. Nel
primo <7 si parla, oltre che dell'incidente di Ual-Ual, anche di quello precedente di Gondar, per sottolineare la ormai chiara volontà fascista di occupare l'Etiopia. <8 Ma non solo: dopo un appello al popolo italiano a lottare contro la guerra - futuro asse della politica del partito <9, si scrive: "Le popolazioni abissine divengono, perciò, delle alleate del proleatariato e dei lavoratori italiani nella lotta contro il fascismo e contro l'imperialismo italiano." <10 Inoltre, si afferma che "L'interesse dei lavoratori italiani e delle popolazioni abissine, in questa guerra, è di battere l'imperialismo italiano e il fascismo" <11 e si invitano poi i primi ad una costante "(...) attività antimilitarista e antiguerresca (...)" <12 che si riallacci ad esempi del passato. <13
Nel secondo <14, invece, si rievocano tutte le imprese coloniali italiane fra cui quelle - fallite - in Abissínia, e si ricorda che, già in passato, la situazione nel settore era difficile per l'Italia. <15 Ci si chiede poi quando inizieranno la operazioni militari, e si constata che: 1) l'Italia farà da sola la guerra, e ciò significa un doppio sacrificio - di sangue ed economico - per il paese; 2) l'invio di truppe italiane in Africa Orientale è già una guerra che il fascismo deve per forza vincere per non cadere. <16
Rilevato poi come il cinico inganno del fascismo agli italiani, convinti di andare in Abissinia per lavoro e non per fare la guerra <17, si aggiunge che questo non è però il solo motivo, perché "Il fascismo in Africa va a fare una guerra (...) brigantesca (...). Ma (...) maschera i suoi scopi di rapina imperialistica con la più sfrenata demagogia patriottica (...)", dato che "La più inconfessabile politica di rapina (...) viene presentata come una necessità di difesa
nazionale, (...) una missione di civilizzazzione, (...) un mezzo per dare pane e lavoro ai
disoccupati italiani." <18
Il P.C.d'I. vuol chiaramente smitizzare il sogno africano creato dalla propaganda fascista nel popolo italiano <19, ma anche agire fra i lavoratori italiani per causare la sconfitta del fascismo. <20
Ogni possibile tregua tra il fascismo e i comunisti italiani è ormai finita, perché nel citato scritto si parla di argomenti e temi poi ripresi dalla stampa del P.C.d'I., ma non solo: essi sono già infatti - del tutto о in parte - un patrimonio di tutto l'antifascismo italiano. <21 [...]
[NOTE]
1 Sull'incidente di Ual-Ual cfr. Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, III: La conquista dell'Impero, Milano, Mondadori, 1992, pp. 244-291; Renzo De Felice, Mussolini il Duce, I: Gli anni del consenso (1929-1936), Torino, Einaudi, 1996, pp. 610-616; Luigi Salvatorelli - Giovanni Mira, Storia d'Italia nel periodo fascista, Torino, Einaudi, 1963, pp. 819-820; Enzo Santarelli, Storia del movimento e del regime fascista, Π, Roma, Editori Riuniti, 1967, pp. 167-168; Giorgio Candeloro, Storia dell'Italia moderna, IX: Il fascismo e le sue guerre, Milano, Feltrinelli, 1995, pp. 340-341. Ma cfr., inoltre, George W. Baer, La guerra italo-etiopica e la crisi dell'equilibrio europeo, Bari, Laterza, 1970, pp. 59-82.
2 Su questi piani italiani contro l'Etiopia cfr. A. Del Boca, op.cit., pp. 156-159 e pp. 169-179; R. De Felice, op.cit., pp. 603-605; G. Candeloro, op.cit., pp. 337-338.
3 Cfr., ad esempio, La via della salvezza per i lavoratori è la via del bolscevismo, la via della lotta contro il corporativismo e per il potere sovietico (non firmato: d'ora in poi n.f.), in "L'Unità", 1935, 1, appello alla lotta contro una possibile guerra per far cadere il fascismo, ed Egidio Gennari, Per una «coscienza coloniale» proletaria, in "Lo Stato Operaio", 1, gennaio 1935, pp. 24-31: vi si parla della colonizzazione italiana della Libia.
4 Sugli accordi franco-italiani di Roma cfr. L. Salvatorelli - G. Mira, op.cit., p. 817; R. De Felice, op.cit., pp. 602-603; A. Del Boca, op.cit., pp. 259-260; G. W. Baer, op.cit., pp. 82-127. Per parte francese cfr. Jean-Baptiste Duroselle, Politique étrangère de la France. La décadence (1932-1936), Paris, Le Seuil, 1979, pp. 133-139. Sulle reazione del P.C.d'I. e del P.C.F. agli accordi cfr. Giuliano Procacci, Il socialismo internazionale e la guerra d'Etiopia, Roma, Editori Riuniti, 1978, pp. 17-22. Gli accordi franco-italiani di Roma non diminuiscono il pericolo della guerra (n.f.), in "L'Unità", 1935, 2. Sulla posizione del P.C.d'I. cfr. G. Procacci, op. cit., p. 21.
6 Su questo documento cfr. A. Del Boca, op.cit., pp. 255-259 (che lo analizza in dettaglio); R. De Felice, pp. 606-610 (che, a p. 608, sottolinea indirettamente il passaggio sul possibile uso di gas asfissianti); G. Procacci, op.cit., p. 9; G. Candeloro, op.cit., pp. 341-344.
7 Cfr. Nostri compiti urgenti (n.f.), in "Lo Stato Operaio", 2, febbraio 1935, pp. 83-92
8 Cfr. art.cit., loc.cit., p. 83.
9 Cfr. art.cit., loc.cit., p. 84.
10 Art.cit., loc.cit., p. 85.
11 Art.cit., loc.cit., p. 85.
12 Art. cit., loc.cit., p. 91.
13 Art. cit., loc.cit., p. 91.
14 Cfr. Luigi Gallo (Luigi Longo), Per la disfatta dell 'imperialismo italiano, ivi, pp. 93-101.
15 Cfr. art.cit., loc.cit., pp. 93-94.
16 Cfr. art.cit., loc.cit., p. 95.
17 Cfr. art.cit., loc.cit., p. 96.
18 Cfr. art.cit., loc.cit., p. 97.
19 Su questo tema cfr. Mario Isnenghi, Il sogno africano, in AA.VV., Le guerre coloniali del fascismo (a cura di Angelo Del Boca), Bari, Laterza, 1991, pp. 60-71; A. Del Boca, op.cit., pp. 320-350; R. De Felice, op.cit., pp. 626-643.
20 Cfr. art.cit., loc.cit., pp. 98-101.
21 Su questo tema cfr. Enzo Santarelli, L'antifascismo di fronte al colonialismo, in AA.W., Le guerre coloniali del fascismo, cit., pp. 79-92.
Alessandro Rosselli (Università di Szeged), Il Partito Comunista d'Italia e la guerra d'Etiopia. Una rassegna sulla stampa comunista, Études Sur La Région Méditerranéenne, 15, pp. 45-61, 2006  

L’obiettivo del progetto è quello di esplorare alcuni momenti specifici della politica coloniale del partito, ovvero le missioni di Velio Spano in Egitto e Tunisia (1936-1943), la spedizione di Ilio Barontini in Etiopia (1939) e l’operato del Pci in Somalia (1942-1950), per gettare nuova luce e colmare alcune lacune storiografiche relative all’azione dei militanti comunisti in questi contesti, ai loro rapporti con i movimenti locali, all’analisi del colonialismo da parte del partito e al ruolo della Terza Internazionale (Comintern) nell’organizzazione di queste iniziative. Inoltre, il progetto intende indagare come, a seguito della svolta di Salerno e con la nascita del ‘Partito Nuovo’, il Pci sviluppa la propria riflessione sul colonialismo, da un lato in termini pedagogici, attraverso la pubblicazione di letteratura destinata ai militanti, dall’altro attraverso la partecipazione di propri delegati agli incontri internazionali della Federazione mondiale della gioventù democratica e dell’Unione internazionale degli studenti.
[...]
Giulio Fugazzotto, Al servizio di una rivoluzione globale? I comunisti italiani e il colonialismo tra antifascismo e anti-imperialismo. 1926-1950, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, 2021

Fonte: Fondazione Gramsci



Sunto
Quest'articolo si concentra sulle particolari caratteristiche dell'imperialismo fascista e sul suo sforzo di costruire una coscienza nazionale tramite il riscatto coloniale per mezzo della guerra contro l'Abissinia. Tentativo che ha incontrato una risposta ambivalente in Italia e all'estero, tra gli antifascisti in esilio.
Lo studio della politica del Partito comunista sulla questione della guerra italo-etiopica a metà degli anni Trenta ci permette di ricostruire la sfida degli antifascisti al regime, su scala internazionale, che avrà una ripercussione più profonda in seguito durante la guerra civile spagnola.
[...] Tuttavia, di fronte a una guerra che rischiava di coinvolgere le grandi potenze del Mediterraneo, non poche erano le titubanze e all'inizio anche da parte dei vertici fascisti, in particolare dei gerarchi sensibili ai buoni rapporti con Francia e Inghilterra, si registravano incertezze ed esitazioni. <27
La preoccupazione di un'opinione pubblica riluttante alla guerra indusse il regime ad intensificare l'opera di controllo sulla stampa, le pubblicazioni, le trasmissioni radiofoniche e cinematografiche.
Nell'estate del 1935, la questione etiopica divenne il centro dell'attività propagandistica e, il 25 giugno 1935, tutto l'apparato mediatico venne centralizzato nel Ministero della stampa e della propaganda, diretto da Ciano. In questo modo i giornali, le radio, i cinegiornali, i periodici, furono interamente sottomessi alle esigenze della guerra. Il regime riuscì anche a contrabbandare quella che Baer definisce “un'evasiva politica di inazione” <28 della Francia e dell'Inghilterra in un'ostilità attiva contro i legittimi diritti dell'Italia di espandersi in Africa e rinserrare l'opinione pubblica attorno alla “patria fascista”.
La Chiesa fornì un contributo fondamentale alla formazione del consenso bellicista: dopo un primo disorientamento da parte delle organizzazioni e delle gerarchie cattoliche, anche per le prese di posizione ufficiali del papa in favore della deposizione delle armi, <29 allo scoppio delle ostilità il clero si schierò, con poche eccezioni, per la guerra esaltata come missione civilizzatrice della nazione cattolica impegnata a redimere gli schiavi, i barbari e popoli senza Dio. <30
Tra i più accesi sostenitori si trovava il cardinale Schuster della diocesi di Milano. Ma anche motivi internazionali spingevano il Vaticano a sostenere il fascismo. Mentre nazioni cattoliche come l'Austria sostenevano l'impresa africana, l'Inghilterra protestante si opponeva all'avventura italiana in Africa, insieme con la Francia laica e massone, che forniva asilo politico ai fuorusciti comunisti e socialisti e aveva stipulato nel 1935 un patto con l'Unione sovietica bolscevica.
Come scriveva Ernesto Rossi, bisognava combattere contro il “protestantesimo che, in combutta con la massoneria, col comunismo e con l'antifascismo, si sforza di abbattere la civiltà di Roma, perché cattolica”. <31
Poco importava che in Etiopia venissero impiegate truppe musulmane libiche e somali per massacrare i cristiani copti, o che in fondo la stessa Unione sovietica era legata da un trattato di non aggressione con l'Italia fin dal 1933.
Il culmine dell'infatuazione nazionalistica si ottenne con la “giornata della fede”, indetta per il 18 dicembre 1935, due mesi dopo lo scoppio delle ostilità e la proclamazione delle sanzioni, che erano entrate in vigore però solo il 19 novembre. A questa campagna, che si prolungò per varie settimane, e che consisteva nel donare la fede nuziale oltre che tutto l'oro, l'argento e il ferro, parteciparono tutti gli strati della popolazione.
Lo stesso filosofo e senatore antifascista Benedetto Croce contribuì, donando la medaglietta senatoriale, pur dichiarando di non approvare la politica del governo; vescovi e cardinali parteciparono alla raccolta, donando i loro ori e invitando i fedeli a fare altrettanto. A livello più generale la guerra mobilitò pressoché tutti gli strati della classe dirigente, anche quelli che fino a quel momento avevano nutrito un atteggiamento critico, e degli intellettuali, da D'Annunzio e Marinetti, le cui simpatie per il fascismo non erano un mistero, ad intellettuali che passavano per antifascisti come Sem Benelli o altri. La piccola e media borghesia nazionalista, i lavoratori dell'industria e i contadini furono anch'essi coinvolti, con scarse eccezioni, nel sostegno alla guerra.
Scrive, sconsolatamente, “Lo Stato Operaio”, organo del Partito comunista: “il fascismo è riuscito per il momento a fanatizzare non soltanto larghi strati di piccola borghesia ma anche una parte non indifferente della gioventù proletaria.” <32
Alle donne veniva poi affidato un ruolo specifico, non solo di consolatrici di eroi e di custodi del focolare domestico, la cui cura era costituita di economia e preghiera, nella migliore, o peggiore se si vuole, tradizione dell'epica classica coniugata col misticismo cristiano, ma anche di propagatrici dell'ideale della civiltà. L'intera stampa femminile venne asservita a questo scopo: <33 alla militarizzazione della mascolinità, per riprendere un concetto di Mosse, <34 si aggiunse la nazionalizzazione della femminilità, in una specie di divisione dei valori: alla mascolinità eroica, militare, combattiva e violenta, forgiata nella tempesta d'acciaio della guerra, corrisponde una femminilità frugale, parsimoniosa e parca: i due aspetti si completano nella guerra e nel lavoro.
Come osserva Carlo Zaghi: "l'aver sollevato il sentimento più profondo del popolo italiano e identificato l'onore nazionale col riscatto della sua inferiorità coloniale, fu il successo più grande di Mussolini, il momento storico più alto toccato dal regime". <35
La guerra contro l'Etiopia ebbe un impatto immediato in tutto il mondo. A parte le reazioni diplomatiche, come le limitate sanzioni decise dalla Sdn, vasti settori dell'opinione pubblica fecero pressione sui propri governi perché reagissero contro il colonialismo fascista.
[...] Varie organizzazioni di afro-americani si mobilitarono in un fronte unico che coinvolgeva i gruppi del nascente nazionalismo nero, organizzazioni antifasciste e gruppi comunisti, come il Comitato provvisorio per la difesa dell'Etiopia, fondato ad Harlem nel febbraio del 1935. <36 Non solo, ma da New York a Kansas City, migliaia di volontari neri risposero agli appelli delle varie organizzazioni di partire per l'Etiopia e combattere contro gli italiani. In seguito alla repressione del governo Usa, che non voleva essere trascinato in una guerra con l'Italia fascista, la mobilitazione militare cessò, anche se non completamente. La Black Legion, ad esempio, dichiaro che i suoi 3000 militanti che si preparavano a partire per l'Etiopia avrebbero rinunciato alla cittadinanza americana per servire il “loro” paese. <37
Scrive “l'Unità” (s.d., ma 1935): I negri si arruolano volontari. Ad Harlem … è stata costituita una “Legione Nera”, la quale chiama i negri ad arruolarsi per difendere l'ultimo paese indipendente dell'Africa, l'Abissinia. … Il negro Walter Davis, del Texas, ha inviato un telegramma all'imperatore dell'Abissinia, offrendogli un aiuto di 6 mila volontari... <38
Non si mobilitarono solo i partiti socialisti e comunisti, i popoli coloniali o gli afro-americani, che vedevano nella causa etiope le ragioni della loro stessa causa, ma anche, per motivi diversi, strati di popolazione dei paesi imperialisti democratici. <39 Come scrive Procacci: "Si può dire anzi che fu proprio tra la tarda primavera e gli inizi dell'estate [1935, nota mia] che si venne diffondendo sempre più largamente la sensazione che la controversia in atto tra Italia e Etiopia aveva cessato di essere una questione marginale per assumere invece i caratteri di un test dal quale dipendeva in larga misura il mantenimento della pace. (…) Nasceva insomma un'opinione pubblica pacifista e antifascista". <40
Anche se, come ricorda Procacci, questo fenomeno riguardò in maniera più evidente l'Inghilterra, soprattutto per la presenza di un forte Partito laburista e per la coesistenza di altri fattori psicologici e politici, <41 e la Francia, si diffuse in tutti i paesi dell'Europa continentale, compresi i Balcani, al di fuori, per ovvie ragioni, della Germania nazista. <42
In Italia la mobilitazione toccò essenzialmente i partiti antifascisti in esilio.
Le principali organizzazioni antifasciste dell'emigrazione scorsero nell'avventura etiope un'occasione per sferrare un colpo mortale al regime mussoliniano. Si distingueva da questa impostazione il gruppo di “Giustizia e libertà”, animato da Carlo Rosselli, per il quale si trattava di una posizione attendista.
Per Gl, non si doveva aspettare la disfatta del fascismo in Etiopia, ma organizzare subito un intervento politico propagandistico in Italia nel tentativo di rovesciare il regime. <43 In realtà, con questa polemica, Gl puntava a spezzare l'isolamento dalle altre formazioni antifasciste, e in particolare dai partiti comunista e socialista che avevano istituito un rapporto privilegiato in seguito alla svolta del VII congresso della Terza internazionale.
Il Pci e il Psi, legati ormai da un patto d'azione, organizzarono i giorni 12 e 13 ottobre del 1935, il Congresso di Bruxelles, al quale parteciparono varie organizzazioni antifasciste, tranne Gl.
I relatori principali furono il socialista Pietro Nenni, che tenne il discorso introduttivo, e Ruggero Grieco, dirigente del Pci. <44
Il discorso di Nenni e la sua stessa presenza al Congresso smentirono in parte la posizione dell'Internazionale socialista, che era riluttante ad intraprendere azioni comuni con l'Internazionale comunista; il leader socialista si pronunciò per l'unità d'azione con i comunisti, anche in vista di una crisi del regime che si riteneva imminente e che avrebbe richiesto un senso di responsabilità delle organizzazioni antifasciste, pur senza l'illusione della maturità di una crisi rivoluzionaria.
Ruggero Grieco si spinse anche oltre le dichiarazioni di Nenni, ipotizzando persino la possibilità di un governo “antifascista” che “difenda le libertà popolari”, presumibilmente di ampia coalizione. <45
Il VII congresso dell'Internazionale comunista si era occupato della guerra italo-abissina nell'ambito del dibattito sul fascismo e i pericoli di guerra, registrando l'intervento di Togliatti sull'avventura africana il 13 e 14 agosto 1935. <46  Nel suo rapporto, Togliatti si augurava la sconfitta delle truppe italiane come preludio alla caduta del regime: "se il Negus d'Abissinia, spezzando i piani di conquista del fascismo, aiuterà il proletariato italiano ad assestare un colpo tra capo e collo al regime delle camicie nere, nessuno gli rimprovererà di essere 'arretrato'. Il popolo abissino è l'alleato del proletariato italiano contro il fascismo e noi gli esprimiamo la nostra simpatia". <47
La stessa posizione venne espressa, in maniera più articolata dopo lo scoppio della guerra, il 15 novembre, in un articolo apparso sul “Bolśevik”, <48 nel quale si ribadisce che "la sconfitta dell'imperialismo italiano sarà il prologo della caduta del fascismo: il fascismo non può rischiare uno smacco. Uno smacco può essere l'inizio della sua fine". <49
E, nella misura delle sue possibilità, tenuto conto delle esigenze della clandestinità, il Pci si adoperò per rendere questo sviluppo effettivo e di opporsi attivamente alle operazioni belliche, non limitandosi a una posizione massimalista e attendista come accusato da Gl. <50  Pur muovendosi entro un quadro di collaborazione di classe internazionale determinato dalla svolta del VII congresso, <51 la politica del Pci si distinse sia dalle combinazioni diplomatiche dell'Urss che dal puro e semplice propagandismo.
Fin dal luglio del 1935, quindi tre mesi prima dell'aggressione italiana, Sergio (Giulio Cerreti) proponeva di recarsi in Egitto, ed eventualmente in Etiopia, ad organizzare la resistenza contro la guerra, <52 per conto del Comitato mondiale contro la guerra e il fascismo, un organismo che lo stesso Cerreti aveva collaborato a fondare, i cui esponenti principali erano Henry Barbusse e Romain Rolland. Al momento il progetto non ebbe seguito, ma gettò le basi di una discussione che avrebbe avuto dei risvolti operativi molto concreti.
Tra il 1934 e il 1935 il Pci intensificò i tentativi di penetrazione in Italia, in particolare la propaganda tra gli operai industriali e nei sindacati fascisti, diretta a sollevare rivendicazioni sulle condizioni di lavoro, i salari, il carovita, approfittando di ogni possibilità legale permessa dal regime. Vennero moltiplicati gli sforzi per introdurre la stampa in Italia e organizzare le proteste, i cui echi si trovano nelle pagine dell'“Unità”, “lo Stato operaio” o “Azione popolare”. In particolare venne curato l'intervento nell'esercito allo scopo di dare voce alle pur minime manifestazioni di malcontento contro la partenza per l'Africa o dei soldati di stanza in Aoi, di cui la stampa comunista diventa megafono. Ogni protesta in una caserma, un canto antimilitarista, gli insulti ad ufficiali particolarmente crudeli, la denuncia delle malattie in Abissinia, le proteste per il rancio, sono tutte occasioni che dimostrano, per la stampa comunista, l'impopolarità della guerra tra i soldati <53.
Così, ad esempio, “L'Unità” n. 1, 1936, sotto il titolo "Lettere dalle caserme e dall'Africa Orientale", dedica una pagina intera alle manifestazioni di dissenso tra le truppe. Erano del resto già vari anni che il Pci cercava di penetrare nell'esercito con suoi organi di stampa, prima “Caserma”, che venne chiuso alla fine del 1934, dopo dieci anni di pubblicazioni, e poi “Grigioverde”, fondato allo scopo di rendere più efficace e concreta la mobilitazione dei soldati contro la guerra e la terribile disciplina militare. In un lungo rapporto di dieci pagine del 28 maggio 1935, Neri (Luigi Longo) delinea un piano molto dettagliato d'intervento nell'esercito. <54 Dopo aver chiarito le ragioni che hanno condotto alla chiusura di “Caserma”, Longo spiega: “L'uscita di “Grigioverde” risponde a questa esigenza… Bisogna accentuare il carattere legale e popolare del giornale che deve diventare sempre più come un organo di soldati, di marinai, di avieri, di militi”.
Infine, il progetto di intervenire tra le truppe italiane destinate in Etiopia si concretizzò nella missione di Velio Spano in Egitto, incaricato dal comitato antifascista eletto al congresso di Bruxelles: Spano arriva in Egitto nel novembre 1935, prende contatti con settori antitaliani della borghesia egiziana e con alcuni connazionali sensibili alla propaganda antifascista. <55 Anche se la missione era stata preparata accuratamente nei mesi precedenti, Spano ne lamenta la disorganizzazione in una lettera al Comitato internazionale del 14 gennaio 1936 <56 e, tuttavia, nei limiti delle forze che si sono potute impiegare, la missione non è priva di qualche successo.
Spano riporta del clamore suscitato a Porto Said della propaganda antifascista e contro la guerra. <57 In una serie di articoli apparsi su “Stato operaio” nel 1938, Paolo Tedeschi (pseudonimo di Spano) sottolinea la polarizzazione tra le truppe italiane in transito per i porti egiziani, divise tra entusiasti alla guerra e riluttanti e sensibili alla propaganda antimilitarista <58 e descrive l'impatto che la distribuzione di volantini ha sui soldati imbarcati sui piroscafi in transito per il Canale di Suez. <59
Che l'azione di Spano avesse avuto un certo successo è testimoniato anche dalla preoccupazione suscitata nell'ambasciata italiana al Cairo. <60
L'ingresso delle truppe italiane in Addis Abeba, nel maggio del 1936, cambia la prospettiva propagandistica del Pci che, pur riconoscendo che l'occupazione della capitale etiope non avrebbe posto fine alle operazioni militari, deve tuttavia fare i conti con la realtà di un regime che, proprio in occasione della proclamazione dell'impero, ottiene il massimo consenso popolare. <61
Nella riunione dell'Ufficio politico l'8 maggio 1936, <62 al punto sulla questione abissina, l'intervento di Longo esprime chiaramente la delusione e il disorientamento del gruppo dirigente comunista che aveva puntato sulla disfatta italiana. I fatti impongono una rettifica nella propaganda e nelle parole d'ordine, ma ne deriva anche una rettifica dell'analisi. Le prime avvisaglie di questo mutamento di prospettiva si rivelano in un articolo dello “Stato operaio”, "Dopo Addis Abeba", del maggio 1936, scritto a caldo dopo la proclamazione dell'impero, ma è il manifesto programmatico "Per la salvezza dell'Italia:riconciliazione del popolo italiano" <63 che delinea in maniera più netta questo mutamento.
Già Spano, rientrato clandestinamente in Italia dopo la missione egiziana, aveva osservato “la nostra giusta preoccupazione di essere una corrente, una grande corrente di opposizione nel fascismo, deve essere oggi non più soltanto in primo piano nella nostra politica, ma forse addirittura il centro della nostra politica...” <64
Il manifesto ha come suo nucleo programmatico l'appello ai fascisti perché lottino insieme coi comunisti per la realizzazione del programma fascista del 1919, “che è un programma di libertà”. <65  Ed è firmato, a ribadirne la solennità, dai veri nomi e cognomi dei dirigenti del Pci.
Come nota Paolo Spriano, quest'appello suscita polemiche, recriminazioni e critiche da Mosca che si faranno via via più severe, ed è possibile che molti dei firmatari non fossero stati nemmeno interpellati. <66 L'appello cadeva poi in una fase particolarmente critica, all'inizio della guerra civile spagnola, che vedrà di nuovo, in uno scontro più drammatico, fascisti e antifascisti italiani combattersi, questa volta sulle barricate e le trincee di Spagna. Tra i sottoscrittori del manifesto, infatti, ritroviamo dirigenti comunisti che sono in procinto di partire per la penisola iberica in soccorso alla repubblica, che difficilmente avrebbero aderito a un appello “ai fratelli in camicia nera”. A questo seguiva un'apertura alla Chiesa cattolica, nell'autunno del 1936, in piena guerra civile spagnola dove la stragrande maggioranza delle gerarchie ecclesiastiche era apertamente schierata dalla parte del franchismo. <67
Non è possibile qui riprendere le polemiche che il Partito socialista e Giustizia e libertà scatenarono contro il manifesto "Per la salvezza dell'Italia"; <68 è necessario però ricordare che le critiche che giunsero da Mosca, oltre allo scoppio della guerra civile spagnola, determinarono infine la decisione dell'Ufficio politico di “ritirare la parola della conciliazione nazionale per dare maggior chiarezza e vigore alla politica di unione del popolo”. <69
Questo episodio avrà però delle ripercussioni negli anni a venire e determinerà, in parte, la mutazione della formazione del gruppo dirigente del Pci.
Come ha notato Simona Colarizi, “L'intervento dei volontari antifascisti [nella guerra civile spagnola] imbarazza non poco il regime, anche perché, per la prima volta dopo molti anni, i fuorusciti ritornano inevitabilmente alla ribalta della cronaca e per di più avvolti in un'aureola di eroismo guerriero”. <70 Ed è nel fuoco della guerra civile spagnola, nell'entusiasmo per la vittoria repubblicana di Guadalajara, che comincia a delinearsi l'idea di inviare alcuni membri delle Brigate internazionali in soccorso alla resistenza etiope, <71 viste anche le difficoltà che sta incontrando l'esercito regolare del Negus, i cui resti comandati da ras Destà, sono stati distrutti dall'esercito italiano. La missione venne decisa infine in una riunione di segreteria l'8 dicembre 1938, nella quale Nicoletti (Giuseppe di Vittorio), presentò la proposta di inviare un gruppo di compagni in Etiopia al seguito del “compagno che parte”. <72 Prende la parola il compagno in questione che espone il suo piano di lavoro e, nello stesso mese di dicembre, Ilio Barontini si reca così in Etiopia accompagnato dal segretario di Hailé Selassié, Lorenzo Taezaz, il quale però si ferma in Egitto, e fornito di credenziali del Negus stilate su fazzoletti di seta. Nonostante gli evidenti problemi di comunicazione, il 6 febbraio 1939 Barontini riesce a far avere sue notizie al Partito, in una lettera certamente scritta da una località etiope, ma spedita da Khartoum il 22 marzo, nella quale esalta le virtù militari dei resistenti e l'accoglienza della popolazione, soprattutto dei contadini molto attenti e interessati alle tecniche militari, ma evidenzia la disastrosa situazione degli armamenti, la carenza di munizioni e l'eterogeneità delle armi, fucili di marche diverse, mitragliatrici senza cartucce. Osserva comunque “Penso che solamente la mia presenza qui è un successo, si riprende fiducia …” <73
In una lettera, datata 1 aprile 1939, indirizzata a Tuti (Rigoletto Martini), Jacopo (Giuseppe Berti) esprime la soddisfazione del Partito per la missione, nota che Barontini è dirigente riconosciuto dalla resistenza, e l'unico contatto del Negus con i suoi uomini rimasti in Etiopia, ma lamenta gli scarsi mezzi a disposizione. <74
Nel frattempo, nel marzo del 1939 sono partiti per l'Etiopia anche altri due combattenti di Spagna, Rolla e Ukmar. <75 L'impresa, che vide la collaborazione diplomatica di Francia e Inghilterra, coinvolse parimenti il colonnello francese Paul Robert Monnier, che perì nel novembre del 1939 in seguito a un attacco cardiaco nel corso di una missione di rifornimento.
L'obiettivo della spedizione era duplice, politico e militare. Così la descrive Ukmar: "Si doveva riuscire a convincere gli etiopi ad abbandonare l'organizzazione di grosse bande di mille-duemila uomini di cui solo una parte armati di fucili - tali formazioni erano facilmente reperite e massacrate - e costituire gruppi più piccoli e mobili. Si doveva cercare di mantenere i territori liberati… <76 ma soprattutto, in un contesto caratterizzato dalla continua rivalità tra tribù e in una regione, il Goggiam, governata da ras tradizionalmente ribelli all'autorità del Negus e in perenne conflitto tra di loro, dovevamo mantenere il contatto con i capi della rivolta, coordinare le loro azioni, evitare conflitti armati tra le varie formazioni, fare quanto possibile per portare pace tra i gruppi armati e volgere ogni sforzo contro l'esercito di occupazione". <77
A questi si aggiungeva anche un altro scopo: la presenza di europei tra le file della resistenza etiope doveva contribuire a demoralizzare le truppe italiane e, insieme con la collaborazione di Francia e Inghilterra, dimostrare l'internazionalizzazione del conflitto.
Nel frattempo si intensifica l'attività di propaganda rivolta agli etiopi e alle truppe italiane. I fuorusciti italiani pubblicano un foglio settimanale, “La voce degli etiopi”, in amarico e italiano, <78 e il risultato politico della missione trova il suo riflesso in alcuni articoli pubblicati in “Lo Stato operaio” e “La voce degli italiani”. Di notevole rilevanza le conclusioni cui giunge Di Vittorio nell'articolo "La lotta del popolo etiopico ed i doveri del proletariato italiano", chiaramente ispirato da Barontini: "Il popolo etiopico, già in enorme ritardo sull'evoluzione storica, non possedeva ancora una coscienza nazionale, quando venne proditoriamente aggredito dal governo fascista. Uno Stato etiopico non esisteva. La società feudale etiopica era dominata da ras e sotto-ras in lotta fra di loro. (…) Il 'miracolo' che… si è già prodotto in buona parte, è questo: che sotto l'oppressione terroristica e sanguinaria del fascismo italiano il popolo etiopico sta forgiandosi una coscienza nazionale… Non si tratta, dunque, di una rivolta episodica, ma d'una rivoluzione popolare nazionale contro l'oppressore straniero. (…) dei capi che si erano resi complici dell'oppressore o vi si erano sottomessi, oggi si battono uniti e da eroi, non più per il potere o il predominio di questo o quel ras, ma per l'indipendenza dell'Etiopia". <79
Non fa parte degli scopi del presente articolo, ma non mi sembra superfluo osservare che le conclusioni cui giungevano Barontini e Di Vittorio esprimono un'opinione oggi diffusa in ambito storiografico: che la guerra contro l'Italia abbia accelerato il processo di unità nazionale dell'Etiopia, che le riforme dei primi anni di governo di Hailé Selassié avevano appena accennato nel loro tentativo di modernizzazione e di uscita dal particolarismo feudale. <80
La missione ebbe termine nel marzo del 1940 per varie ragioni, in primo luogo per il mutamento dello scenario internazionale determinato dallo scoppio della Seconda guerra mondiale. E tuttavia non è la sola ragione: si scopre che Monnier era un agente dell'Intelligence service inglese, col quale aveva costantemente mantenuto i contatti, e che aveva sempre tenuto le redini della missione <81 e nei primi mesi del 1940, l'Inghilterra, nel tentativo di impedire l'ingresso in guerra dell'Italia a fianco di Hitler, aveva deciso di tagliare i finanziamenti e il sostegno alla resistenza etiope, inclusa la missione di Barontini. <82
[NOTE]
27 Idem, p. 621. Per altro v. anche, per le riserve di Dino Grandi, Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa orientale. La conquista dell'impero, cit. p. 325.
28 Citato in A. Del Boca, Gli italiani in Africa orientale. La conquista dell'impero, op. cit. p. 327. Mussolini era ben consapevole che né l'Inghilterra né la Francia avrebbero rischiato la guerra contro l'Italia sulla questione etiope; v. Ibidem, p. 326-327.
29 Il 27 agosto 1935, in un discorso alle 2000 infermiere cattoliche in visita a Castelgandolfo, Pio XI si oppose apertamente all'imminente avventura africana, definendola “un guerre injuste”, v. L. Ceci, Il papa non deve parlare. Chiesa, fascismo e guerra d'Etiopia, Laterza, Roma - Bari, 2010, p. 44
30 Ibidem, p. 67 - 135; S. Colarizi, cit., p. 199; A. Del Boca, Gli italiani in Africa orientale. La conquista dell'impero, cit. p. 333.
31 S. Colarizi, cit., p. 200.
32 Lettera da Roma. Piccola borghesia ed intellettuali di fronte alla guerra, in “Lo Stato operaio”, febbraio 1936, p. 110.
33 V. Mirella Mingardo, “Pace”, “Lavoro”, “Civiltà”. Propaganda e consenso nella stampa periodica durante la guerra d'Etiopia, in Caccia, Patrizia e Mingardo, Mirella (a cura), Ti saluto e vado in Abissinia, Viennepierre, Milano, 1998.
34 L. Benadusi e G. Caravale (a cura), Sulle orme di George L. Mosse. Interpretazioni e fortuna dell'opera di un grande storico, Carocci, Roma, 2012, p. 69.
35 C. Zaghi, L'Africa nella coscienza europea e l'imperialismo italiano, Guida, Napoli, 1973. A conclusione della prima fase della guerra, l'8 maggio 1936, “Il popolo d'Italia” poteva sostenere che la guerra era stata “impresa di popolo, di tutte le classi e di tutti i ceti, di tutte le categorie e di tutte le gerarchie. Dalla Dinastia al clero, dalla gioventù delle Università alle moltitudini dei campi e delle officine, tutta la Nazione era spiritualmente impegnata nell'impresa, 'con trepida e inesorabile decisione'”, in I. Granata, Milano e la proclamazione dell'Impero (Maggio 1936): tra “regime” e “patria”, in P. Caccia e M. Mingardo, Ti saluto e vado in Abissinia, cit., p. 42.
36 In particolare, la mobilitazione degli afro-americani e stata oggetto di vari studi, dei quali ricordiamo solo l'opera piu significativa: William R. Scott, The Sons of Sheba’s Race: African Americans and the Italo-American War 1935-1941. Bloomington: Indiana University Press, 1993. V. però anche N. Venturini, Neri ed italiani ad Harlem. Gli anni trenta e la guerra d'Etiopia, Lavoro, Roma, 1991; Antifascist dieselpunk II - The Italo-Abyssinian War, 26 aprile 2012, disponibile online su: pdjeliclark.files.wordpress.com. Trasformatosi in seguito nell'organizzazione United Aid for Ethiopia, il Comitato provvisorio ottenne il riconoscimento ufficiale del governo imperiale all'Estero. v. opuscolo dell'associazione, War in Ethiopia, New York City, 1936.
37 William R. Scott, Black Nationalism and the Italo-Ethiopian Conflict, “The Journal of Negro History”, 63, n. 2, 1978, p. 118-134.
38 Conservato all'Acs, Fondo ministero dell'interno - Direzione generale pubblica sicurezza - Divisione affari generali e riservati - Stampa sovversiva in Italia - Busta 77/491.
39 Per la mobilitazione dei movimenti anticolonialisti contro l'aggressione italiana e la reazione dell'opinione pubblica all'estero, oltre ai libri di Giuliano Procacci, Dalla parte dell'Etiopia, cit., e Il socialismo internazionale e la guerra d'Etiopia, Editori riuniti, Roma, 1978, vedi Denise Eeckaute e Michel Perret (ed.) La guerre d'Ethiopie et l'opinion mondiale, Inalco, Paris, 1986.
40 G. Procacci, Il socialismo internazionale e la guerra d'Etiopia, cit. p. 62.
41 Ibidem; per un approfondimento delle reazioni dell'opinione pubblica inglese v. anche D. Waley, British Public Opinion and the Abyssinian war. 1935-1936, Maurice Temples Smith, London 1974
42 Nel volume collettaneo La guerre d'Ethiopie et l'opinion mondiale, cit., v. i saggi di S. Rubenson, sulla Svezia; di J. Gergely e L. Nyeki, per l'Ungheria; D. Eeckaute, per l'Europa dell'est; J. R. Bojovic, per la Jugoslavia; ma anche, relativamente ai paesi extraeuropei, M. Kovacs, per il Canada; J. C. Ralema per il Madagascar e S. A. Nguyen Dac, per il Vietnam. Una rassegna storiografica dell'atteggiamento dei paesi balcanici è fornita infine da A. Kuzmanova. Sulla reazione dell'opinione pubblica francese v. F. D. Laurens, France and the Italo-Ethiopian crisis 1935-1936, Mouton, Paris - Le Hague, 1967, anche Max Gallo: L'affaire d'Ethiopie, Editions du Centurion, Paris, 1967.
43 Per una sintesi delle posizioni di Rosselli e di Gl, v. l'articolo di Magrini, Rosselli e la guerra d'Etiopia, in Quaderni italiani n. 2, agosto 1942; ma anche: Carlo Rosselli, Opere scelte. Scritti dall'esilio, vol. II, Dallo scioglimento della concentrazione antifascista alla guerra di Spagna (1934-1937), Einaudi, Torino, 1992. Anche Nicola Tranfaglia, Una scelta di campo necessaria. Carlo Rosselli e Gl di fronte a Hitler e all'espansione dei fascismi, in “Studi storici”, n. 3, 1995.
44 Per una sintesi dei lavori del Congresso v. “Il Nuovo Avanti”, 19 ottobre 1935; il rapporto di L. Gallo (Luigi Longo), in “Stato operaio”, ottobre 1935, che riporta anche l'intervento di Grieco; l'articolo di E. Modigliani in “Informations internationales”, n. 36.
45 R. Grieco, I compiti del popolo italiano nella lotta contro la guerra, “Lo Stato Operaio”, cit. p. 625-634.
46 Il rapporto di Togliatti al congresso dell'Ic venne pubblicato sulla “Rundschau” del 2 ottobre 1935; una sintesi si trova nello “Stato operaio” n. 10, 1935.
47 “So” n. 10, 1935, p. 598.
48 Ora in Palmiro Togliatti, Opere, vol. IV.1, Editori riuniti, Roma, 1979, p. 41-57.
49 ibidem, p. 53.
50 Lettera di Gl al Pci, riportata in Archivio del partito comunista italiano (d'ora in poi Apc), 513 - 1286, nella quale la formazione di Rosselli accusa il Partito comunista di non comprendere, con i suoi slogan, la psicologia delle masse che sostenevano, in Italia, l'occupazione dell'Etiopia.
51 Si veda per esempio l'atteggiamento nei confronti delle sanzioni, v. articolo "Le sanzioni sono la pace e la salvezza del popolo italiano", in “La difesa”, n. 14, ottobre 1935.
52 L'intero rapporto di Cerreti, e in Apc 513 - 1 - 1318, p. 86 ss., ma v. anche appunto manoscritto senza firma, probabilmente di Longo (Terra), del 12 giugno 1935, in Apc 513 - 1 - 1283, p. 67, che chiede di “inviare qualcuno al più presto”.
53 Questa e l'indicazione della Segreteria del Pc, che, in un'osservazione all'”Unità” n. 10 del 1935, raccomanda di “utilizzare OGNI malcontento che viene creato dalla situazione di guerra” (maiuscolo nell'originale), in Apc 513-1283, p. 135.
54 Apc, 513 - 1 - 1288, p. 2-11.
55 A. Mattone, Velio Spano: vita di un rivoluzionario di professione, Della Torre, Cagliari, 1978, p. 24.
56 In Apc 513 - 1 - 1393, p. 1.
57 Ibidem, p. 3.
58 Gli articoli, dal titolo "Esercito e milizia nella guerra d'Etiopia", sono apparsi nei numeri 1, 2, 4 e 7 del 1938.
59 Idem, n. 2, p. 27.
60 Telespresso del Consolato di Porto Said n. 2341/312, in Archivio storico Ministero affari esteri, Busta “Ambasciata del Cairo”, A63, 294/2.
61 v. S. Colarizi, L'opinione degli italiani sotto il regime. 1929–1943, cit.; a p. 206–207 riporta alcuni esempi di note fiduciarie che testimoniano la demoralizzazione dell'antifascismo di fronte alla conquista di Addis Abeba.
62 Apc 513 - 1 - 1358, p. 11 ss.
63 “Lo Stato operaio”. n. 8, agosto 1936.
64 Rapporto di un viaggio in Italia, Apc 513 - 1 - 1385, citato in A. Mattone, Velio Spano, cit. p. 40, sott. nell'originale.
65 Ibidem, p. 524; anche S. Bertelli, Il gruppo. La formazione del gruppo dirigente del Pci 1936-1948, Rizzoli, 1980, Milano, p. 46 ss.
66 Paolo Spriano, Storia del Partito comunista italiano.
V. 3. I fronti popolari, Stalin, la guerra, Einaudi, Torino, 1970, p. 65-67.
67 I comunisti ai cattolici italiani. Dichiarazione del Cc del Pci, “Lo Stato Operaio”, 8 ottobre 1936.
68 Su questo aspetto v. anche Bruno Grieco, Un partito non stalinista. Pci 1936: “Appello ai fratelli in camicia nera”, Marsilio, Padova, 2004, e Giorgio Amendola, Storia del Partito comunista italiano. 1921-1943, Editori riuniti, Roma, 1978.
69 Verbale dell'Ufficio politico del 17 febbraio 1937, in Apc 513 - 1 - 1432, p. 47; è anche impossibile, in questa sede, esaminare in dettaglio il ruolo di Togliatti che, detto in estrema sintesi, si è trovato a dover sacrificare Grieco, principale dirigente del Pci in Francia ed estensore materiale dell'appello, per salvaguardare il Partito dalla liquidazione, che aveva riguardato il Pc polacco, i dirigenti ungheresi e jugoslavi e Bela Kun in Ungheria.
70 S. Colarizi, cit., p. 232.
71 B. Anatra, Partigiano sulle rive del lago Tana, “Rinascita”, 19, 7 maggio 1966, p. 18
72 Apc, 513 - 1 - 1494.
73 Apc 513 - 1 - 1498, p. 27.
74 Apc 513 - 1 - 1494, p. 24-25.
75 G. Pajetta, in Il ragazzo rosso, Mondadori, Milano, 1983, p. 247-248, rivela dell'esistenza di un diario di Barontini, mai ritrovato; di Ukmar resta la testimonianza resa a Cesare Colombo e pubblicata da B. Anatra in “Rinascita” n. 19 del 17 gennaio 1966, cit. pagine 18-19. Di notevole importanza il libro della figlia di Barontini, Era, in collaborazione con Vittorio Marchi, Dario. Ilio Barontini, Nuova Fortezza, Livorno 1988.
76 B. Anatra, Partigiano sulle rive del lago Tana, cit. p. 19.
77 ibidem.
78 Matteo Dominioni, La missione Barontini in Etiopia. La singolare vicenda di un anomalo fronte popolare antifascista, in “Studi piacentini”, n. 35, 2005, p. 85 ss. Alle pagine 88-89 Dominioni ristampa anche due esemplari del foglio ciclostilato. V. anche, dello stesso autore, Lo sfascio dell'impero, cit. p. 292.
79 “Lo Stato Operaio”, n. 12, 1939, p. 277.
80 Cosi esempio Teshale Tibebu, The Making of Modern Ethiopia: 1896-1974, Red Sea Press, Lawrenceville, 1995.
81 Barontini, Era, Marchi, Vittorio , Dario. Ilio Barontini, cit. p. 197.
82 Cablogramma del quartier generale inglese al Cairo, del 25 settembre 1939, gentilmente fornito da Sandi Volk.
Gino Candreva, Nazionalismo e comunismo di fronte alla Guerra d'Etiopia in História: Debates e Tendências, vol. 13, núm. 1, enero-junio, 2013, pp. 150-166, Universidade de Passo Fundo, Passo Fundo, Brasil

1938-39. Ilio Barontini in Etiopia nel Goggiam. Foto dell’archivio storico dell’Unità - Fonte: paginerosse.wordpress.com

1938-39. Ilio Barontini tra i partigiani etiopi. Da sinistra: Kebbedè, ufficiale; Ghila Gherghis, diplomatico; Paolus Getahoum Tesemma, capo del governo in esilio, un guerrigliero. Foto dell’archivio storico dell’Unità - Fonte: paginerosse.wordpress.com

Qualche decennio fa il senatore del PCI Giancarlo Pajetta, intervistato sull'argomento, precisò che non fu mai trovato il diario del principale protagonista dell'impresa.
"…di quella vicenda e del fatto che là aveva trovato persino un comunista etiopico, ci disse di averne scritto nelle sue memorie. Doveva essere un racconto affascinante: dopo la sua morte cercammo il manoscritto per mezza Italia. Non lo trovammo e perciò restammo col dubbio che lo avesse scritto davvero. Si fece ogni sforzo ma nessuna delle donne che avrebbe potuto averlo avuto in consegna - e che, essendo assai numerose, rendevano la ricerca imbarazzante e non facile - fu in grado di farcelo ritrovare" (Giancarlo Pajetta, Il ragazzo rosso, Mondadori, Milano 1983).
Il mistero riguarda la missione (o forse più di una, certamente un paio) che nel 1938 un piccolo gruppo di comunisti, di quelli che fondarono il partito in Italia, compirono nell'Etiopia soggetta al tallone di ferro delle truppe d'occupazione italiane.
Tra di essi Ilio Barontini, un comunista le cui gesta in tre continenti rimangono leggendarie, ma note solo quelle in Europa.
Ancora una decina di anni fa era possibile incontrare ad Addis Ababa, presso il cimitero dei reduci a ridosso della chiesa mausoleo consacrata alle spoglie di Hailè Selassie, proprio sulla collina alle spalle del Ghebbi (palazzo) imperiale che fu di Menelik, gli ultimi reduci ottantenni-novantenni arbagnuocc che cacciarono i fascisti italiani dalla loro patria.
Ad un giornalista italiano uno di questi fieri e poverissimi vecchietti, che amavano stazionare presso il loro circolo di reduci indossando sempre l'uniforme color kaki della guerra italo-etiope, fece questa dichiarazione: "sì… c'era un italiano che ci insegnava a sfottere i fascisti… in italiano». A riparlarne gli vien da ridere, al veterano etiope in divisa kaki.
«Lui stava col nostro esercito, Paolo si chiamava. Me lo ricordo perché c'era la taglia col suo nome». Che faceva? «Ci mandava di notte sotto le mura dei fortini, a gridare a squarciagola». Cosa urlavate? «Le vostre mogli se la spassano con i gerarchiiii!». E poi? «Gridavamo in eritreo, agli ascari collaborazionisti: le vostre se le fanno gli italianiiii!». Abboccavano? «In cinque minuti scoppiava il pandemonio. I fascisti aprivano le porte e uscivano per farci la pelle. Noi scappavamo come lepri in una gola tra i monti. E lì c'era l'imboscata». «Aveva gli occhi folli» narra il veterano, sbarrando le pupille, come posseduto dal grande spirito. Ed evoca la leggenda clandestina del combattente di Spagna, Etiopia e Italia, che morì senza lasciar nulla di scritto. "Paulus" l'imprendibile, che insegna agli africani la guerra psicologica e l'uso delle mine, ciclostila giornali, obbliga le formazioni rivali a combattere unite, trasmette gli ordini del Negus…" (Paolo Rumiz, La Domenica di Repubblica, 30 aprile 2006)
[...] Fabio Baldassarri che recentemente ha curato una biografia di Ilio Barontini servendosi anche di testimonianze di compagni livornesi, cioè concittadini di Barontini che avevano appreso notizie sul suo conto dal medesimo protagonista delle stesse, parla soltanto di Paulus ovvero pertanto solo di Barontini che, nell'approssimarsi della data della partenza visse un periodo di isolamento in un'abitazione francese al fine di farsi crescere la barba e operare qualche altro cambiamento di connotati. (Fabio Baldassarri, Ilio Barontini un garibaldino del '900, Teti editore)
Intanto la polizia fascista e i servizi segreti di mezzo mondo già da tempo erano sulle tracce di un tal Paul Langrois del quale si comincia a paventare la presenza in Etiopia. Per il generale della PAI (Polizia dell'Africa Italiana) Marraffa è Paolo De Bargili, ma in realtà ancora oggi la sua vera identità è avvolta dal mistero. Per il dirigente comunista Anton Ukmar, da una testimonianza del dopoguerra, sarebbe invece il dirigente comunista Velio Spano ma successivamente sarà smentito da Giorgio Amendola e dalla stessa moglie di Spano, che pur ammettendo la presenza di Spano in Egitto in quel periodo nega che egli sia stato anche in Etiopia. In effetti Velio Spano era stato in Egitto, ma nel 1935, e della sua azione, o tentativo di azione, se ne ha traccia presso l'Archivio Storico del Ministero degli Affari Esteri (ASDMAE), Ministero dell'Africa. Da un'informativa di polizia del Tenente Colonnello Princivalle al Governo dell'Eritrea (Asmara 19 febbraio 1935), si apprende che il 27 dicembre del '35 furono trovati a Suez dentro a tre scatole di tabacco, alcuni volantini antifascisti in italiano.
Era un primo tentativo di azioni di propaganda del PCdI rivolta alle truppe dell'esercito italiano che passavano da Suez per dirigersi verso il porto di Massaua, nella colonia Eritrea, per dare inizio all'invasione dell'Etiopia.
Per altri Paul Langrois sarebbe una delle tante identità assunte dallo stesso Barontini. La confusione su questo punto è massima! E questo non è casuale.
Non è casuale che anche tra i dirigenti comunisti le informazioni e le testimonianze su quei fatti, che rimanevano alla fine del conflitto, fossero episodiche e spesso contraddittorie. Ciò dipende dalla formidabile struttura leninista clandestina del partito, forgiato in periodo fascista nella clandestinità e come "struttura d'avanguardia del proletariato composta da rivoluzionari di professione", che non consente la conoscenza di fatti ed azioni se non ai componenti delle cellule strettamente interessate ed a pochissimi altri nelle strutture di collegamento che, tuttavia, non conoscono, eccetto un contatto, gli altri componenti delle cellule stesse.
I due comunisti prendono contatti con i servizi segreti britannici e, con gli emissari di Hailè Selassiè. Partiti dalla Francia attraversano l'Egitto e il Sudan per trovarsi nel dicembre del 1938 in territorio etiope, nel Goggiam, nei pressi del lago Tana, dove si pongono al seguito del degiac (generale)Mangascià Giamberiè e dove le azioni della resistenza etiope sono più numerose e il suo controllo sulle foreste e le campagne maggiore.
Una prima lettere di Barontini giunge attraverso Khartoum : "…la mia salute è buona, nonostante la vita sia dura, dormire sulla terra, mangiare quando si trova, mangiare quello che c'è, bisogna avere uno stomaco di struzzo. Bisogna avere un fisico molto resistente. Al momento sono decisamente in forze, ci sono degli indigeni che nella zona terribile per la malaria hanno preso la febbre; al contrario io sto bene. È 26 giorni che passo da villaggio a villaggio, ho visitato fino ad ora tre grandi regioni. L'unico sistema di trasporto le nostre gambe, salire e scendere continuamente, di giorno il termometro segna 30-35 gradi all'ombra, la notte scende a 8-10. La situazione è buona. I contadini mi hanno fatto le migliori manifestazioni di amicizia, di rispetto, di considerazione, ho fatto e faccio tutti i giorni delle riunioni dando delle istruzioni, dei consigli, istruzioni militari, modo di combattimento, sul problema della salute, etc. Sono sorpreso poiché non ho mai trovato un pubblico più attento che qui, questi contadini sono molto intelligenti, imparano bene e dopo i miei discorsi manifestano per me una grande venerazione. Il documento del Negus è veramente formidabile. Penso che solamente la mia presenza qui è un successo, si riprende fiducia, ci si rinforza per sviluppare un miglior lavoro, per un lavoro più intensivo. Qui ci sono molti uomini disposti a combattere, ma non ci sono armi a sufficienza per armare tutti gli uomini disponibili. Ogni paese ha il suo armamento; ho visto centinaia e centinaia di fucili, ma ho constatato che provengono da diverse marche, questo fatto complica la formazione di unità omogenee. [...] I combattenti hanno una buona conoscenza per utilizzare le mitragliatrici; ma non ci sono munizioni. [...] Domani andiamo al combattimento, gli indigeni sono formidabili per il combattimento, ho visto un contadino donare una vacca per avere due cartucce per la sua arma. I preti sono sempre dalla parte della popolazione, ci sono dei preti veramente meravigliosi, sono in buoni rapporti con loro. Qui ci sono delle camicie nere che ti seguono non appena gli fai vedere un po' di soldi. Al momento ne ho una accanto a me che mi fa divertire. (lettera di Ilio Barontìni, Kartoum 6 febbraio 1939, inviata il 22 marzo, conservata presso il patrimonio archivistico dell'Istituto Granisci, tradotta dal francese e riportata da Matteo Dominioni in: Lo sfascio dell'Impero, Laterza 2008).
Una seconda lettera viene scritta il 9 maggio ed è indirizzata da "Jacopo" a "Tuti": …sono cinque mesi che il nostro compagno è in sede riconosciuto ufficialmente in base alle credenziali di ampia fiducia del Negus ed egli ormai ha preso la direzione militare di tutto quanto c'è di attivo e di combattivo laggiù e si tratta di parecchie decine di migliaia di uomini" (sempre da "Matteo Dominioni, op.cit.).
Nello schieramento opposto, quello delle forze d'occupazione italiana presso il comando di Gondar abbiamo una testimonianza della situazione di conflitto permanente esistente nella regione.
Curzio Malaparte, incaricato di un reportage giornalistico dal Corriere della Sera, con lo scopo di rassicurare la popolazione italiana a proposito della propaganda inglese antiitaliana, percorrerà nei primi mesi del 1939, al seguito di un contingente militare italiano, la rotta di rifornimento Massaua, Asmara, Adua, Bahir Dar, Addis Ababa. Nell'articolo intitolato "Passaggio di armati per le alte terre dell'Uoranà" non può fare a meno di descrivere, per quanto con toni rassicuranti e dissimulati, un attacco degli sciftà (briganti) e di un territorio del quale gli era stato sconsigliato il transito ( articoli adesso ripubblicati in "Curzio Malaparte, Viaggio in Etiopia ed altri scritti africani, Vallecchi 2006)
Sin da subito i due comunisti assumono le mansioni di istruttori militari e consiglieri.
Del "misterioso" Paul Langrois ci lascia una testimonianza il prigioniero italiano, capitano Bertoja, tramite Vittorio Longhi che era stato inviato nella regione del Goggiam per trattare la sua liberazione. Bertoja era stato precedentemente catturato dallo stesso degiac Mangascià ed ebbe modo di incontrare il presunto Langrois presso il villaggio di Fagutta e, naturalmente, considerandolo un traditore, lo descrive in maniera molto poco lusinghiera. Inoltre per Bertoja il compito che Langrois vuole portare a termine è quello di unificare l'azione delle tante bande di resistenti, spesso in conflitto reciproco, sotto un unico comando.
…"Sempre secondo Bertoja, Langrois è anche diventato il consigliere politico del piccolo gruppo di intellettuali che gravita intorno a Mangascia Giamberiè e che stampa alla macchia il settimanale ciclostilato <>. Ed ancora a lui il generale Marraffa attribuisce la paternità dei volantini che vengono diffusi in molte parti del Goggiam e che sono firmati da <>. Dice uno di questi manifestini: << ora l'Italia non ha più oro e argento; le banconote che vi danno non hanno più valore, sono come i marchi del 1918. Oh popolo d'Etiopia, attenzione! Non accettate le lire di carta. Gli italiani vi ingannano>>. (Angelo Del Boca, op.cit.).
Nella primavera del 1939 una seconda missione raggiunge gli stessi territori dell'Etiopia. Su questa si hanno maggiori ragguagli forniti da uno dei protagonisti, il comunista triestino Anton Ukmar, già combattente nelle brigate internazionali in Spagna e successivamente, nel '43 comandante della lotta partigiana in Liguria con il nome di battaglia di Miro. Testimonianze sulla figura di Ukmar e sulla sua impresa in Etiopia si hanno dalla sua stessa relazione pubblicata nel 1966 su Rinascita e dalle pubblicazioni del comandante partigiano G.B. Lazagna, oltrechè dalle edizioni dell'Anpi e in altri testi. Ukmar afferma che la missione gli fu affidata da Di Vittorio a Parigi. "La nostra missione consisteva in questo. Aiutare la popolazione etiopica nella mobilitazione contro l'aggressione colonialista e nella costituzione di un esercito partigiano; non si trattava di svolgere un lavoro di partito, né di presentarci come italiani ma semplicemente come membri delle Brigate Internazionali".
Insieme ad Ukmar fa parte della missione lo spezzino Bruno Rolla, già commissario politico della sezione clandestina del Partito a Palermo e combattente di Spagna nella 12a Brigata Garibaldi. Con loro ci sono il colonnello francese Paul Robert Mounier, del servizio d'informazione militare francese e simpatizzante della politica del Fronte Popolare, e Lorenzo Taezaz, uno dei più attivi collaboratori del Negus in esilio. Per Baldassarri, nella citata biografia di Barontini, Ukmar prenderebbe il nome di Johannes, Rolla quello di Petrus e Mounier quello di Andreas. La missione, sullo stesso percorso in territorio egiziano-sudanese sotto tutela delle truppe britanniche, presto raggiunge Ilio Barontini nel Goggiam. "…Ci mise al corrente della situazione e discutemmo insieme su da farsi: dovevamo riuscire a convincere gli etiopici ad abbandonare la struttura a grosse bande di 1000/2000 uomini, dei quali soltanto una parte armati di fucili, dato che queste formazioni erano lente nei movimenti e facilmente localizzabili; infatti venivano puntualmente scoperte e massacrate; essi avrebbero dovuto costituire gruppi più piccoli e mobili. Inoltre avremmo dovuto persuaderli a non uccidere più i prigionieri ma a disarmarli e lasciarli liberi…I guerriglieri etiopici avrebbero dovuto anche cercare di mantenere i territori liberati. Nostro compito sarebbe stato quello di mantenere i contatti con i capi della rivolta, coordinare le loro azioni, evitare i conflitti fra le varie formazioni, in modo da unificare nella lotta contro l'esercito coloniale tutte le energie" (Rinascita, n. 19, 7 maggio 1966 riportato anche in "Angelo Del Boca, op.cit.).
Inoltre si attribuiva particolare importanza all'opera di propaganda presso la popolazione e presso i militari italiani. Tramite un ciclostile veniva dato alle stampe un foglio metà in italiano e metà in amarico dal nome "La voce degli etiopi" con tiratura settimanale che poi veniva diffuso, fra le truppe italiane, dalle donne, in quanto meno sospettabili, che contemporaneamente carpivano informazioni fondamentali per la guerriglia. E' certo inoltre che si tentò di costituire una sorta di governo "ribelle" affinchè cominciasse ad essere riconosciuto un contropotere nei territori interessati dalla guerriglia.
Per mettere in pratica questo programma Barontini, Ukmar, Rolla e Monnier intraprendono viaggi, spesso ognuno singolarmente per tutto il vasto territorio del nord Etiopia che va dall'Ermacciò, al Beghemeder, al sud del lago Tana, al Goggiam.
E' certo che Barontini fu raggiunto da Lorenzo Taezaz in agosto e svolse la propria azione presso il degiac Mangascià, Ukmar operò nella zona di Gondar, attorno al Lago Tana, nell'Alto Nilo Azzurro e nel Goggiam.
Ma fu un compito irto di pericoli sopratutto a causa delle bande di mercenari sguinzagliati alla loro ricerca da parte delle autorità militare italiane e dalla rissosità tra le varie bende di resistenti etiopi.
Inoltre Monnier muore improvvisamente a causa delle febbri malariche mentre si spostava nella zona di Harar, ad est nel territorio etiopico, per prendere contatti con altri nuclei di ribellione.
Stessa sorte rischia di toccare ad Ukmar, ammalatosi anch'egli, e a Rolla a causa di una infezione ad una ferita che rischiava di degenerare.
Ukmar intanto aveva fatto chiamare i compagni mettendoli al corrente del suo stato di pericolo: "…Dapprima Ukmar ricevette un po' di latte, poi più niente.
Vennero due stregoni. Bruciarono erbe aromatiche e, infine, visto che non ottenevano alcun risultato, lo misero fuori dal tucul per lasciarlo morire. Dopo un po' lo privarono delle armi e degli oggetti di qualche interesse e lo trasportarono all'esterno del villaggio per abbandonarlo sotto un albero. Era la morte certa, anche per opera degli animali, se in quel momento non fosse arrivato Ilio Barontini.
Era sera e Ilio sentì pronunciare il nome che gli abissini avevano affibbiato ad Ukmar: Oghen. Barontini scorse il compagno e si rese conto che era in condizioni disperate. Gli apri la bocca con la lama della baionetta e gli fece ingoiare del chinino; poi lo fece caricare su un cammello e si avviò verso il Goggiam. A Barontini, quando era arrivato nel villaggio, era stato detto che iI suo amico poteva considerarsi morto. Trasferito in un altro villaggio, Ukmar pote invece riaversi rapidamente grazie a qualche settimana di riposo e ad un po' di recupero nell'alimentazione.
Anche Rolla si ammalo di li a poco. Una ferita ad un dito suppurò facendogli gonfiare tutto il braccio. Ancora una volta Barontini accorse in tempo. Gli pratico delle inieizione sulla ferita, la ripulì ben bene e Rolla guarì. " (Fabio Baldassarri, op. cit.)
Al colmo della malasorte anche quel minimo di dotazioni tecniche del gruppo si esauriscono. La radio smette di funzionare pertanto non potendo più ricevere istruzioni Ukmar, Rolla e Barontini decidono di sospendere la missione e di rientrare in Europa preceduti da Lorenzo Taezaz e De Bargili (Paul Langrois ?!).
Nella decisione di porre fine alla missione senz'altro ebbe un ruolo fondamentale il cerchio poliziesco che si stava per chiudere attorno al gruppo.
Infatti già dal 1935 la polizia italiana teneva sotto controllo le intenzioni e i progetti degli esuli antifascisti a Parigi: "…In una riunione promossa a Parigi da «Giustizia e Libertà» fra rappresentanti antifascismo italiano si sono esaminati mezzi idonei svolgere propaganda negativa fra nostre truppe e particolarmente fra quelle destinate Africa Orientale. Tra l'altro si è pensato inviare in Abissinia, previ accordi con rappresentante diplomatico etiopico a Parigi, qualche elemento del movimento antifascista per svolgere azione sul posto, a mezzo stampati da distribuirsi fra nostre truppe dislocate frontiera Somalia ed Eritrea. Fondi necessario dovrebbero essere forniti dal Governo Etiopico cui si chiederebbero anche garanzie per nostri soldati che si lasciassero convincere propaganda a passare al nemico…" (ASDMAE, MA//7, posiz. 181/6, fase. 3, telegramma n. 2693 di Lessona a De Bono, Roma, 26 marzo 1935; telegramma n.3541 di Emilio De Bono al Governo di Mogadiscio, Asmara 31 marzo 1935. Riportato in Matteo Dominioni op. cit.)
E ancora: "…viene riferito da fonte confidenziale che si starebbe organizzando in Francia una legione di italiani fuorusciti, a spese delle Internazionali. Anche trattandosi di poche persone, essa potrebbe provocare incidenti gravi per i rapporti franco italiani in questo momento delicatissimo. Pare che la legione dovrebbe imbarcarsi - clandestinamente - per prendere servizio a favore del Negus in Abissinia. [...] È possibile del resto che le Internazionali mirino soltanto a fare scandalo; a dimostrare all'opinione che vi sono italiani disposti a combattere per il Negus. Subordinatamente poi, a scagliarsi contro il signor Lavai se impedisse la sedicente spedizione…" (ASDMAE, MAIII, posiz. 181/56, fase. 271, lettera senza numero della Regia ambasciata di Parigi a firma Cerruti, Parigi 18 settembre 1935. Riportato in Matteo Dominioni op. cit.)
Successivamente giunse dall'Ambasciata italiana di Parigi un telegramma che momentaneamente escludeva azioni degli antifascisti in Etiopia: "…da accurate indagini esperite è risultato che la notizia riguardante la legione dei volontari italiani antifascisti per l'Etiopia non trova conferma in questi ambienti comunisti ed antifascisti in genere. Il progetto venne discusso, ma sembra, poi scartato per ragioni di opportunità…". (ASDMAE, MAIII, posiz. 181/56, fase. 271, telespresso n. 214747 del ministero degli Affari Esteri al ministero dell'Africa Italiana, Roma 30 aprile 1936 . Riportato in Matteo Dominioni op. cit.)
In Etiopia la cognizione delle strutture di polizia italiane, circa natura e programmi della missione comunista, ben presto cambia attribuendole un grado di maggiore pericolosità.
Questo avviene a causa del rapporto di Vittorio Longhi che mediava la liberazione del capitano Bertoja, di cui abbiamo già accennato. Il rapporto venne letto dal Ministro delle colonie Lessona e dallo stesso Mussolini e disegna il ritratto di Paul Langrois: "è un individuo di circa 40 anni, statura media, un po' curvo di spalle ma energico nel portamento; capelli, barba e baffi castano scuri, occhi neri, miopi; generalmente parla sfuggendo lo sguardo dell'ascoltatore; dentatura guasta, mancante di parecchi molari; ha una piccola cicatrice alla regione parietale destra, molto vicina all'occhio. Sguardo acceso, quasi da alcolizzato. Ha molta tendenza alle donne. Si fa passare per generale dell'esercito francese e racconta di essere stato in Spagna ed in Russia, ma parla mediocremente la lingua francese e conosce invece molto bene la lingua italiana, che parla con accento toscano. Il capitano, durante la sua prigionia, confidò a Longhi che l'emissario non era affatto uno straniero e neppure un generale, bensì un rinnegato italiano, invasato da idee antifasciste e probabilmente un giornalista. Si fa chiamare Paul Langlois e varie volte espresse a Longhi idee antifasciste, dichiarando altresì di appartenere al partito democratico sociale francese e che l'unico scopo della sua vita era di servire l'antifascismo internazionale. Si presentò al deggiac Mangascià con alcune credenziali munite del sigillo dell'ex negus, e sulle quali era incollata, per riconoscimento, la propria fotografia. L'azione dell'emissario non fu precisamente militare, ma propagandistica. Egli cercò di far riappacificare i deggiac ribelli, invitandoli a riunirsi compatti a combattere le truppe del governo ed aiutarsi vicendevolmente. Inviava delle relazioni nel Sudan e raccontò a Longhi che Karthoum era il centro dal quale si diramava la propaganda in A.O.I. e destinazione delle sue relazioni e delle pellicole cinematografiche da lui prese. A Karthoum i suoi corrispondenti trasmettevano le relazioni a Parigi, ove si troverebbe il centro della propaganda antifascista e antitaliana e dove si sosterrebbero le mire del partito nazionalista etiopico. Disse pure di essere stato a Londra per una settimana, espite dell'ex negus, ma il Longhi notò che l'emissario non conosceva alcuna persona del vecchio governo negussita e ciò gli apparve strano dato che molti seguaci si trovano ancora presso l'ex negus. L'emissario aveva per interprete un eritreo che il Longhi conobbe a Cheren che fu anche ascari del IV Battaglione, certo Emanuel Mangascià Burrù, maestro della scuola Salvago Raggi di Cheren. Altro interprete ai servizi dell'emissario era certo Atò Asseghei di Adua il quale dichiarò a Longhi, che l'emissario era persona nota anche al Duce e che in Spagna aveva prestato segnalati servizi per la causa del comunismo. (ASDMAE, MAIII posiz. 180/42, fase. 138, allegato al foglio n. 146636 di prot. di Amedeo di Savoia al ministero dell'Africa Italiana, Addis Abeba 7 dicembre 1939. Riportato in Matteo Dominioni op.cit.)
Da questo momento si moltiplicano le informative di polizia, le segnalazioni sulle azioni del gruppo e il cerchio inesorabilmente si stringe. Sempre il 7 dicembre del 1939 il duca Amedeo d'Aosta (che intanto aveva sostituito Rodolfo Graziani nella carica di vicerè della colonia Etiope) inviò al Ministero dell'Africa Italiana copia delle pubblicazioni dei ribelli e lo informò circa la loro dotazione di mezzi tecnici: "macchine fotografiche, una macchina da scrivere, una stazione ricetrasmittente e un poligrafo". ( ASDMAE, MAIII foglio n. 14764 di prot. di Amedeo di Savoia al ministero dell'Africa Italiana, Addis Abeba 7 dicembre 1939. In Matteo Dominioni, La missione Barontini in Etiopia. La singolare vicenda di un anomalo fronte popolare antifascista, Studi Piacentini).
Il 18 dicembre è la volta del generale Nasi a trasmettere al Ministero un'altro bando del presunto Langrois che era destinato ai capi della regione del Buriè. ( ASDMAE, MAIII foglio n. 145446 di prot. del generale Nasi al ministero dell'Africa Italiana, Addis Abeba 18 dicembre 1939. In Matteo Dominioni, La missione Barontini op cit.)
A gennaio la polizia dell'Africa Italiana diffonde una foto del presunto Langlois in compagnia di Mangascià e di Mesfin Scibesci. Cominciano a sorgere i primi dubbi sull'identità del Langlois. (Matteo Dominioni, La missione Barontini op cit.)
L'ispettorato generale del PAI di Addis Abeba, grazie ad un'ulteriore deposizione del Longhi comincia a disegnare un ritratto più preciso del Langlois: "…il così detto Paul Langlois è certamente italiano, e per meglio precisare toscano. Parla assai male il francese; fu in Spagna con i rossi ed in Cina con Ciang Kai Scek. A suo dire fu maggiore dell'esercito italiano e riveste il grado di generale (?) nella legione straniera. Giunse presso il Degiac Negasc il 18 marzo 1939, proveniente da Parigi donde era partito il 1° gennaio 1939 e dove faceva parte del partito democratico italiano. Entrò in A.O.I. dal Sudan Anglo, sfuggendo alla sorveglianza delle nostre truppe. Aveva con se due lettere autografe dell'ex negus, una per il Deggiac Negasc e l'altra per il «popolo del Goggiam» incitanti alla resistenza contro il Governo Italiano…".(ASDMAE, MAIII foglio n. 1258/5599 di prot. del generale Renzo Mambrini al Comando Generale della Pai e ministero dell'Africa Italiana, Addis Abeba 25 gennaio 1940. In Matteo Dominioni, La missione Barontini op cit).
Successivamente un'altra serie di informative interessò l'attività del gruppo antifascista italiano arrivando anche a dettagliare il viaggio intrapreso dal Langlois per raggiungere il capitano Monnier morente.
"Paul Langlois fu identificato come Paolo De Bargili solamente nel marzo del 1940. Dalla documentazio e dell'archivio del Ministero dell'Interno (casellario politico centrale) la PAI venne a conoscenza del fatto che sin dal 1923 Langlois era stato lo pseudonimo usato da De Bargili. Mai però la PAI e la PS si accorsero che anche il nome De Bargili era la copertura di un'altra identità, quella di Barontini. E' un fatto singolare che nel casellario politico centrale sia stata iscritta una persona inesistente. Un'ipotesi plausibile è che Barontini si sia impossessato dell'identità di un connazionale deceduto o emigrato clandestinamente e sparito all'estero" (Matteo Dominioni, Lo Sfascio dell'Impero, op. cit.)
Nel 1940 cominciò il percorso, attraverso gli stessi territori dell'andata, per il rientro in Europa.
Ma non fu una passeggiata, in quanto il gruppo, scortato da circa venti uomini e in compagnia di preti e dignitari etiopi, fu intercettato da una banda di mercenari e fu costretto a dividersi.
Nel punto di ritrovo concordato Barontini tardò per parecchi giorni fino ad essere considerato morto dai compagni. Fortunatamente, viceversa, il gruppo riuscì a riunirsi a Karthoum e in fine a maggio si trovò al Cairo per essere imbarcato da una nave della Croce Rossa francese per Marsiglia, piuttosto che la Grecia, la Siria o la Turchia in base a quella che era la loro preferenza. Barontini a marsiglia riuscì a scampare all'arresto. Non ebbero la stessa fortuna i compagni che furono imprigionati nel campo di Vernet d'Ariege.
Ma seguiamo il già citato racconto di Cesare Colombo per l'Istituto Gramsci. "Nel maggio del 1940 raggiunsero il fiume Altara girando al largo del lago Tana. Era necessario passare per un passaggio obbligato, molto pericoloso. Assieme ai tre italiani erano dei dignitari etiopi di cui tre ammalati, due preti coopti ed una scorta di circa venti armati. Vennero fermati da una banda di seicento etiopi, che erano stati in parte armati dai fascisti proprio per l'antiguerriglia.
Questi richiesero le armi pesanti e l'oro. lnfatti da tempo circolavano nel paese leggende sui tesori degli emissari del Negus e dei loro aiutanti europei; si parlava di trecento cammelli carichi d'oro.
Ukmar, Rolla e due etiopi, furono messi da una parte; Barontini, i due preti e due etiopi, da un altra.
Fu detto che l'oro era a Badaref, nel Sudan, e alla fine si accordarono che il gruppo di Ukmar e Rolla sarebbe andato a prelevarlo; Barontini e gli altri avrebbero aspettato.
Barontini aveva suggerito il piano, e si era accordato segretamente per fuggire (la tenda sua e degli etiopi che erano con lui si trovava al margine di un bosco) e ritrovarsi in un punto determinato.
La scorta del gruppo di Ukmar, Rolla e gli altri etiopi era stata scelta dai nostri: la maggioranza era costituita da amhara una parte dei quali aveva già combattuto con i patrioti e che al momento buono eliminarono quanti erano contrari a seguire le direttive dei prigionieri; si recarono al luogo convenuto con Barontini e lo aspettarono nove giorni; la banda che aveva fatto prigionieri i nostri nel frattempo si era spostata, erano tutti convinti che Barontini si fosse perduto nella foresta o fosse stato ucciso. Passarono la frontiera e raggiunsero Kartum senza incidenti. Andarono dall'ex-ministro etiope per riprendere i vestiti europei e gli inglesi gli comunicarono: - Anche il vostro amico italiano sarà qui domani. - Infatti Barontini, e gli altri che erano fuggiti con lui grazie alla complicità degli amharici, si erano persi nella foresta ed erano sconfinati nel Sudan, molto più a Sud.
Dopo otto o dieci giorni, alla fine del maggio '40, giunsero al Cairo. Chiesero di essere imbarcati per la Grecia o la Siria o la Turchia. Furono invece imbarcati in un piroscafo francese della Croce Rossa adibito al trasporto di rifugiati francesi ed olandesi. Barontini riuscì a sbarcare inosservato.
Rolla e Ukmar il giorno dopo l'arrivo a Parigi furono arrestati e poi internati nei campo di Vernet d ‘Ariége. Si era ai primi del giugno 1940. Qualche giorno dopo Parigi cadeva nelle mani dei nazisti.
(Per tutta la vicenda del rientro in Europa vedasi anche l'articolo citato su Rinascita, "B.Anatra, Partigiano sul lago Tana" e "E. Barontini, V. Marchi, "Dario").
Non si pensi che i Nostri siano stati ricoperti di onori dai compagni di partito. Lo stesso Barontini fu tenuto in isolamento, come in quarantena, intanto che il partito sondava qualità politica e limpidezza delle sue precedenti azioni. La logica della clandestinità non ammetteva deroghe e Barontini era stato per circa 18 mesi in rapporto con l'intelligence britannica, cosa che suscitava più di un sospetto. (Vedasi sempre il libro della figlia di Barontini "Dario").
Sempre Del Boca riferisce nel mai superato Gli italiani in Africa Orientale che questi non furono gli unici italiani ad aver militato nella resistenza etiope. Il grande storico dell'Etiopia Richard Pankhurst gli fece pervenire una piccola nota frutto di una ricerca nella quale figurano tra i combattenti etiopi il siciliano Saverio Sbriglio, che disertò per prestare soccorso quale infermiere presso la formazione di Abebè Aregai, e Alfonso P. che disertò per raggiungere le forze di Negasc Bezabè nel Goggiam. Alfonso P. finirà i suoi giorni internato per errore nel 1941, dagli inglesi, nel campo di concentramento di Dire Dawa e verrà pugnalato al cuore da alcuni fascisti. Inoltre nel 1941, alla data della liberazione dell'Etiopia, saranno centinaia, forse qualche migliaio, gli "insabbiati". Ovvero gli italiani che avevano disertato ed erano spariti nell'immenso territorio del paese, facendosi una famiglia e conducendo un'esistenza spesso clandestina [...]
Gaspare Sciortino, I comunisti e i guerriglieri del Negus. Un episodio della resistenza antifascista in Etiopia, 1938-39, www.resistenze.org, aprile 2012

La tesi è il frutto di una ricerca svolta in questi mesi insieme a docenti e studenti delle scuole superiori modenesi. La tesi è articolata in sei capitoli. Nei primi 4 capitoli, si analizza la storia coloniale italiana, gli studi etno-antropologici e il razzismo nei confronti degli africani. Il colonialismo italiano è una delle pagine più nascoste della storia italiana e la memoria coloniale italiana è tema storiografico poco dibattuto. Il colonialismo italiano veniva considerato meno violento, meno razzista rispetto a quello delle grandi potenze. È diventato un tema studiato da qualche anno, il merito dell’inizio di una nuova chiave di lettura del colonialismo va allo storico Angelo Del Boca. Lo storico, insieme da altri studiosi come Giorgio Rochat, Nicola Labanca, Valeria Deplano, Alessandro Pes, Barbara Sòrgoni, Barbara Spadaro, hanno iniziato a mettere in luce alcuni eventi e pratiche coloniali. Gli studiosi hanno dimostrato che il colonialismo italiano non è meno violento o meno razzista rispetto a tutti i colonialismi europei. Gli ultimi due capitoli si concentrano sulla ricerca svolta con i docenti e gli studenti, attraverso delle interviste, nel capitolo dedicato ai docenti, si cerca di analizzare se viene insegnata la storia coloniale nelle scuole superiori modenesi e in che modo. Sono stati intervistati docenti di diverse scuole di Modena e provincia, istituti di tutte le categorie: professionali, licei e tecnici. La storia coloniale è la grande assente, nei manuali le viene dedicato poco spazio. Non si parla quasi mai delle violenze, dell’uso dei gas, violenza di genere. Molti dei docenti intervistati, hanno però tematizzato alcuni argomenti e sono stati approfonditi in classe usando materiale oltre all’uso del libro di testo. Il sesto capitolo invece è sulla memoria coloniale nelle nuove generazioni, le interviste sono state fatte con studenti degli istituti professionali, licei e tecnici di Modena. Alcuni studenti sono figli di immigrati e con loro si è parlato, quando è stato possibile, della storia coloniale dei loro paesi di origini. L'obiettivo era quello di analizzare com’è la memoria coloniale nelle nuove generazioni, come percepiscono la storia coloniale e alcune tematiche legate ad essa come la violenza sulle popolazioni colonizzate, violenza sulle donne nelle colonie, il razzismo. La storia coloniale è stata trasmessa dalla scuola oppure dalla famiglia? In che modo? Gli studenti figli di genitori immigrati, si sentono far parte di tutte e due le patrie, hanno raccontato la storia coloniale dei paesi di origini, cosa si ricordano, come la percepiscono, quali sono i residui del colonialismo su questi paesi. Raccontando la loro memoria, gli studenti vivono sulla propria pelle l’eredità razzista del passato, simile a quella vissuta dai loro antenati. Sentono l’importanza di studiare la storia coloniale dei paesi di origini per conoscere quello che hanno dovuto subire i loro avi e perché credono che studiando il passato si possono evitare di rifare gli errori del passato. Anche gli studenti figli di genitori italiani hanno condiviso le loro memorie, fotografie risalenti dall’epoca coloniale. Anche loro sono sensibili a questo tema e credono nella sua importanza di conoscere il passato e affrontare alcuni temi nelle scuole per evitare di ricadere in errori fatti in passato, e che continuano a persistere nel mondo.
Ijjou Berdaouz, La storia coloniale italiana: memoria e insegnamento nelle scuole superiori modenesi, Riassunto, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, 2020


giovedì 23 settembre 2021

Sulla Missione Argo tra i partigiani del Veneto

In primo piano, secondo da sinistra, il ten. vasc. Vittorio Patrelli Campagnano, comandante del sommergibile Platino, fra gli uomini del suo equipaggio - Fonte: Giuliano Manzari, op. cit. infra

San Donà di Piave, 1 settembre 1943, Silvio Trentin rientra in Italia dopo quasi vent’anni di esilio (Archivio Centro Studi “Silvio Trentin” - Jesolo) - immagine qui ripresa da Memoria Resistente... op. cit. infra

A pochi giorni dall’inizio dell’occupazione, nell'abitazione dello stesso Marchesi a Palazzo Papafava a Padova (dove tra l’altro aveva sede il Ministero della pubblica istruzione di Salò e lo stesso ministro Biggini) veniva costituito il Comitato di Liberazione Nazionale regionale veneto, soprattutto su impulso di Marchesi e Meneghetti: composto dallo stesso Concetto Marchesi per il Pci e da Egidio Meneghetti, esso comprenderà tra i membri fondatori anche Mario Saggin (Dc), i socialisti Cesare Lombroso e Alessandro Candido, il cristiano sociale Italico Cappellotto, e l’azionista Silvio Trentin, quest’ultimo tra i maggiori fondatori.
[...] All’indomani della sconfitta francese del ‘40 Silvio Trentin divenne l’anima della Resistenza a Tolosa come uno dei capi e organizzatori delle formazioni partigiane. Dopo la caduta del fascismo rientrò clandestinamente in Italia, arrivando a Treviso il 3 settembre: subito dopo l’8 settembre tentò di convincere i comandi militari di Treviso e Feltre a distribuire armi per organizzare fin da subito la Resistenza popolare contro l’occupazione tedesca, ma invano. Si trasferì dunque a Padova - centro propulsore della Resistenza nel Veneto - inserendosi subito nella cerchia degli esponenti antifascisti dell'Università, nella quale aveva pure insegnato per breve tempo <162.
Alla riunione clandestina di Palazzo Papafava - oltre a Trentin, Marchesi, Meneghetti, Saggin, Lombroso, Candido e Cappellotto - fu presente anche Giancarlo Tonolo, studente di Lettere e Filosofia, antifascista di matrice azionista già dal 1941-42, che avrebbe fatto da segretario a Trentin e si sarebbe rivelato essenziale nell’esecuzione della “missione Argo”, partita il 4 febbraio ‘44 e costituita dall’italiano SIM (“Servizio Informazioni Militari”) in collaborazione con l’inglese SOE (“Special Operation Executive”) a loro volta in contatto con il Comando Militare Regionale Veneto.
Durante la missione Tonolo ospitò Giovanni Bruno Rossoni (capitano dell’Aviazione entrato dopo l’8 settembre al servizio del SIM) e il marconista Veglia, che sbarcati sul litorale adriatico dal sottomarino “Platino” con l’incarico di raccogliere informazioni sulle forze armate tedesche in Veneto e di stabilire un collegamento tra i comandi militari partigiani e il comando alleato, si erano stabiliti a Venezia. Tonolo fece anche da tramite tra Rossoni e il Comando Militare del CLN regionale e provinciale. Dopo importanti operazioni d'intelligence, la missione terminò l’8 agosto 1944 quando Rossoni venne catturato, deportato in Germania e fucilato a Mauthausen poco prima della fine della guerra, e quando Tonolo ormai braccato e condannato a morte fu costretto a riparare in Svizzera.
162 Cfr. scheda biografica dell’A.N.P.I.: http://www.anpi.it/donne-e-uomini/silvio-trentin/
Giacomo Graziuso, Gioventù e Università italiana tra fascismo e Resistenza: l’attribuzione delle lauree Honoris Causa nell’Archivio del Novecento dell’Università di Padova (1926- 1956), Tesi di Laurea, Università degli Studi di Padova, Dipartimento di Storia, Corso di Laurea in Scienze Storiche, Anno Accademico 2013/2014

Il Tonolo, che abitava a Mirano, era studente di Lettere e Filosofia presso l’Università Patavina, aveva maturato il suo antifascismo di matrice azionista già nel 1941-’42, sotto l’influenza dei corsi di Marchesi su Sallustio e Catullo, il quale, attraverso la letteratura latina, aveva potuto parlare liberamente di politica, e di Norberto Bobbio, il cui assistente era Opocher, che allora insegnava filosofia del diritto.
Grazie a questa vicinanza col gruppo dirigente della Resistenza veneta gli furono dati due importanti incarichi: fare da segretario a Silvio Trentin, quando questi era nascosto a Mira insieme al giovanissimo figlio Bruno, e il suo coinvolgimento nella missione Argo.
La missione Argo era una missione costituita dall’italiano SIM (Servizio Informazioni Militari) in collaborazione con l’inglese SOE (Special Operation Executive) che era in contatto con il Comando Militare Regionale Veneto. Meneghetti aveva dato l’incarico a Tonolo di accogliere Giovanni Bruno Rossoni, un capitano dell’Aviazione che dopo l’8 settembre era entrato in servizio al SIM.
Queste missioni svolsero un ruolo molto importante di collegamento tra le autorità alleate e le bande partigiane e di coordinamento tra le forze regolari e gli effettivi della Resistenza. In particolare lo scopo della Argo era di raccogliere informazioni sulle forze armate tedesche in Veneto e stabilire un collegamento tra i comandi militari partigiani e il comando alleato.
La missione era iniziata il 4 febbraio del ’44, quando dal sottomarino “Platino”, proveniente da Taranto, erano sbarcati Rossoni con il marconista Veglia sul litorale adriatico, vicino a Chioggia, dirigendosi poi a Venezia a casa Ferrari. Qui collocarono la ricetrasmittente, i cui fili si confondevano con quelli della biancheria. Grazie alla collaborazione dei ferrovieri fu possibile controllare il traffico militare tedesco, fornire notizie dettagliate sugli impianti delle stazioni d’interesse militare e dei lavori lungo la ferrovia; il servizio informativo si occupava anche dei porti e aeroporti e delle principali arterie stradali delle Venezie.
Il Tonolo faceva da tramite tra il Rossoni e il Comando Militare del CLN regionale e provinciale, favorito dal fatto che aveva la fidanzata a Venezia e poteva fare frequenti viaggi senza destare sospetti. La missione terminò l’8 agosto del ’44. Il Rossoni, però, dopo essere stato catturato, fu deportato in Germania e fucilato a Mauthausen poco prima della fine della guerra.
Il Tonolo braccato e condannato a morte fu fatto fuggire in Svizzera con documenti falsi e riparò presso dei parenti della fidanzata.
Maria Luciana Granzotto, Nel Miranese la lunga e difficile lotta della Resistenza di pianura, Patria Indipendente, 22 gennaio 2012

Il 26 gennaio [1944] partì da Brindisi il sommergibile Platino (ten. vasc. Vittorio Patrelli Campagnano), che sbarcò, poco dopo la mezzanotte del 30, cinque agenti dell’OSS vicino alla foce dell’Adige, nel Golfo di Venezia. La missione PEAR (piano radio Argo) era formata da due agenti della Regia Aeronautica: il capitano Bruno Rossoni, di Padova, e il sottufficiale Gaetano Neglia, di Palermo. Sbarcata il 31 alle foci del Po, operò nel Veneto raggiungendo Venezia il 4 febbraio e prendendo contatto con l’Esecutivo Militare, poi Comando Militare Provinciale Veneto. Dedicò particolare cura al controllo del traffico militare tedesco da e per la Germania sulle tre principali linee ferroviarie di comunicazione con l’Italia: Verona-Brennero, Mestre-Udine-Tarvisio, Mestre-Portogruaro-Trieste. Oltre a indicare gli obiettivi che le forze aeree alleate dovevano colpire, controllavano i risultati delle azioni. Le informazioni riguardarono ogni argomento d’interesse militare: numero e tipo delle locomotive, dei carri ferroviari, del materiale rotabile e fisso. Furono costituiti punti di controllo sulle grandi vie di comunicazione stradale con l’Austria (ponti di Vidor, della Priula, di Fagaré e di San Donà sul fiume Piave. Fu anche controllato il traffico costiero e lagunare fra Grado e Chioggia, fino al Po. Furono inoltre controllate e tenute sotto osservazione: - le fortificazioni alle foci del Piave (Jesolo, Marina di Cortellazzo), il dispositivo antisbarco fra Grado e la foce del Po, e i dispositivi per la distruzione degli impianti idrovori della stessa zona; - gli aeroporti di Aviano, Casarsa, Villorba e Campoformido; - il deposito di materiale del Genio (fra cui le travate metalliche necessarie al ripristino di tutti i ponti ferroviari del Veneto) della Comina (Pordenone); - il deposito autoparco di Casarsa; - il deposito munizioni di Campalto, Venezia; - i depositi combustibili sotterranei di Rovere sul Po e Roveredo in piano (Pordenone). L’8 agosto i due componenti furono arrestati, torturati e portati in Germania, dove furono fucilati dai tedeschi. <55
55 Riferimenti: Giuseppe Turcato e Agostino Zanon Dal Bo (a cura di), 1943-1945, Venezia nella Resistenza, Comune di Venezia, 1976, p. 208.
Giuliano Manzari, I sommergibili italiani dal settembre 1943 al dicembre 1945, Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare, Dicembre 2011

Attilio Rizzo nacque a Villadose (Rovigo) nel 1891. Fatto prigioniero dall'esercito austro-ungarico durante la Prima guerra mondiale, fu rinchiuso prima nel campo di concentramento di Braunau am Inn, e poi in quello di Mauthausen.
Nel 1919 si trasferì a San Donà di Piave (VE), dove, dopo aver lavorato per un breve periodo come geometra comunale, aprì uno studio privato. In quegli anni ricoprì ruoli di responsabilità nell'associazionismo locale di stampo cattolico e progettò vari edifici sacri a San Donà (la chiesa di Calvecchia, la chiesa del Piccolo Rifugio, la cappella Rubinato in Via Aquileia, la chiesa Ancillotto in Via Noventa) e a Musile (la chiesa delle Millepertiche, allora in frazione Croce).
Nel 1940 organizzò un primo incontro per creare una rete di contatti tra alcuni personaggi locali che condividevano con lui sentimenti antifascisti. Nel 1943 aderì alla Democrazia Cristiana. Dopo l'armistizio dell'8 settembre, partecipò a diverse riunioni volte all'organizzazione della Resistenza veneta, adoperandosi per stabilire contatti e collegamenti con Venezia e Treviso. Attraverso l'operato di staffette creò una rete di solidarietà nel territorio del Basso Piave e diede vita alla Brigata Eraclea della quale diventò il comandante. Nel dicembre 1943 fu arrestato a Venezia e condotto a Padova, dove fu incarcerato fino al 28 gennaio 1944.
Uscito dal carcere, riprese i collegamenti con le dirigenze provinciali e regionali della Resistenza veneta occupandosi della propaganda. Partecipò alla "Missione Argo", grazie alla quale i partigiani di San Donà ottennero un importante lancio da parte degli Alleati nei primi giorni di luglio del 1944. A causa di questo suo coinvolgimento, nell'agosto del 1944 fu nuovamente arrestato e detenuto nel carcere di Santa Maria Maggiore di Venezia fino al 5 ottobre. In seguito fu trasferito nel campo di concentramento di Bolzano e, infine, a Mauthausen.
Morì a Gusen il 5 gennaio 1945 [...]
Redazione, Attilio Rizzo, ElevaMente al cubo  

Giancarlo Tonolo. “Giancarlo Tonolo, giovane studente in Lettere e Filosofia [all’università di Padova frequenta i corsi di Marchesi e Bobbio] (…) e ne importa le idee in apese, dove ha modo di discuterle di nascosto con altri giovani amici. Giancarlo Tonolo ha anche la possibilità di prendere parte a quella riunione di fine settembre 1943 (tenutasi a Padova, in casa di Concetto Marchesi) dalla quale prenderà vita il Comitato di Liberazione Nazionale Regionale. Grazie a questa importante esperienza padovana e all’apporto degli altri giovani miranesi (…) inizia l’attività del Comitato di Mirano. (…) Collabora a livello provinciale alla realizzazione della “Missione Argo” (M. Lazzari, Mirano 1938-1946, p. 7). È sindaco di Mirano dal 1970 al 1980.
(a cura di) Giulia Albanese, Giulio Babbo, Marco Borghi, Elena Carano, Memoria resistente. La Lotta partigiana a Venezia e provincia nel ricordo dei protagonisti, Istituto veneziano per la storia della Resistenza e della società contemporanea con il patrocinio del Comune di Venezia in collaborazione con la Presidenza del Consiglio comunale Provincia di Venezia - Assessorato all'Educazione, 2005

martedì 14 settembre 2021

Cantare mi ha salvato la vita


Una chiamata fuori dalla cella poteva essere il segno della fine. Fuggito nel Ferrarese dalla sua città, braccato come ebreo, rinchiuso nel penitenziario di Codigoro nel dicembre del 1944, la confusione dei mesi che precedettero lo sfondamento da parte degli Alleati della linea Gotica aveva fatto finire quel ragazzo alla soglia dei 18 anni fra i detenuti comuni. Ma quanto sarebbe durata? In quel giorno freddo e cupo la differenza fra la vita e la morte era un soffio e infatti si rivelò tale. Spinto nei corridoi dai brigatisti neri, cacciato in uno stanzone, quel ragazzo capì allora che cantare può segnare una vita e anche salvarla. Su un palcoscenico improvvisato e malamente illuminato gli dissero di intonare qualcosa.
Di fronte a lui giovani feroci e disperati, ormai consapevoli di come sarebbe finita la guerra sbagliata che avevano combattuto e di come molti sarebbero stati chiamati a pagare per i crimini commessi sulla popolazione civile. Se siamo qui a parlarne, sospesi quasi settant’anni dopo nella luce sfavillante del monte Generoso e della valle di Muggio, in un sereno rifugio elvetico arrampicato sopra Chiasso, subito al di là del confine con l’Italia, è perché quella di Teddy Reno, divo degli anni ruggenti della ricostruzione, cantante, industriale discografico e scopritore di talenti, fu una storia a lieto fine.
Cosa si prova a passare dal terrore alla salvezza?
Evidentemente sollievo - risponde serio - ma vorrei dire che in quei giorni vidi giovani della mia età cui vennero da un momento all’altro i capelli bianchi. Eravamo ricercati, sfuggiti da Trieste e rifugiati in campagna grazie alle conoscenze di mio padre, l’ingegner Giorgio Merk, direttore generale delle industrie Arrigoni che da quelle parti avevano uno dei tanti stabilimenti. In quei mesi terribili si doveva solo sparire e attendere. Mia madre, ebrea, era ammalata e miracolosamente scampò alle ricerche. Mio padre e io infine fummo tratti in arresto come sospetti. I brigatisti neri mi costrinsero a cantare quello che potevano ascoltare i giovani nella Repubblica sociale, Lili Marlene, Camerata Richard, Vento portami via con te. Ero terrorizzato, non so dove ho trovato le forze. Il mio debutto fu la mia salvezza, mi salvò la vita. E da allora salire su una scena non mi ha più fatto paura.
Perché le chiesero di cantare?
Mi avevano sentito durante l’ora d’aria, quando i detenuti potevano allontanarsi un minimo dalla cella. Cantavo per ingannare il tempo, per non impazzire. Mi mancava da morire la radio clandestina che usavo per imparare l’inglese e per sapere cosa accadeva nel mondo libero. Quando vennero a prenderci ero riuscito per miracolo a far sparire tutti i miei appunti sugli orari dei programmi preferiti. E in carcere gli altri detenuti, molti erano dei semplici delinquenti comuni fra i quali cercavamo di mimetizzarci, mi battevano le mani. Pochi giorni dopo eravamo miracolosamente liberi, nella confusione generale eravamo riusciti a tornare nel nostro rifugio in campagna. Tornai a cantare solo quando vidi il primo soldato inglese. La fine della guerra offrì ai sopravvissuti l’occasione di partecipare a una stagione densa di speranze. Finito il conflitto rientrammo a Trieste. La città che aveva lungamente sofferto ed era rimasta sotto la diretta dominazione tedesca tornava alla vita, affrontando un incredibile decennio di amministrazione angloamericana e tornava ad essere un vulcano, un luogo di incontro di genti diverse e ricche di progetti. Ma soprattutto i militari inglesi e americani con le loro band portavano fra la gioventù un nuovo modo di vedere la musica e il divertimento. 


Teddy Reno naturalmente è un nome d’arte che nacque in quegli anni. Qual’è il suo vero nome?

Da bambino il mio nome era Ferruccio Merk, poi il cognome divenne Ricordi. Oggi sono Ferruccio Merk-Ricordi.
Perché questa mutazione?
Il fascismo decise, ancora prima di varare le leggi razziste del 1938, di italianizzare il cognome dei cittadini che portavano cognomi di origine non italiana. La famiglia di mio padre proveniva da un’antica stirpe dell’impero austroungarico. Da Merk il cognome fu tradotto in Ricordi. Mia madre, Paola Sanguinetti, veniva da una famiglia ebraica romana di industriali che possedevano le fabbriche di conserve alimentari Arrigoni, dove mio padre lavorava come direttore. Il cognome originario è tornato alla luce quando nel 1968 mi sono trasferito in Svizzera. Le autorità elvetiche hanno voluto vedere tutti i documenti e hanno cancellato gli effetti di quel provvedimento che negli anni Trenta ci aveva tolto il nostro vero cognome.
Lei da oltre quarant’anni risiede in Svizzera. Perché?
Sono arrivato in Svizzera mentre infuriavano le polemiche per la mia relazione con Rita Pavone. Lei era molto più giovane di me e io ero già sposato. Volevo sposarmi nuovamente con Rita e a Lugano è stato possibile. Da allora ci siamo fermati in Canton Ticino, un luogo pieno di fascino e di tranquillità, solo a un passo dal confine con l’Italia. Qui sono nati i nostri figli Alex, giornalista radiofonico alla Radio della Svizzera italiana e Giorgio, musicista (dal matrimonio con la mia prima moglie Vania Protti era nato precedentemente l’altro mio figlio, l’attore e regista Franco Ricordi).
E Teddy Reno?
Teddy Reno è nato quando dopo la guerra ho cominciato a cantare nei locali e a Radio Trieste. Avevo ormai deciso di fare il cantante e il musicista. Ma la vera svolta è stata quando sono riuscito a convincere Lelio Luttazzi a venire a Milano con me per fondare assieme una casa discografica. Lo conoscevo appena e lui mi rispose semplicemente: “Sì, andemo”. Era il 1947, avevamo appena vent’anni e tutti ci presero per matti.
E a Milano come andò?
Quando prendemmo un ufficio nella mitica Galleria del Corso, dove avevano sede tutte le case musicali di allora, credevano che fossimo due ragazzini allo sbaraglio. Ma la Compagnia Generale del Disco che avevo fondato con pochi accorgimenti divenne in breve uno dei protagonisti del mercato discografico italiano. Mi aiutò lo spirito imprenditoimprenditoriale ereditato dalla famiglia e anche una certa attenzione per quello che avveniva oltre le frontiere. Quando i dazi tenevano ferme anche per anni le novità discografiche americane noi eravamo rapidissimi a lanciare l’edizione pubblicata in Italia delle stesse canzoni. Cui aggiungevamo composizioni nostre e di nostri amici e repertorio tradizionale italiano.
Com’era l’industria musicale di allora?
Fra il 1948 e il 1961 mi sono affermato come interprete del genere confidenziale con canzoni di grande successo come Addormentarmi così, Trieste mia, Muleta mia, Aggio perduto o’ suonno, Accarezzame, Na voce na chitarra e o’ poco e’ luna, Chella lla, Piccolissima serenata. Nacquero nuove amicizie, alleanze con personaggi straordinari, come l’imprenditore musicale di origine ungherese Ladislao Sugar e innumerevoli altri protagonisti di allora. Mia madre, sulle prime disperata di avere un figlio cantante di musica leggera, fu infine conquistata dalla fama che mi ero guadagnato e a un certo punto l’ho colta vantarsi con qualche amica: “Sono la mamma di Teddy Reno”.
Oltre ai successi personali e in seguito a quello, travolgente, di Rita Pavone lanciata da un concorso per voci nuove inventato da Teddy Reno, lei ha messo assieme una folgorante carriera di attore, di showman radiofonico e televisivo concentrandosi infine sulla sua sulla capacità di scoprire i talenti dei più giovani.
Una passione che dura ancora oggi. Sia Rita che io stiamo organizzando iniziative che rilancino la canzone italiana. Fra pochi giorni, all’inizio di maggio, in migliaia di scuole italiane prende avvio la Festa di Gian Burrasca. Io sto lavorando anche su “Forza canzone d’Italia nel mondo”, un tour di 20 capitali mondiali per trovare nel mondo dei milioni di italiani che vivono all’estero l’ispirazione che faccia rinascere la grande musica leggera italiana.
La musica italiana è in crisi?
Chi si trova all’estero e accende una radio può facilmente constatare che oltre il 90 per cento della musica italiana trasmessa risale a molti anni fa. Evidentemente abbiamo perso terreno. Alla soglia degli 85 anni, ha ancora voglia di cantare?
Altro che. Anzi, non so come, ma mi sembra che mi sia anche migliorata la voce.
E alla festa del Libro ebraico di Ferrara, dove il 9 maggio è ospite d’onore assieme all’attore Arnoldo Foà, canterà?
Se mi hanno invitato forse se l’aspettano. Cantare mi ha salvato la vita, mi ha aiutato a superare gli anni difficili della mia gioventù, mi ha regalato il successo. Perché mai dovrei farne a meno?
Guido Vitale, Pagine Ebraiche, maggio 2011
Guido Vitale, Teddy Reno: “Ero braccato, la voce mi ha salvato la vita”, Stori@ il blog di Mario Avagliano, 9 maggio 2011 


venerdì 10 settembre 2021

Eppure l’Italia era tutta lì


Fonte: M. Bresciani, Op. cit. infra *

* M. Bresciani, Op. cit. infra: "Figura 1. Il rifugio svizzero (1943-45). Per ciascun personaggio si indica una sola sede di esilio, la più notevole o quella del soggiorno più prolungato; si privilegiano quindi le dimore stabili invece che i campi di smistamento o di quarantena (Adliswil, Balerna, Ringlikon, ecc.) dove i profughi furono condotti al loro primo ingresso nella Confederazione. Si tenga comunque presente che, per gran parte dei nomi censiti, i traslochi per ragioni politico-burocratiche furono frequenti. In maiuscoletto i personaggi esuli dall’Italia prima del 25 luglio 1943, ossia con il recollocazioni doppie o multiple riguardano unicamente i docenti e gli studenti dei corsi tenuti nei campi d’internamento per ufficiali (ad esempio Mürren), nei campi universitari (Friburgo, Ginevra, Losanna, Neuchâtel) o nei campi liceali di Davos e Trevano. I professori e gli studenti sono stati rappresentati con un simbolo".

La rappresentazione più sfaccettata della minoranza attiva che fece la Resistenza va cercata nelle pur effimere vicende della Repubblica partigiana dell’Ossola, instaurata tra il 10 settembre e il 23 ottobre 1944: nella sua giunta era commissario per la stampa e il collegamento con l’autorità militare Mario Bonfantini, francesista, socialista, il quale tenne lezioni di storia moderna per la cittadinanza di Domodossola fino all’ultima sera della Repubblica. Intorno a quella esperienza partigiana gravitarono inoltre lo scrittore Franco Fortini, il filologo Gianfranco Contini (autore con l’italianista Carlo Calcaterra del programma scolastico), il poeta Sandro Sinigaglia e il già menzionato Concetto Marchesi. Il 15 ottobre - poco prima che la Repubblica cadesse sotto l’assedio fascista - Contini riuscì a dare alle stampe il quarto numero della rivista «Lettres»; era dedicato alla letteratura italiana contemporanea, da Saba a Ungaretti, da Montale a Penna, da Gatto a Vittorini, tradotti in francese per l’occasione: del comitato redazionale della rivista faceva parte Jean Starobinski, a sua volta in stretto contatto con Fortini.
«La faccenda dell’Ossola, in settembre-ottobre, fu una cosa molto umana e importante. Abbiamo vissuto nell’ossigeno della libertà - esperienza che è certo mancata a tutti gli altri italiani. Unanimità, entusiasmo collettivo, esaltazione. Sono tornato al momento della seconda liberazione, per alcuni giorni, e ho visto la differenza di potenziale, la sfiducia, l’atonia, il psichismo amorfo e meschino, l’arrivismo dei botoli. Inutile dire che i migliori hanno totalizzato calci nel sedere. Già erano dei mazziniani: Tibaldi, presidente della Giunta provvisoria, Facchinetti, organizzatore da Lugano, ecc. Eppure l’Italia era tutta lì, in quei mesi e forse non si può ritrovarla altrove».
Più che il senno della delusione di poi va rimarcato, in questa lettera di Contini a Gianfranco Corsini - la data è il 21 agosto 1945 -, il calore di un presente vissuto, e anzi moralmente delibato. È una temperatura etica (e religiosa: la parola entusiasmo va intesa nel significato etimologico) tale da rintuzzare un argomento forte della storiografia revisionista: quello secondo cui le rade minoranze impegnate, nei venti mesi della guerra civile e nei primissimi anni della nuova Repubblica italiana, in un tentativo di palingenesi etica, di completa rifondazione dei costumi privati e pubblici, erano cupe minoranze di punitori di se stessi e del prossimo loro.
Vera e propria retrovia della Repubblica dell’Ossola fu la neutrale Svizzera, dove Contini, che dal 1938 vi insegnava filologia romanza all’Università di Friburgo, riprese le sue lezioni dopo la fine dell’esperienza partigiana. A seguire il grande filologo troviamo, fra gli altri, Dante Isella e Giansiro Ferrata, i quali, con Puccio Russo, figlio dell’italianista Luigi, realizzarono allora una traduzione a sei mani di A Farewell to Arms di Hemingway (poi pubblicata nel 1946 da Mondadori), romanzo la cui circolazione era proibita sotto il fascismo. Non è perciò sorprendente che, nell’Italia lacerata dalla guerra civile, fossero in corso altre tre traduzioni del capolavoro dello scrittore americano, centrato sulle traumatiche esperienze della prima guerra mondiale sul fronte italiano, intorno alla disfatta di Caporetto: una di Giorgio Bassani (realizzata nel 1943 e mai data alle stampe), una di Bruno Fonzi (la prima a uscire, nel dicembre 1945, presso l’editore romano Jandi Sapi), un’altra ancora di Fernanda Pivano (pubblicata anch’essa da Mondadori nel 1949; Pivano era stata arrestata a Torino, nel 1943, proprio a causa di questa traduzione clandestina).
Il fervore culturale della Svizzera non si limitava certo a Hemingway. Nel biennio 1943-45 essa accolse 45 000 italiani: oltre 29 000 militari e circa 15 000 civili (il maggior gruppo nazionale di profughi), tra i quali gli ebrei erano quasi la metà. Della Confederazione presentiamo una mappa (fig. 1) che ne fotografa la situazione complessiva di rifugio dell’antifascismo.
Il giovane editore Giulio Einaudi, riparato a Losanna, la definì «una sorta di limbo»; qui si è scelto di metterne in rilievo alcuni aspetti legati alla formazione della futura classe dirigente di un paese libero. Molti dei rifugiati sono infatti giovani militari, renitenti alla leva di Salò e destinati a divenire personaggi di primo piano nella vita intellettuale italiana del dopoguerra, come Luigi Comencini e Alberto Vigevani, direttori del giornale socialista ticinese «Libera Stampa ». Per altri invece (come ad esempio Altiero Spinelli o Umberto Terracini) la Svizzera è un asilo temporaneo, da cui ritornare in Italia per riprendere la lotta antifascista clandestina.
Il nucleo delle attività politiche antifasciste, che si svolgono soprattutto fra Bellinzona e Ginevra, è il Movimento federalista europeo di Ernesto Rossi e di Spinelli, con i quali collabora Adriano Olivetti: in quei mesi e in quei luoghi si discute dell’assetto di una futura Europa democratica e federalista.
Per altri ancora - giovanissimi e anziani - la Svizzera rappresenta un’opportunità, incongrua ma sfruttata pienamente, per insegnare e per studiare al livello più alto.
Campi universitari per i militari italiani vengono allestiti a Friburgo, a Ginevra, a Losanna, a Neuchâtel. Per limitarsi ai docenti di Losanna, intorno al rettore Gustavo Colonnetti, ingegnere, troviamo Luigi Einaudi, Amintore Fanfani, Stefano Jacini, Concetto Marchesi, Eugenio Mortara, Ernesto Nathan Rogers. Quanto agli allievi, il futuro pittore Enrico Baj e il futuro regista Dino Risi seguono corsi di medicina a Ginevra; nella stessa città studia diritto Giorgio Strehler, che intanto mette in scena Le tre sorelle di Cechov a Mürren, campo di internamento ufficiali dove studiano anche Franco Brusati e Livio Garzanti, e dove insegna il poeta Diego Valeri. Vico Magistretti, studente di architettura a Losanna, si prepara a diventare uno tra i maggiori designer del dopoguerra italiano, mentre ancora a Ginevra, nel 1944, il ventiquattrenne d’Arco Silvio Avalle è assistente di letteratura italiana nel campo universitario, dove si trova internato come pilota dell’aviazione.
Ma il percorso svizzero più tortuoso, e perciò stesso esemplare, è quello di Piero Chiara: nel febbraio 1945 il futuro autore de Il piatto piange sostituisce Giancarlo Vigorelli sulla cattedra di italiano, storia e filosofia dell’Istituto Montana di Zugerberg, mentre già dall’agosto precedente lavorava (grazie al vescovo di Lugano) come bibliotecario nell’Istituto Maghetti presso Mendrisio. Chiara era entrato nel territorio della Confederazione il 23 gennaio 1944: all’arrivo lo avevano atteso il carcere, vari campi di raccolta per profughi e una successione di campi di lavoro dove aveva prestato servizio come sguattero, addetto alle latrine, uomo di fatica nei giacimenti di torba.
Marco Bresciani (con Domenico Scarpa), Gli intellettuali nella guerra civile (1943-1945), in Atlante della letteratura italiana, a cura di S. Luzzatto e G. Pedullà, vol. III. Dal romanticismo a oggi, Einaudi, 2012, pp. 703-717

lunedì 6 settembre 2021

Torino nella Resistenza

Un volantino tedesco del settembre 1943 rivolto ai soldati italiani - Fonte: Mostra fotografica: La Primavera della Libertà (1940-1945). Un borgo in guerra. La guerra, i bombardamenti, la resistenza, i partigiani e i caduti della Circoscrizione 6, Torino, ANPI VI circoscrizione, Auser, CGIL SPI, (1995) 2013

Un altro volantino tedesco - Fonte: La Primavera della Libertà cit.

L’8 settembre 1943 il Piemonte viene occupato dalle truppe tedesche. Le violenze compiute nei confronti della popolazione civile (l’incendio di Boves vicino a Cuneo) e contro gli ebrei (gli eccidi sul lago Maggiore e le deportazioni di Borgo S. Dalmazzo) concorrono a determinare rapidamente un clima di terrore e di radicale ostilità in cui maturano le condizioni della resistenza armata. Torino ben presto diventa la sede naturale dell’attività clandestina per due ragioni evidenti: il peso naturale di un capoluogo regionale che si presenta con i tratti della grande città industriale, che porta dentro di sé, soprattutto nelle fabbriche che innervano il tessuto urbano, la tradizione antifascista e la memoria dei conflitti del primo dopoguerra. Ma Torino è anche il luogo che nella regione ha subito le conseguenze più gravi della guerra e, in particolare dall’autunno 1942, il peso devastante dei bombardamenti angloamericani. Le distruzioni e le morti, dopo le delusioni della guerra fascista, hanno finito con il segnare il distacco dal regime e dall’idea stessa della guerra. La pace diventa l’attesa e la speranza della popolazione: l’occupazione tedesca, sentita come aggressione, è vista anche come perdita, caduta della speranza di pace, così come la proposta politica della Repubblica Sociale, voluta da Hitler, nel sentire comune viene rifiutata, prima ancora che per dissenso ideologico antifascista, perché significa la continuazione della guerra accanto all’«alleato» tedesco. Questo elemento di fondo non va mai dimenticato perché fornisce all’opposizione clandestina, al di là dei contrasti fra le diverse componenti che costituiscono il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), un solido terreno comune. Il nemico è il tedesco, non più alleato ma invasore; il nemico è il fascista della Repubblica Sociale, collaboratore dei tedeschi, nemico interno pericoloso e odiato. Ciò fa sì che il movimento clandestino, oltre ad avere una notevole estensione e diffusione nella città, abbia anche una grande capacità di attrazione verso l’esterno: tutte le organizzazioni politiche e le formazioni partigiane avranno in Torino il centro «naturale» di riferimento e coordinamento. Accanto a queste motivazioni forti sul piano politico militare e psicologico, esistono altre ragioni, meno evidenti e tuttavia importanti, che possono spiegare la capacità di irraggiamento e coinvolgimento che Torino ha nei confronti di un territorio ampio. In particolare verso le vallate alpine che a occidente dal confine con la Francia si aprono verso la pianura, avendo come punto di attrazione convergente proprio il capoluogo regionale. Queste valli, allora molto più di oggi abitate anche a quote relativamente elevate, hanno rapporti con la città che derivano da fenomeni in atto da tempo, ma anche rapporti nuovi, nati con la guerra.
Tra i fenomeni che agiscono e rendono stretto il rapporto tra Torino e le vallate alpine in cui si insedieranno numerose e forti formazioni partigiane, il primo è costituito dai flussi migratori dalle valli alpine verso il fondovalle e verso la città capoluogo. Avviatisi nella seconda metà dell’Ottocento, questi movimenti si incrementano all’inizio del Novecento quando lo sviluppo industriale di vari settori richiama dalle valli operai artigiani che si occupano nelle fabbriche, ma anche molte persone, uomini e donne, occupate nei servizi. Migliaia di persone e migliaia di famiglie che fanno crescere Torino, ma che mantengono con le valli riferimenti e collegamenti. Lo sviluppo rapido, quasi violento dell’industria, in primo luogo l’industria meccanica nel corso della prima guerra mondiale, accelera il fenomeno che si attenuerà, senza tuttavia interrompersi, nel corso degli anni Trenta in conseguenza del controllo della mobilità sul territorio esercitata dal regime. Il fenomeno riprenderà slancio tra il 1939 e 1942, stimolato dall’incremento dell’attività delle industrie torinesi legate alla produzione bellica. La città si gonfia di presenze temporanee e permanenti.
 

Le conseguenze dei bombardamenti in Via Boito a Torino - Archivio Vigili del Fuoco - Fonte: La Primavera della Libertà cit.

Una bomba d'aereo, inesplosa a Torino - Fonte: La Primavera della Libertà cit.

Lo scatenarsi dei bombardamenti sulla città dal novembre 1942 invertirà rapidamente il movimento. Lo sfollamento coinvolge migliaia di persone e di famiglie, che abbandonano la città per trovare scampo nei centri minori. Una cospicua parte di sfollati troverà ospitalità nelle valli alpine, proprio in quei paesi che in anni non lontani erano stati abbandonati. Il dato interessante è che lo sfollamento ha almeno due volti: uno permanente che coinvolge quella parte della famiglia che non ha attività continue nella città, e una parte invece mobile, che riguarda i lavoratori e quanti hanno attività in città. La mobilità può essere giornaliera per chi può raggiungere in tempi ragionevoli di percorso (fino a due ore di viaggio) i centri di residenza. Riguarda i lavoratori dell’industria, degli impieghi e dei servizi, ma anche settori della borghesia produttiva (impiegati, commercianti, professionisti) che hanno nelle valli le residenze usate per le vacanze estive e invernali e che ora diventano la residenza principale, mentre la casa in città diventa secondaria. Si crea un artificiale rapporto tra città e campagna, uno scambio forzato che non si limita alle residenze ma coinvolge molti settori della vita quotidiana a cominciare dall’organizzazione del tempo, all’alimentazione, agli spostamenti che le strutture cittadine sconvolte dalla guerra e dalla sparizione dei beni di largo consumo non possono più garantire.
In questo territorio sconnesso si inserisce l’iniziativa politico militare che ha una dimensione cittadina e una dimensione esterna alla città, ma con questa raccordata. Nascono le strutture militari e politiche di coordinamento regionale come il Comitato Militare Regionale Piemontese e il Comitato di Liberazione Regionale e una fitta rete di strutture militari cittadine come i Gruppi di azione patriottica, le Squadre di azione patriottica, coordinate dal Comando Piazza e verso la fine della guerra gli organismi di coordinamento dell’insurrezione; di organizzazioni politiche come i CLN di quartiere, di fabbrica, di scuola, coordinati dal CLN cittadino; le organizzazioni sindacali (i Comitati di agitazione e i Comitati sindacali), e di massa come il Fronte della Gioventù per i giovani, o i Gruppi di Difesa della Donna.
Fuori della città, nelle valli a ovest di Torino nascono i primi gruppi di resistenti, in forme inizialmente instabili e via via più solide fino alla complessa articolazione delle formazioni che scenderanno sulla città nei giorni della liberazione.
 

La formazione Mauri nell'estate 1944 in Valle Maudagna (CN) - Fonte: La Primavera della Libertà cit.

Il rapporto che si stabilisce tra città e valli è quindi un rapporto articolato e complesso, fatto di movimenti e spostamenti che hanno regole interne, ma che sono sottoposti alla forza di eventi improvvisi. Sono perciò evidenti flussi di andata dalla città alle valli, verso le formazioni partigiane che controllano il territorio di montagna e di fondovalle. Ma esistono anche flussi di ritorno in cui la città diventa rifugio per i militanti clandestini perseguitati, per gli sbandati, per i feriti, per tutti coloro che hanno bisogno di un momento di riposo o di distacco.
 

Gruppo Stellina. Valle di Susa. IV Div. Alpina G. L. Duccio Galimberti. Archivio Istituto Storico della Resistenza Torino - Fonte: La Primavera della Libertà cit.

Le fasi dei movimenti in uscita sono abbastanza definite: in una prima fase, tra l’autunno e l’inverno 1943, due sono le componenti individuabili. La prima è costituita dai militari che dopo l’armistizio cercano rifugio sulle montagne per sottrarsi alla cattura. La maggior parte si disperde rapidamente. Una parte minoritaria, ma significativa, dà invece origine a formazioni partigiane stabili come in Valle di Susa e Val Sangone o nelle valli valdesi. La seconda componente è alimentata dai militanti politici, soprattutto comunisti, azionisti, socialisti che mandano verso la montagna i giovani con l’obiettivo preciso di farne dei partigiani, dei combattenti a tempo pieno. Questi ultimi sono in prevalenza giovani operai che trovano nella fabbrica i contatti per salire nelle formazioni in montagna; sono ben riconoscibili i percorsi soprattutto verso le formazioni Garibaldi delle Valli di Lanzo o delle plaghe del Montoso e le formazioni di Giustizia e libertà.
 

Partigiani garibaldini in Langa - Fonte: La Primavera della Libertà cit.

La seconda fase è quella travolgente della tarda primavera ed estate del 1944 in cui i flussi dalla città si fanno intensi e trasformano i gruppi e le piccole aggregazioni dell’inverno in formazioni numerose. Sono i giovani che si sottraggono alla chiamata alle armi della Repubblica Sociale. Danno vita a una crescita rapida, spesso troppo rapida che rafforza, ma appesantisce le formazioni e le espone alle rappresaglie dei tedeschi. Il fronte delle Alpi occidentali diventa strategico per i tedeschi a partire dall’agosto 1944; non possono tollerare minacce alle loro linee di comunicazione nelle valli dove si insediano. Attaccano perciò pesantemente le formazioni partigiane, costringendole a spostarsi in aree meno minacciate, come la pianura o i sistemi collinari a est di Torino.
È in questa fase, soprattutto nell’autunno 1944, che una quota consistente di partigiani rientra in città e trova soluzioni di sopravvivenza nei quartieri popolari e spesso nelle fabbriche, in cui molti proprietari, che vedono ormai vicina la conclusione della guerra, sono disponibili a occuparli nelle aziende, dando loro la copertura necessaria per sfuggire alla cattura. Questa presenza di partigiani in città è un elemento di crescita organizzativa delle formazioni paramilitari che nel corso dell’inverno vengono costituite nelle fabbriche e nei rioni in vista dell’insurrezione. È anche l’elemento che incrementa la guerra di città con gli agguati nelle strade del capoluogo e purtroppo la triste sequenza dei caduti.
La terza fase si ha nella primavera del 1945, quando l’avvicinarsi della conclusione della guerra alimenta di nuovo le formazioni partigiane con ritorni e nuovi arrivi.
 

Trattoria Casa Bianca. Chialamberto. Maggio 1945. Accoglienza della popolazione ai partigiani. Archivio Istituto Storico della Resistenza Torino - Fonte: La Primavera della Libertà cit.

L’insurrezione è l’ultimo movimento: la discesa verso la città delle formazioni delle valli, quasi a ricomporre in pochi giorni un equilibrio che la guerra aveva rotto e trasformato. Vista così l’insurrezione appare come un movimento «naturale»; è invece un piccolo miracolo militare e soprattutto una straordinaria prova politica, che unisce in un unico sforzo coordinato e vincente la resistenza cresciuta negli spazi aperti delle valli e il movimento cittadino. Le manifestazioni che si svolgono a Torino nei giorni immediatamente successivi a una liberazione conquistata prima dell’arrivo degli alleati, danno visibilità simbolica al compito di guida politico-militare e morale giocato dalla città subalpina nella resistenza italiana.
Claudio Dellavalle, Torino, capitale subalpina della resistenza in Alpi in Guerra, La Memoria delle Alpi

mercoledì 25 agosto 2021

Chissà dove si andrebbe a finire, se tutti si mettessero a studiare veramente


Se temete di essere magnificamente avvincenti e pensate che troppo entusiasmo da parte degli ascoltatori/interlocutori possa nuocervi, potete far uso di particolari accorgimenti - alcuni, peraltro, di facile applicazione e alla portata di qualsivoglia oratore o didatta - in grado di smorzare l’attenzione, la curiosità, il piacere e quindi di riportare il tutto su un normale tono di comunicazione vacua e burocratica.
Un metodo sempre valido è quello che potremmo definire delle “letture obbligatorie”. Lo si può applicare nei più svariati contesti, non solo nella scuola dove probabilmente ha avuto la sua origine (un esempio classico sono i compiti per le vacanze - che delizioso ossimoro! - imposti prima dal prof e in seconda istanza da un genitore), ma nelle esposizioni, nei concerti, in famiglia. Negli anni ’70 era assai diffuso in molti gruppi politici, specie in quelli di estrema sinistra. Consiste nel porre un determinato compito, non necessariamente una lettura ma anche la stesura di un testo, la visione di un film, ec., come un qualcosa da doversi eseguire assolutamente, al di là di qualsiasi motivazione esposta in chiaro o di ogni convincimento personale, pena l’incorrere in gravi conseguenze, che possono andare dal subire severi rimbrotti e reprimende sino all’essere considerato un reietto e un rifiuto della società. In questa classe di fenomeni potremmo far rientrare le letture punitive, imposte al reo per ammenda. Le cosiddette pene alternative saranno alternative, e vabene, ma sicuramente sono anche pene, e la pena è cosa ben diversa dal sacrosanto impegno che un soggetto si auto-impone per arrivare ad un certo risultato, od approssimarvisi, o volutamente mancarlo per decisa deviazione atta ad ottenere altro risultato che il quel momento lo aizza e scatena vie più. Invece, l’obbligo ci farà dispiacere tutto il nostro lavoro, che cercheremo di portare a compimento il più velocemente possibile onde passare ad altre attività e rimuovere al più presto tutti gli eventuali elementi appresi (o, più che appresi, appiccicati lì, come poveri ditteri sulla carta moschicida).
Un altro metodo, oggi molto in voga, è quello di fare discorsi o tenere lezioni seguendo le indi-cazioni dei corsi di Public Speaking. Ora, come un racconto scritto da un tizio che ha appena fatto un corso di scrittura creativa lo intercetti subito per la sua fragranza di finto, di sciapo, di com’è ben scritto, così, un oratore che vuol essere accattivante e probabilmente ha studiato tanto all’uopo, lo noti già nei primi secondi di loquela. Muove le mani, sorride, ha una voce ben impostata. Non è importante quello che dice, è importante come lo dice. A volte fa uso di buffe espressioni, sgrana gli occhi, fa le faccine e le faccette, si avvicina e si allontana dal pubblico (o dalla videocamera), mette qui e là dei punti esclamativi. Dice cose facili, magari già note od ovvie, che quindi sono ben accette perché si riesce a capire tutto all’istante. Escogita degli stratagemmi comunicativi, una spiritosata qui, una parolaccia là, per colorire un po’ l’insieme. Lo vedi, che fa l’autocompiaciuto, scherza, si fa l’autobiografia oppure fa il satirico, parla come si mangia (però bene, eh!), ha la sicurezza e la verità in tasca. È aggressivo, deciso, mima il pensiero (apre le virgolette con le dita, le chiude), dice “piuttosto che” in luogo di “oppure”, fa premesse e promesse da imbonitore, magari fa un lunghissimo preambolo per creare un senso di attesa, buon erede dei ciarlatani e del dottor Dulcamara. Vuole attirare, coinvolgere la platea, suscitare emozioni. Il tedio è assicurato.
Se però voi volete davvero annoiare, e a lungo, allora l’uso delle diapositive - oggi digitalizzate e definite slides - resta per ora insuperato. Tu spieghi una cosa e intanto si vede la slide: una sorta di tabella dove ci sono scritte proprio le cose che stai dicendo tu. Le diapositive di cartoline o quadri, poi, che meraviglia. Si fanno avanzare automaticamente, quindi hanno tutte un uguale tempo di visione, si procede con lo stesso monotono ritmo. Non ti soffermi quanto vuoi, secondo i tuoi interessi, ma sei costretto a seguire passivamente lo scorrere delle immagini. Purtroppo Emilio Praga, in una delle sue cronache d’arte, ahimè, scrive:
"Come giungere ad ordinare questo miscuglio di tele che ci opprimono e ci schiacciano tra loro, quest’orgia di colori che mutualmente si insultano e si distruggono? Calcolarli in categorie, quadri di storia, battaglie, paesaggi, mi sa troppo di espediente farmaceutico, e poi diventano inevitabili i confronti, mezzo di critica di cui non è bello abusare. Convien lasciarsi trascinare dalle proprie impressioni, far come il pubblico, gironzolare di sala in sala, fermarsi là dove l’attenzione è attratta o da un difetto o da una bellezza? Io mi appiglierò a questo ultimo partito, che mi sembra il migliore e potrò seguirlo ora che , aperta a tutti quanti l’esposizione, c’è modo e tempo di potervisi attendare. Per ora rassegniamoci a camminar difilati dall’uscio d’ingresso a quello d’uscita, e ci basti notare, come sono notati in una guida i principali monumenti di una città, le tele che ci balzeranno prime e così di sfuggita allo sguardo. Nei seguenti articoli ritornando su questi nomi, vi aggiungeremo quelli dimenticati nella fretta, o sottrattisi alle nostre ricerche".
Bisogna evitare atteggiamenti come questi del Praga. Non date retta ai teorici del disordine. Tutto deve essere sminuzzato, distribuito in parti uguali, imposto. Altro che lasciare libertà agli interessi soggettivi. La gente rischierebbe di imparare, acquisire capacità critiche, magari con uno studio che diventa anche piacere. Ma figuriamoci, ma non diciamo corbellerie! Chissà dove si andrebbe a finire, se tutti si mettessero a studiare veramente.

Marco Innocenti, Come annoiare il pubblico in IL REGESTO (Bollettino bibliografico dell’Accademia della Pigna - Piccola Biblioteca di Piazza del Capitolo), Sanremo (IM), anno XII N° 3 (47), luglio/settembre 2021

 

[altri scritti di Marco Innocenti: articoli in IL REGESTO, Bollettino bibliografico dell’Accademia della Pigna - Piccola Biblioteca di Piazza del Capitolo, Sanremo (IM); articoli in Mellophonium; Verdi prati erbosi, lepómene editore, 2021; Libro degli Haikai inadeguati, lepómene editore, 2020; Elogio del Sgt. Tibbs, Edizioni del Rondolino, 2020; Flugblätter (#3. 54 pezzi dispersi e dispersivi), Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2019; articoli in Sanremo e l'Europa. L'immagine della città tra Otto e Novecento. Catalogo della mostra (Sanremo, 19 luglio-9 settembre 2018), Scalpendi, 2018; Flugblätter (#2. 39 pezzi più o meno d'occasione), Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2018; Sandro Bajini, Andare alla ventura (con prefazione di Marco Innocenti e con una nota di Maurizio Meschia), Lo Studiolo, Sanremo, 2017; La lotta di classe nei comic books, i quaderni del pesce luna, 2017; Sanguineti didatta e conversatore, Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2016; Sandro Bajini, Libera Uscita epigrammi e altro (postfazione di Fabio Barricalla, con supervisione editoriale di Marco Innocenti e progetto grafico di Freddy Colt), Lo Studiolo, Sanremo, marzo 2015; Enzo Maiolino, Non sono un pittore che urla. Conversazioni con Marco Innocenti, Ventimiglia, Philobiblon, 2014; Sandro Bajini, Del modo di trascorrere le ore. Intervista a cura di Marco Innocenti, Ventimiglia, Philobiblon, 2012; Sull'arte retorica di Silvio Berlusconi (con uno scritto di Sandro Bajini), Editore Casabianca, Sanremo (IM), 2010; articolo in I raccomandati/Los recomendados/Les récommendés/Highly recommended N. 10 - 11/2013; Prosopografie, lepómene editore, 2009; Flugblätter (#1. 49 pezzi facili), lepómene editore, 2008; C’è un libro su Marcel Duchamp, lepómene editore, Sanremo 2008; con Loretta Marchi e Stefano Verdino, Marinaresca la mia favola. Renzo Laurano e Sanremo dagli anni Venti al Club Tenco. Saggi, documenti, immagini, De Ferrari, 2006]


sabato 21 agosto 2021

Sul vento proteso a cavallo


Si è già potuto notare come lo spazio cittadino assuma nei Frammenti lirici reboriani un ruolo centrale, diventando il polo opposto al paesaggio montano <169, nonché, nella sua dimensione notturna, un luogo sinistro dai rumori assordanti, spesso emblema della mercificazione del vivere. Più in generale, se si considerano i Frammenti nella loro totalità, è possibile notare come sussista una interessante corrispondenza tra le descrizioni d’ambiente cittadine e l’idea di moderno che esse mirano a veicolare, in una sorta di legame profondo tra lo spazio fisico e le sensazioni emotive, le contraddizioni, le ansie e i dubbi tipici del mondo contemporaneo. Già si era notato, analizzando il frammento XLV, come l’io che camminava di notte lungo le vie gremite di botteghe lucenti cercasse di definire la propria identità in un difficile processo di incontro con l’alterità cittadina che lo spingeva a preferire le zone oscure in cui tali angoscianti domande erano messe a tacere. Ne derivava una sorta di distanza tra il soggetto e la realtà esterna che rendeva difficile il processo di identificazione con questa, in un conflitto vivo, continuamente mutevole e sottoposto a ridefinizioni. Ecco dunque che, se la città novecentesca diviene il luogo in cui l’io cerca di definirsi e comprendersi, questo risulta una figura sempre in tensione che, come ha osservato la critica, deve in continuazione misurarsi con un mondo variegato e in crescita. <170 La città diviene quindi, in primo luogo, il simbolo della modernità in cui l’uomo non può più seguire il ritmo cadenzato, stagionale, della vita di campagna, ma si trova a confrontarsi con uno spazio sempre più esteso, difficilmente delimitabile e quindi comprensibile. Ecco dunque che:
"Le città dei secoli passati, odiate o amate che fossero, erano entità ben definite, situate generalmente in posizioni strategiche sul territorio e rinchiuse all’interno di mura di cinta e fortificazioni. Quando tra l’Otto e il Novecento le città cominciano ad assumere il carattere di metropoli, esse costrinsero l’individuo a confrontarsi con un orizzonte che arretrava in continuazione e con uno spazio sempre più esteso. <171
L’uomo nel Novecento perde dunque i punti di riferimento: ciò che prima è circoscritto e definito secondo una struttura conosciuta adesso diviene ambiguo; non sussiste più un confine che possa segnare con esattezza l’ambiente urbano, questo si è espanso oltre le sue barriere, inglobando una parte della campagna. È ciò che accade nel frammento III nel quale il moto del temporale sembra procedere facilmente dalla città alla campagna, in una sorta di legame spaziale tra le due realtà che impedisce di delimitare con facilità il termine di quest’ultima. La sensazione che viene a crearsi è quella di una vasta spazialità sebbene il poeta mantenga ben distinte le due entità: quella cittadina e quella rurale. Si considerino i seguenti versi:
Dall’intensa nuvolaglia […]
piomba il turbine e scorrazza
sul vento proteso a cavallo
campi e ville, e dà battaglia;
ma quand’urta una città
si scardina in ogni maglia,
s’inombra come un’occhiaia,
e guizzi e suono e vento
tramuta in ansietà
d’affollate faccende in tormento:
e senza combattere ammazza
<172
Qui la contrapposizione tra campagna e città viene evidenziata dall’avversativa, che nota come il temporale personificato sia libero di “scorrazzare” nei vasti prati campagnoli mentre è costretto ad incanalarsi nelle strettoie cittadine, perdendo in un certo senso la libertà che prima possedeva nel movimento tra gli edifici. Sebbene l’immagine della città superi lo spazio limitante delle mura <173, in un’accezione moderna dello spazio, questa viene percepita come distinta dal mondo di campagna, dove la natura sembra integrarsi più facilmente, esprimendosi con libertà in tutte le sue manifestazioni. Ecco dunque che nella città il turbine si trova a dover sottostare alle anguste e strette vie degli edifici, a spazi più ristretti e non agevoli, che mal si adattano alla sua presenza. Si noti inoltre come il frammento faccia affiorare un differente ritmo interno per le due tipologie di spazio: nel primo caso il vento viene paragonato ad un cavallo al galoppo e il paesaggio è pervaso dunque da suoni scanditi, ameni nella loro ritmica cadenza; nel secondo caso, invece, i rumori generati dall’incontro con gli edifici portano ad un’incalzante ritmo che aumenta sempre più dando vita a frenetici e sovrapposti rumori. Come è stato infatti osservato dalla critica, nel Novecento:
"i ritmi cadenzati della campagna vengono rapidamente sostituiti dai ritmi dissonanti della città, dove il ruolo dell’io è caratterizzato dall’indeterminatezza, contro uno sfondo dinamico e sempre mobile" <174
In questa situazione l’io si trova dunque perso nella vertiginosa vita cittadina, di qui forse il tormento e l’ansietà di cui parla il soggetto negli ultimi versi.
[...] Ecco dunque che Rebora, in questo frammento, riesce ad identificare una delle essenze del contesto urbano moderno: il brulicare di persone che si muovono nelle vie sempre affaccendate nei più disparati lavori, intente ad eseguire con ansia le proprie mansioni. Analogamente l’immagine di una città moderna, caotica e allo stesso tempo fortemente massificata, viene presentata anche nel frammento XXXVI in cui l’autore descrive le figure degli studenti intenti a recarsi a scuola come il «gonzo pecorume/dei ragazzi di scuola» <175, i quali possiedono «palloncini sugli spaghi» e «oscilla/ dai corpi smilzi il vuoto delle teste». <176 Al di là del particolare sguardo critico nei confronti dello studente poco diligente, immagine che non è certamente prerogativa del Novecento, si può dire che qui Rebora sottolinei l’idea di una modernità che massifica, figurata nel prototipo del ragazzo che non riflette e si appresta a seguire per consuetudine le tendenze dei compagni. Analogamente anche nel frammento LXVIII l’autore parla di «genti della gran plebaglia» <177 che seguono l’Utile senza porre in primo piano i veri valori, in una concezione fortemente critica della vita massificata dedita soltanto al guadagno. Ecco dunque che la città, nel caos delle cose, diventa l’ambiente in cui l’io facilmente perde l’identità dato che fisicamente si eclissa nella confusione indistinta di questa. Tale processo può essere spiegato anche come una conseguenza del continuo mutamento del contesto urbano stesso, che spinge il soggetto a doversi adattare a situazioni e spazi nuovi impedendogli di fissarsi in una forma specifica. Già era stato notato, infatti, come i ritmi cittadini, dalla sostenuta velocità, riducessero l’uomo ad un individuo costretto a sottostare ad un ritmo incalzante, delirante, spesso ciclico ed uguale a se stesso.
169 Sull’immagine della città come «polo negativo, distante dall’idea» si veda Giorgio Bàrberi Squarotti, La città di Rebora, cit., p. 42.
170 Laura Incalcaterra Mcloughlin, Spazio e spazialità poetica, Leicester, Trobadour Publishing, 2005, p. 17.
171 Ivi, p. 19
172 Clemente Rebora, Frammenti lirici, a cura di Gianni Mussini e Matteo Giancotti, cit., p. 97.
173 Cfr. Laura Incalcaterra McLoughlin, Spazio e Spazialità poetica, cit., p. 19.
174 Ivi, p. 22.
175 Clemente Rebora, Frammenti lirici, a cura di Gianni Mussini e Matteo Giancotti, cit., p. 428.
176 Ibidem.
177 Ivi, p. 751.

Anna Tieppo, “Ad ogni poesia fare il quadro”: figurazioni del paesaggio naturale e urbano nei «Frammenti lirici» di Rebora, nei «Canti orfici» di Campana, in «Pianissimo» di Sbarbaro, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2015/2016

mercoledì 11 agosto 2021

Pastonchi trova posto in antologie straniere di poesia italiana moderna

Francesco Pastonchi - Fonte: Wikipedia

Il 24 giugno 1933 Alessandro Pellegrini <1 scrive a Vjačeslav Ivanov che il poeta ligure Francesco Pastonchi scriverebbe “forse” per il numero speciale del “Convegno” a lui dedicato “alcune pagine, quasi un ritratto, impressioni personali” tratte dalle loro conversazioni. Le pagine di Pastonchi su Ivanov non sono mai state pubblicate e, probabilmente, neanche mai scritte; tutto ciò che rimane dell’incontro di queste due figure sono quattro lettere di Pastonchi conservate all’Archivio Romano di Ivanov (RAI) insieme ad una bozza di risposta di quest’ultimo, che coprono un arco temporale dal 1932 al 1935.
Se non possiamo avvalerci delle “impressioni” di Pastonchi su Ivanov per capire quanto i due condividessero in ambito artistico, è senz’altro utile tracciare il ritratto di Pastonchi per scoprire quali ruoli abbia rappresentato nel panorama letterario italiano della prima metà del XX secolo.
Giuseppe Francesco Flaminio Pastonchi nasce nel 1874 a Riva Ligure, <2 ma - pur restando sempre affettivamente e culturalmente legato alla terra natia - deve la sua formazione all’ambiente intellettuale della Torino dell’ultimo decennio dell’Ottocento. Qui frequenta la facoltà di Lettere sotto la guida di Arturo Graf (1848-1913) e diventa presto noto per l’abitudine di declamare in pubblico versi propri e altrui; conosce altri protagonisti della scena letteraria italiana come Giovanni Cena, Ferdinando Neri, Giulio Bertoni, Massimo Bontempelli <3 e nasce in lui “l’amore per la forma definita” in poesia, <4 ovvero per quella ricercatezza metrica che sarà sempre il suo vero tratto distintivo: <5 'gli interessava esclusivamente un ideale carducciano (e dannunziano) di far della poesia una pratica, né estetica né filosofica, ma metrica e linguistica: una pratica che quasi si risolve tutta nella parola, scelta e collocata là dove il “numero” la dispone'. <6
Appena diciottenne pubblica una prima raccolta di poesie intitolata Saffiche (1892); questo lavoro, le tre canzoni A mia madre (1900) e la poesia civica delle odi Italiche (1903) sono considerati “esercizi di buona scuola carducciana”, mentre La Giostra d’Amore e le Canzoni (1893-1895), <7 definite anni dopo da Pastonchi stesso “saggi metrici”, <8 risentono dell’influenza dei dannunziani Isotteo, Intermezzo e Chimera, sebbene vi sia poco di veramente “preraffaellita” e “stilnovista”. <9
Una delle migliori prove di quella che viene definita la ‘prima stagione lirica’ di Pastonchi sono sicuramente i sonetti di Belfonte (1903), salutati dal critico e scrittore Ugo Ojetti (1871-1946) come uno splendido esempio di “italianità”, perché scritti in quella che è la forma “più precisa, più singolare, più perfetta” e “più eterna” della poesia italiana, appunto il sonetto, rispetto alle “novità vandaliche” dei poeti dell’inizio Novecento. <10
Pensieri intimi, quelli di Belfonte, fusi a paesaggi italici, in particolare di montagna, una lotta tra io “randagio” e “fraternità universale”, cui seguono due anni dopo le limpide liriche di Sul limite dell’ombra (1905). Qui “come pochi suoi contemporanei” Pastonchi si lascia “incantare dall’abbagliante e transitorio fascino dell’impressionismo”, <11 per poi tacere qualche anno e riapparire con la meno riuscita raccolta Il pilota dorme (1913), influenzata stavolta dal più giovane Guido Gozzano (1883-1916). <12
Con queste raccolte Pastonchi trova posto in antologie straniere di poesia italiana moderna insieme ai grandi poeti cui si ispirava (Carducci, Pascoli, d’Annunzio) e ad Antonio Fogazzaro (1842-1911), Arturo Graf e Corrado Govoni (1884-1965); <13 rappresenta l’Italia con Pascoli, d’Annunzio e pochi altri in manuali di poesia contemporanea accanto a Poe, Swinburne, Mallarmé, Verlaine, Rimbaud e Claudel. <14
Oltre che poeta, Pastonchi è attivo critico letterario e saggista fin dagli anni Novanta del XIX secolo sulle pagine di giornali e riviste. Collaboratore costante, dal 1901 fino alla morte, del “Corriere della Sera”, è anche fondatore di periodici di arte e letteratura quali “Il Piemonte” (1903) e “Il Campo” (1904-1905). Per il suo impegno di giornalista e scrittore trascorre quasi tutta l’esistenza negli ambienti intellettuali di Torino e Milano, ama talora allontanarsi dalla città per riposare in località meno mondane o nei piccoli paesi della nativa Riviera.
È proprio nell’amata Liguria che il poeta ha contatti con la folta colonia russa, avendo modo di frequentare la famiglia del cugino, il deputato sanremese Paolo Manuel-Gismondi, che sposa nel 1927 la pittrice Anna Svedomskaja. <15
Nei dintorni di Antibes incontra il granduca Dmitrij Pavlovič Romanov (1891-1942), complice nell’omicidio di Rasputin del principe Feliks Jusupov (1887-1967), <16 e Sergej Djagilev (1872-1929) durante le tournées dei Ballets Russes a Monte Carlo, nella villa del noto medico Sergej Voronov. <17
Gli amici russi insistono spesso perché il poeta parli loro di Gabriele d’Annunzio, avendo avuto la fortuna di conoscerlo di persona. <18
Pastonchi diventa così famoso per le sue frequentazioni mondane e per essere riuscito, fin dai primi anni del Novecento, a crearsi un nutrito seguito, 'dovuto all’abile costruzione del personaggio, che oltre alla nota eleganza e alla posizione di prestigio di critico del “Corriere”, aveva per sale e salotti d’Italia grande successo come dicitore di poesia, da Dante a se stesso. L’attenzione al “nuovo” aveva precocemente reso il giovane Francesco esperto di comunicazione (…) rispetto al protagonismo tribunizio del maestro avverso Gabriele'. <19 [...]
1 Alessandro Pellegrini (1897-1985), germanista, francesista, scrittore, saggista e traduttore. Estimatore del pensiero di Ivanov, di cui legge alcune opere in tedesco già negli anni Venti, decide di pubblicare un numero monografico su di lui sulla rivista “Il Convegno”, della quale è creatore e redattore.
2 Notizie sulla vita di Pastonchi sono pubblicate in Francesco Pastonchi, un ligure accademico d'Italia. Biografia, ricordi del poeta, brani scelti di prosa e poesia, a cura di B. M. Gandolfo, Sanremo, Tipolito La Commerciale, 1998; M. Pardini, Francesco Pastonchi: un percorso biografico, “La riviera ligure. Quadrimestrale della Fondazione Mario Novaro”, 2005, n. 48, pp. 43-60; P. Rachetto, Francesco Pastonchi (il poeta), Torino, Petrini, 1952.
3 Giovanni Cena (1870-1917), poeta, prosatore e critico, redattore di “Nuova Antologia”, rivista fiorentina di letteratura, arti e scienze dal 1902 fino alla morte; Ferdinando Neri (1880-1954), francesista, critico letterario, presidente dell’Accademia delle Scienze di Torino, direttore di importanti periodici di letteratura come il torinese “Giornale storico della letteratura italiana” e il romano “La Cultura” (1928-1936); Giulio Bertoni (1878-1942), filologo, critico e linguista, direttore della sezione di Linguistica della Enciclopedia italiana dal 1925 al 1937, presidente dell’Accademia d’Italia; Massimo Bontempelli (1878-1960), scrittore, critico e drammaturgo, ideatore del “realismo magico” italiano.
4 U. Ojetti, Cose viste, Firenze, Sansoni, 1951, p. 784.
5 M. Guglielminetti, Francesco Pastonchi poeta, in La Musa subalpina. Amalia e Guido, Pastonchi e Pitigrilli, a cura di M. Masoero, Firenze, Olschki, 2007, p. 43.
6 Ivi, p. 38.
7 La Giostra d’amore è divisa in sette cicli “in onore” di altrettanti personaggi femminili, mentre le Canzoni sono divise in Canzoni libere, Sestine e Ballate. L’impianto è di ispirazione medievale e il richiamo a Dante si esplicita in un componimento intitolato La vita nuova.
8 Cf. U. Ojetti, Cose viste, cit., p. 784.
9 M. Guglielminetti, Francesco Pastonchi poeta, cit., pp. 41-42.
10 U. Ojetti, I sonetti di Francesco Pastonchi, “Fanfulla della Domenica”, XXV, 27, 5 luglio 1903.
11 F. Olivero, Studies in Modern Poetry, London, Milford, 1921, p. 251.
12 M. Guglielminetti, Francesco Pastonchi poeta, cit., p. 43. Cf. anche M. Guglielminetti, Pastonchi e Gozzano, in La Musa subalpina. Amalia e Guido, Pastonchi e Pitigrilli, cit., pp. 349-363. Pastonchi dedica a Gozzano il saggio Il terzo Guido, in F. Pastonchi, Ponti sul tempo, Milano, Mondadori, 1947, pp. 141-171.
13 Cf. Cambridge Readings in Italian Literature, edited by E. Bullough, Cambridge, Cambridge University Press, 1920.
14 Cf. F. Olivero, Studies in Modern Poetry,  cit.                                                                                          15 Anna Aleksandrovna Svedomskaja (1898-1973), figlia del pittore Aleksandr Svedomskij (1848-1911), frequenta l’Italia fin da bambina. Studia disegno e scultura a Mosca, trasferendosi in Italia dopo la rivoluzione. Vive dal 1925 a Sanremo, dove espone le sue opere tra gli anni Venti e Trenta. Cf. la nota biografica in www.russinitalia.it.
16 F. Pastonchi, Danzò e piacque, in Ponti sul tempo, cit., pp. 253-260.
17 Sergej Abramovič Voronov (1866-1951), chirurgo e scienziato russo emigrato in Francia. Acquista nel 1925 una spaziosa villa a Grimaldi, frazione di Ventimiglia.
18 F. Pastonchi, Colazione con Voronoff, in Ponti sul tempo, cit., pp. 69-79.
19 S. Verdino, Ascolto di Pastonchi, in Pastonchi, ricordo di un poeta ligure (Atti del Convegno di Riva Ligure e Sanremo, 5-6 dicembre 1997), a cura di G. Bertone, Novara, Interlinea, 1999, pp. 66-67.
Giuseppina Giuliano, Il Sole, “signore del limite”. Lettere di Francesco Pastonchi a Vjačeslav Ivanov in Archivio Russo-Italiano VIII - Russko-ital’janskij Archiv VIII, Pag.105-139, Salerno, Europa Orientalis, 2011 

Già Pastonchi, all’indomani della pubblicazione della Via del rifugio, aveva esortato il giovane Gozzano a ricercare la propria voce e a liberarsi dalle fonti francesi, quelle che più spiccavano all’orecchio dei contemporanei, più ancora di d’Annunzio che aveva emanato tanto della propria personalità da essere difficilmente riconoscibile. Ma il critico <2 non sapeva che ancor prima di lui, a separare l’originalità dell’oro dall’argento del plagio, ci aveva  pensato Mario Vugliano <3, che eliminò dal fascio di poesie pronte per l’Editore Streglio, quelle in cui il magistero dannunziano era troppo invadente, per lasciare spazio a quel mazzetto di poesie intitolato La via del rifugio.
2 F. Pastonchi, in Primavera di poesia, in <<Corriere della sera>>, 10 giugno 1907, parla soprattutto di Jammes e conclude che Gozzano dovrebbe: <<liberarsi da certe coloriture [...] da influenze che ne alterano l’organismo e lo dispongono a imitazioni>>
3  Carlo Calcaterra, in Con Guido Gozzano e altri poeti, Bologna, Zanichelli, 1944, narra l’episodio della “censura” di Mario Vugliano: <<Così nel 1907 apparve smilza smilza la prima sua raccolta di rime. La via del rifugio, senza Il frutteto, senza il sonetto L’antenata, senza i versi al Bontempelli, senza L’altana, senza i sonetti Domani e altri componimenti>>, pp. 27 e 28

Sara Calì, Gozzano tra D'Annunzio e Pascoli. Legami intertestuali, Tesi di Laurea, Università degli Studi "Roma Tre", Ciclo XXII

Pastonchi Francesco: 26 L, 30 C. Carteggio 1920-1951.
Pastonchi legge di UB soprattutto gli scritti d’arte e i Precetti ai pittori. I due condividono l’amicizia con Papini, Soffici, Linati. Alla morte dell’amico, UB pubblica sulla «Provincia» di Como una Lettera in morte di Francesco Pastonchi [029].
L'Archivio Ugo Bernasconi, Carteggi, Manoscritti, Documenti a stampa (1874-1960). Inventario, Carteggi: elenco dei corrispondenti, a cura di Margherita d’Ayala Valva, Edizioni Scuola Normale Superiore Pisa, 2005