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sabato 11 novembre 2023

Per i bombardamenti di Marghera la parrocchia fu invasa da sfollati che occuparono ogni locale libero

Salzano (VE): Chiesa di San Bartolomeo apostolo. Fonte: Wikipedia

Meno pericolosi, ma impegnativi in egual misura, i sacrifici, sia materiali che psicologici credo, sopportati dalle famiglie, per poter accogliere gli sfollati, provenienti a centinaia dalle zone bombardate di Marghera e Mestre; vere e proprie «acrobazie di adattamento» <384, così come definite da Gino Pizzato, necessarie al fine di alleggerire l’inevitabile disagio derivante dalla coabitazione fra estranei sotto lo stesso tetto. I numeri risultano impressionanti, se sommati insieme, e bastano da soli a spiegare le esortazione dei parroci a collaborare, nel momento in cui, inevitabilmente, i locali della parrocchia, compresi la canonica, l’asilo ed eventuali istituti religiosi, fossero al completo.
Don Boschin, ad esempio, si prodigò per gli sfollati che, stando a quanto riportato da don Volpato, affluirono a centinaia nei territori della parrocchia di Gardigiano, facendo «pressione presso parecchie famiglie per l’accoglimento di tutti» <385; dopo averne accolto egli stesso dodici, nella canonica, «ove rimasero per più di 1 anno», mentre altri dieci furono ospitati nella casa del cappellano, dove «rimasero fin dopo la fine della guerra» <386. «[…] per i bombardamenti di Marghera la parrocchia [di S. Maria di Sala] fu invasa da sfollati che occuparono ogni locale libero» <387, mentre «La parrocchia [di Robegano] ha dato alloggio a circa 400 sfollati e tre famiglie furono alloggiate nelle aule della Casa della Dottrina Cristiana» <388; altri 300 a Briana di Noale, provenienti, per la maggior parte, da Marghera e Mestre, ma anche da Treviso, Padova e Zara. Don Zandonadi scrisse anche come le Suore Missionarie d’Egitto, anch’esse sfollate di Marghera, accolte nella Casa della Dottrina Cristiana, avessero aperto un asilo infantile, mentre vi trovò temporanea sede anche la Scuola Interparrocchiale per i seminaristi delle classi seconda e terza ginnasiale, gestita dal prof. don Mario Carraro, che ricevette personale ospitalità in canonica.
Manca qualsiasi riferimento ad eventuali soccorsi prestati dall’autorità civile, forse perché realmente non vi furono, forse per l’elogio che un simile operato, privo di eguali, avrebbe ricevuto; sta di fatto, comunque, che ciò contribuì non poco al delinearsi di un nuovo e più forte ruolo sociale della parrocchia. Ci fu un’eccezione, nella parrocchia di Mirano, dove, ad affiancare don Muriago, nel tentativo di garantire agli sfollati e alle famiglie povere dei richiamati l’aiuto necessario al sostentamento, c’era l’Ente Comunale di Assistenza, «al quale l’Arciprete prestò la sua opera assidua encomiata dalla superiore Autorità locale» <389, oltre alle istituzioni di S. Vincenzo De’ Paoli e S. Antonio.
L’impegno dei sacerdoti non poteva comunque fermarsi alla mera assegnazione di un alloggio, bensì doveva comprendere necessariamente anche il reperimento dei generi di prima necessità, quali cibo e vestiario innanzitutto, senza contare l’aiuto per la ricerca di un eventuale impiego lavorativo: il parroco di Gardigiano indisse «giornate di carità [sottolineato nel testo]» per la raccolta di generi alimentari «a prezzo modico o di calmiere» <390, mentre a Salzano mons. Eugenio Bacchion mise a disposizione dei circa tremila sfollati che giunsero in quel comune, «tutto il grano raccolto colle questue per la Chiesa sempre al prezzo dell’ammasso e così il grano di loro proprietà» <391.
E come dimenticare infine, il compito principale e più importante del sacerdote, quello caratterizzante il suo ruolo ecclesiastico, quello, cioè, concernente la cura spirituale dei propri fedeli? Nelle suddette circostanze, i preti, si trovavano di fronte ad una comunità, talvolta più che raddoppiata, alla quale era d’obbligo garantire, alla stregua dei parrocchiani residenti, la confessione, la somministrazione dei sacramenti, le visite di routine. Molto probabilmente i parroci si avvalevano del supporto di cappellani (sporadicamente menzionati nelle cronistorie) nell’esercizio delle mansioni spirituali, forse le cifre pervenuteci sono state volutamente esagerate, sta di fatto, comunque, che simili parentesi, che ci riportano ad un vissuto più quotidiano, dunque concreto, legato alle necessità della vita reale, simili parentesi, dicevo, hanno il pregio, non solo di ricostruire, anche se parzialmente ed in modo frammentario, le vicissitudini di un paese, ma soprattutto di restituire l’immagine di un clero curato quasi risvegliatosi dal torpore di una vita tranquilla, qual era quella di molte parrocchie del Miranese prima dello scoppio della guerra, e fors’anche del 1943; un clero travolto dagli eventi, al pari di qualsiasi italiano comune, ma che, anche in forza del proprio ruolo, riuscì a trovare il coraggio e il dinamismo necessario (chi più chi meno), per ergersi a guida delle rispettive comunità e condurle così alla fine di quel tragico “tunnel” che fu la storia dell’Italia settentrionale tra la fine del 1943 e la primavera del ’45. Piccole sfide nella quotidianità, affrontate di volta in volta all’insegna della collaborazione o dell’ostilità, della trattativa o della cauta attesa, ma che spesso, proprio a causa del contesto così familiare, molti sacerdoti hanno trascurato di riportare, consegnandone, così facendo, il ricordo all’oblio. Certamente molto è andato perduto, ma attenzione a non trasformare questa indubbia certezza in una cantilena, da ripetere fra sé e sé ogniqualvolta, da documenti di questo tipo, nulla emerge di straordinariamente evocativo dell’epopea resistenziale; noi contemporanei, condizionati come siamo dalle insistenza di certa storiografia su storie di preti eroici, espostisi in prima persona per la salvezza dei parrocchiani dinanzi al pericolo di rappresaglie, informatori delle bande partigiane, se non addirittura torturati e uccisi, siamo propensi a dare marginale importanza a testi che magari si limitano a riportare lunghe liste di bombardamenti sul paese o di nomi di soldati periti al fronte, o peggio, dispersi. Ciò che ritengo doveroso precisare è come la sola presenza del sacerdote, responsabile, lo ricordiamo, di un organismo che andava rivestendo un significativo ruolo di supplenza, era di per sé estremamente importante e decisiva per gli abitanti, forse addirittura per l’equilibrio morale e, aggiungerei, psicologico, degli stessi: trattavasi spesso della sola figura autorevole rimasta, nel momento in cui qualsiasi altra, nell’ambito civile, aveva abbandonato le proprie responsabilità, e la sola autorità degna di rispetto quando il forestiero occupò i posti di comando, nazista o repubblicano che fosse. Forse è in questo senso che vanno lette le affermazioni di don Zandonadi, relativa ai brianesi, una «popolazione cristiana, docile alle direttive del Parroco» <392, aiutati a non perdere «la [sua] calma e fiducia in Dio nemmeno nei momenti cruciali della ritirata tedesca» <393.
Così come l’operato dei parroci fu l’elemento decisivo per la tenuta, sia fisica che morale, della comunità, allo stesso modo tale merito può essere evidenziato nel prodigarsi di quella per i bisognosi, sfollati o soldati renitenti. Dinanzi ai primi bombardamenti aerei, ai segnali, cioè, dell’approssimarsi degli orrori della guerra, con l’emergente consapevolezza di essere coinvolti in prima persona nei fatti che avrebbero deciso del destino del popolo italiano, possiamo solo immaginare quanto significativo sia stato questo soccorso, non solo al fine della sopravvivenza di quelli, ma probabilmente anche nell’operare la scelta di darsi alla macchia; i combattenti erano sostenuti nella loro scelta ed incoraggiati da quel ampio retroterra di solidarietà ed affetti che era il tessuto della comunità parrocchiale, garantendo un senso di continuità esistenziale che andava oltre i referenti familiari.
[NOTE]
384 G. Pizzato, Sotto il terrore (I fatti di Peseggia). Alle vittime innocenti dell’odio fraterno, op. cit., p. 2.
385 Don R. Volpato, Cronistoria, op. cit., pp. I-II.
386 Ibidem.
387 Don G. de Pieri, S. Maria di Sala, op. cit.
388 Don A. Semenzato, Cronistoria della parrocchia di Robegano. 1939-1945, op. cit.
389 Mons. F. Muriago, Parrocchia di Mirano. Relazione degli avvenimenti durante il periodo della guerra 1940-1945, op. cit.
390 Don R. Volpato, Cronistoria, op. cit., p. II.
391 Mons. E. Bacchion, Salzano durante l’ultima guerra, op. cit.
392 Don P. Zandonadi, Allegato alla Cronistoria di Briana durante la seconda guerra mondiale, op. cit., p. 1.
393 Idem, Allegato alla Cronistoria di Briana durante la seconda guerra mondiale, p. 2.
Daiana Menti, Il clero del Miranese dall’inizio del Novecento alla seconda guerra mondiale nelle sue relazioni con le pubbliche autorità, Tesi di laurea, Università Ca' Foscari - Venezia, Anno Accademico 2012-2013

domenica 5 novembre 2023

Praticamente, la Linea Gotica correva lungo il confine tra le province di Lucca e di Massa Carrara


Il compito assegnato agli uomini comandati da Vinci Nicodemi “Uberti”, era quello di controllare la strada Castelnuovo Garfagnana-Arni con particolare riguardo alle zone di Isola Santa e del Col di Favilla, occupate da truppe nemiche. <331 Ulteriori richieste di Pietro [Pietro Del Giudice, comandante del Gruppo Patrioti Apuani] in cambio dell'adesione alla divisione, si rintracciano in un altro appunto manoscritto datato 23 ottobre 1944 e nella successiva risposta del comando divisionale. L'appunto su carta intestata del comando GPA (Gruppo Patrioti Apuani) reca come luogo lo stesso comando di divisione e riporta: “Richieste da fare al maggiore: 1 - che nel nostro schieramento ci sia soluzione di continuità. 2 - che i nostri patrioti ubbidiscano esclusivamente a comandanti del gruppo sotto l'alta direttiva del maggiore comandante la divisione. 3 - due mitragliatori Breda 30 e 10 sten con munizionamento per rinforzare il nostro schieramento senza contare naturalmente quelli che saranno dati in dotazione alle nostre forze che rimangono in Garfagnana. 4 - Promessa di assistenza alla popolazione della nostra zona sacrificando magari in parte i paesi molto più ricchi della Garfagnana. In proposito dovrebbe venir stipulata una convenzione. 5 - accordo per un piano militare.” <332
Condizione fondamentale per l'aiuto dato dal GPA alla Divisione Lunense era l'accordo per ricevere rifornimenti e viveri per la popolazione apuana costretta a sopravvivere in piena zona di guerra sulla linea del fronte. Un primo passo in questa direzione si era avuto durante l'incontro del 17 ottobre a Forno, quando venne rilasciata un'autorizzazione firmata da Oldham, agli uomini della 3^ compagnia del GPA, comandata da Arnaldo Pegollo, per la requisizione di viveri in alcune zone della Garfagnana <333. Le ulteriori richieste formulate da Pietro trovarono immediato e pieno riscontro nella convenzione sottoscritta da Oldham, da “Barocci” [Roberto Battaglia], dal comandante della 1^ brigata della Lunense, Coli e dallo stesso comandante del GPA. Questo il testo dell'importante documento: “Il Comando della Lunense e il Comando della 1^ Brigata sentite le richieste del Gruppo Patrioti Apuani chiarisce e risponde in perfetto accordo col Comandante del detto Gruppo quanto segue:
1 - Schieramento difensivo continuo. Il Comando di Divisione prende atto con compiacimento della prontezza con cui il Comando Patrioti Apuani ha inviato un primo distaccamento delle sue forze nel settore della 1^ Brigata e rifornisca immediatamente di 4 fucili mitragliatori Breda e relative munizioni il detto distaccamento. […] Gli affida infine un settore da difendersi ad oltranza, tale da poter stabilire collegamento col grosso dei Patrioti Apuani mediante un'ora di strada.
2 - Comando militare e disciplina del Distaccamento dei Patrioti Apuani. Valgono le direttive generali qui allegate.
3 - Richiesta di armi per il gruppo dei Patrioti Apuani. Il Comando di Divisione, sentito il parere del Comando della 1^ Brigata è lieto di aderire alla detta richiesta. […].
4 - Richiesta di viveri per la popolazione civile di Massa e dintorni. Il Comando di Divisione e così pure il Comando della 1^ Brigata s'impegna di aiutare con ogni suo sforzo e mezzo le popolazioni civili della zona di Massa favorendo l'esportazione di generi alimentari dalla Garfagnana. Come prima prova concreta di questo suo interessamento promette l'invio di 20 quintali di patate a detta popolazione in cambio di un adeguato quantitativo di sale.
5 - Piano militare comune. Il Comandante Pietro è incaricato di riferire a voce su detto piano la cui esecuzione è subordinata a un efficiente schieramento da parte dei partigiani e alle opportune direttive da parte del Comando alleato e del Governo Italiano.” <334
La convenzione si concludeva con un'ulteriore richiesta di invio di uomini rivolta anche alla Brigata Garibaldi “Muccini” e con un chiarimento sul punto più importante dell'accordo: l'invio di viveri verso Massa: “Riguardo al grave e urgente problema dell'incubo della fame sulle popolazioni di Massa e dintorni è dovere di ogni buon Italiano contribuire alla sua soluzione nella misura del possibile. Il Comando di Divisione rivolge a questo proposito un appello ai CLN della Garfagnana. Poiché non si può assumere direttamente la responsabilità di organizzare i rifornimenti dalla Garfagnana a Massa che è compito delicato di competenza civile richiede al CLN di Apuania l'invio di una persona a ciò delegata, cui la Lunense darà l'appoggio incondizionato di tutte le sue formazioni partigiane.” <335
[NOTE]
331 Notizie dettagliate sulla zona occupata dai Patrioti Apuani in Garfagnana si trovano in V. Nicodemi, G. Lenzetti Guerra sulle Apuane, ANPI, Massa, 2006. Il reparto guidato da Vinci si stabilì sul Monte Grotti e giornalmente svolgeva servizio di pattuglia fra il Monte Grotti e il Monte Sumbra.
332 AAM busta 19, fascicolo 19.
333 AAM busta 24, fascicolo 1. Le località designate per la requisizione viveri erano: Giuncugnano ed altre frazioni; Capoli e tutto il comune di Piazza al Serchio. Gli uomini di “Naldo” ricevevano inoltre il compito di agire anche sul paese di Gorfigliano ponendovi un proprio presidio: “Secondo gli accordi prestabiliti i Patrioti Apuani sono autorizzati ad agire su Gorfigliano per la totale epurazione di questo centro fascista repubblicano punendo esemplarmente secondo giustizia tutti i responsabili mediante fucilazione e requisizione dei beni.”
334 AAM busta 24, fascicolo 1. “Convenzione fra il Comando della Divisione Lunense, il Gruppo Patrioti Apuani e la 1^ brigata Garfagnina”.
335 Ivi pag. 2.
Marco Rossi, Il Gruppo Patrioti Apuani attraverso le carte dell'archivio ANPI di Massa. Giugno-Dicembre 1944, Tesi di laurea, Università degli Studi di Pisa, 2016


Il 5 ottobre, a Viareggio, il generale Edward M. Almond assunse il comando della Task Force 92, formata dai primi contingenti della 92 Divisione di Fanteria “Buffalo” <7, da alcuni mesi in Italia - vale a dire il 370 reggimento di fanteria, il 598 Gruppo d'Artiglieria Campale, il 124 Gruppo d'Artiglieria campale, reparti del genio, sanità e sussistenza - e dall'894 battaglione anticarro, dal 434 e 435 battaglione di fanteria, dal 751 battaglione carri armati e dai reparti britannici, già facenti parte della Task Force 45.
In quei giorni la Quinta Armata si stava preparando ad assestare il colpo definitivo alla Linea Gotica sull'asse Firenze-Bologna e, nell'ambito dell'operazione, alle forze schierate in Versilia e in Garfagnana fu assegnato un compito diversivo, quello di tenere impegnate le truppe nemiche e conquistare alcune posizioni strategiche nel rispettivo settore. In particolare alla Task Force 92 fu ordinato di prendere il m. Canala, sovrastante Seravezza e il Monte di Ripa, che aveva una notevole importanza strategica, essendo il suo controllo indispensabile per poter puntare su Montignoso, Massa e Carrara.
Mentre i Brasiliani, con l'apporto del “Battaglione Autonomo Patrioti Italiani” agli ordini di Manrico Ducceschi (“Pippo”), occuparono Fornaci di Barga, Coreglia e Barga, in Versilia la Task Force 92 non riuscì a prendere il m. Canala, nonostante gli accaniti e sanguinosi combattimenti sostenuti dal 6 all'11 ottobre. Dalla metà di ottobre ai primi di novembre, pattuglie americane arrivarono nelle frazioni montane di Giustagnana, Minazzana, Basati ed Azzano (Comune di Seravezza) e di Terrinca e Levigliani (Comune di Stazzema), poi, il fronte si stabilizzò fino all'aprile 1945, lungo una linea, che seguiva il tratto finale del fiume Versilia, la piana di Porta, le colline di Strettoia e del Monte di Ripa, i monti Folgorito, Altissimo, Corchia ed il gruppo delle Panie. <8
Ad eccezione di Strettoia e di Arni, tutto il territorio versiliese era stato liberato e si erano insediate le Amministrazioni Comunali, nominate dai CLN con il consenso del Governo Militare Alleato, ma la situazione continuò ad essere molto problematica in quanto la Versilia si trovò a essere un territorio “liberato, ma ancora in prima linea”, sottoposto al fuoco dell'artiglieria nemica ed alla minaccia di possibili puntate offensive da parte dei Tedeschi. A correre i rischi maggiori erano il centro di Seravezza e alcuni paesi dello Stazzemese, dislocati a poche centinaia di metri dalle sovrastanti postazioni tedesche, poi Forte dei Marmi e Pietrasanta, situati nelle immediate vicinanze, mentre relativamente più tranquilla era la situazione nel territorio di Camaiore, Viareggio e Massarosa.
Nel settore apuoversiliese della Linea Gotica i Tedeschi non avevano costruito particolari strutture difensive artificiali, ma, piuttosto, adattato o rinforzato quelle naturali, offerte dal terreno collinare e montano, impiegando i lavoratori della TODT e centinaia di uomini, catturati nel corso dei frequenti rastrellamenti. Sulla spiaggia del Cinquale, lungo le sponde del fiume Versilia e la piana di Porta, fino alla via Aurelia, erano stati posti numerosi campi minati, distrutti i ponti, disseminati numerosi ostacoli lungo strade e sentieri, approntati nidi di mitragliatrici. Le colline intorno al Castello Aghinolfi, quelle di Strettoia e del Monte di Ripa, protette da una fitta rete di campi minati, erano presidiate da numerose postazioni di mitragliatrici e mortai, da dove i Tedeschi potevano dominare la zona sottostante, essendo stati rasi al suolo oliveti, vigneti e buona parte della vegetazione spontanea. Sui monti Canala, Folgorito e Carchio, da cui parte la cresta scoscesa che raggiunge il monte Altissimo, dominante la vallata del torrente Serra, erano state scavati ripari e trincee per mitragliatrici e mortai, mentre erano stati allestiti una stazione radio e un posto di osservazione sulla vetta del Folgorito, da dove era possibile tenere sotto controllo la costa da La Spezia a Livorno e gran parte della Versilia. Anche sui monti Altissimo, Corchia, Pania della Croce e Pania Secca, che sovrastano da un lato il territorio di Stazzema e dall'altro la Garfagnana, nel tratto tra Castelnuovo e Gallicano, erano stati allestiti posti d'osservazione, trincee, postazioni per mitragliatrici, obici e mortai.
A difesa del settore occidentale della Gotica i Tedeschi schieravano la 148 Divisione di Fanteria, a cui, nella fase finale, furono aggregati il battaglione mitraglieri Kesselring ed alcuni battaglioni d'alta montagna, mentre il tratto tra l'Altissimo e la Pania erano affidati al battaglione “Intra” della Divisione Alpina “Monterosa”.
Praticamente, la Linea Gotica correva lungo il confine tra le province di Lucca e di Massa Carrara e, di conseguenza, il territorio di Montignoso e di Massa costituiva le immediate retrovie, dove erano dislocati servizi logistici, mezzi, depositi di materiale e postazioni di artiglieria. Un ruolo fondamentale, per la difesa di questo settore della Linea Gotica, era svolto dalle batterie dei cannoni di Punta Bianca, situate nei pressi di Bocca di Magra, dove Tedeschi avevano rafforzato una serie di postazioni precedentemente allestite dalla Marina Militare Italiana. Il sistema difensivo era costituito da due cannoni navali da 152/52 in località Ameglia, 4 cannoni navali da 152/52, posti tra le rocce, e 4 dello stesso tipo in un bunker, oltre a torrette di osservazione e attrezzature varie. Inoltre, era stato aggiunto un cannone di grosso calibro montato su un affusto ferroviario, collocato in una galleria.
[NOTE]
7 - La 92 Divisione di Fanteria “Buffalo” fu costituita il 15 ottobre 1942 a Fort Mc Clellan in Alabama, con una forza iniziale di 128 ufficiali e 1200 soldati, aumentata progressivamente fino al raggiungimento degli effettivi di una divisione. I reparti effettuarono l'addestramento in varie località , poi, nel 1943, si trasferirono a Fort Huachuca. Il 15 luglio salpò per l'Italia il primo contingente, cioè il 370 Regimental Combat Team, formato dal 370 reggimento di fanteria, dal 598 reggimento di artiglieria campale, da reparti del Genio, Sanità, Servizi e Polizia Militare. 8 - Sul settore apuoversiliese della Linea Gotica cfr: Eserciti Popolazione Resistenza sulle Alpi Apuane - Prima parte: aspetti politici e militari, a cura di Gino Briglia, Pietro Del Giudice, Massimo Michelacci, Massa, Tipografia Ceccotti, 1995 - parte seconda: aspetti politici e sociali, a cura di Lilio Giannecchini e Giuseppe Pardini, Lucca, Tipografia San Marco, 1997 - Fabrizio Federigi, Versilia Linea Gotica, Versilia Oggi Edizioni, Roma, 1979 - Davide Del Giudice, La Linea Gotica tra la Garfagnana e Massa Carrara - settembre 1944-aprile 1945, vol. 2, Tipografia Glue&c. Massa, 2000
Giovanni Cipollini, La Linea Gotica in territorio apuoversiliese, saggio pubblicato in “La Linea Gotica - Settore Occidentale 1943-45”, atti del Convegno di studi svoltosi a Borgo a Mozzano il 9 maggio 2004, a cura dell'Istituto Storico Lucchese - sezione di Borgo a Mozzano

domenica 29 ottobre 2023

Le indagini di Paolo Borsellino e il suo assassinio


Il 1° luglio 1992, Paolo Borsellino si trova a Roma. La sua agenda recita: «ore 9.50 - Holiday Inn; ore 15 - Dia; ore 18.30 - Parisi; ore 19.30 - Mancino; ore 20 - Dia» <68. Quello del pomeriggio alla Direzione investigativa antimafia è un appuntamento particolarmente importante, con un nuovo pentito pronto a parlare. Si tratta di Gaspare Mutolo, boss mafioso coinvolto nel Maxiprocesso del 1986 e condannato in primo grado a dieci anni di reclusione. Mutolo ha deciso di collaborare con la giustizia, proposta che gli era già stata avanzata due anni prima da Giovanni Falcone, dopo aver ricevuto notizia della strage di Capaci. Quando si trovano faccia a faccia, il pentito rivela la sua intenzione di rilasciare dichiarazioni scottanti su Domenico Signorino e Bruno Contrada: un giudice e un poliziotto, due membri delle istituzioni <69. Proprio mentre Mutolo procede declinando le sue generalità necessarie per aprire ufficialmente la verbalizzazione, Borsellino viene convocato d’urgenza al Ministero dell’Interno, dove ad attenderlo c’è Nicola Mancino.
A ricostruire gli eventi di quel pomeriggio sono due testimonianze particolarmente rilevanti. Una è quella di Rita Borsellino, sorella del magistrato, che racconta come «A un tratto, durante l'interrogatorio, Paolo riceve una telefonata, chiude il verbale, si precipita al Viminale, poi ritorna da Mutolo. Il pentito ha detto successivamente che di ritorno dal Viminale Paolo era talmente nervoso che fumava due sigarette contemporaneamente e decise di non continuare l'interrogatorio» <70. Ancora più dettagliata è la ricostruzione di Mutolo, illustrata il 21 febbraio 1996 nell’aula del processo per la strage di via D’Amelio. «Il giudice Borsellino mi viene a trovare io ci faccio un discorso molto chiaro e ci ripeto quello che io sapevo su alcuni giudici e su alcuni funzionari dello Stato molto importanti. Allora mi ricordo probabilmente che il dottor Borsellino la prima volta che mi interroga riceve una telefonata, quindi manca qualche ora e mi ricordo che quando è venuto, è venuto tutto arrabbiato, agitato, preoccupato. Io insomma non sapendo gli ho chiesto “dottore ma che cos’ha?” e lui molto preoccupato e serio mi fa che si è incontrato con il dottor Parisi e il dottor Contrada, mi dice di scrivere che il dottor Contrada era colluso con la mafia e che il giudice Signorino era amico dei mafiosi» <71.
A quel punto, dunque, Borsellino sa: è stato informato dei contatti che gli uomini dello Stato hanno con Cosa Nostra e, come logica conseguenza, il suo primo pensiero va alla morte dell’amico Falcone. Ci mette poco, il giudice, a immaginarsi quale sarà il prossimo obiettivo dei mafiosi: la sera stessa infatti, in una telefonata alla moglie, confessa sconsolato «oggi ho respirato aria di morte» <72.
Nel frattempo, però, la malavita siciliana mette in pausa la sua strategia del terrore. È ben consapevole che in Parlamento sia ancora in discussione il decreto-legge che introduce il 41 bis, da convertire entro un massimo di due mesi di tempo. L’idea è, dunque, quella di attendere l’inizio di agosto e lasciare che il provvedimento decada, per poi ricominciare da dove il progetto stesso era stato lasciato, ma a questa strategia attendista, Borsellino risponde con un’ulteriore intensificazione delle indagini.
Il 15 luglio, una scoperta lo lascia senza parole. Tornando a casa la sera dopo una faticosa giornata di lavoro, il giudice è in preda a ripetuti conati di vomito. La moglie Agnese, vedendolo, corre in suo soccorso e Borsellino le dice «sto vedendo la mafia in diretta. Ho saputo che il generale Subranni è punciutu» <73. “Punciutu”, un termine prettamente siciliano che corrisponde a “punto” e che indica un rito di affiliazione alla mafia dove alla persona in esame viene punto l’indice della mano con cui, da quel momento in poi, dovrà sparare. Per completare la cerimonia, al nuovo membro della cosca viene fatto pronunciare un impegno solenne: «giuro di essere fedele a Cosa Nostra. Possa la mia carne bruciare come questo santino se non manterrò fede al giuramento» <74. Borsellino capisce così che anche gli altissimi esponenti dell’Arma sono coinvolti e si sente circondato da traditori, sapendo che il tempo stia ormai per finire.
Il 19 luglio è una domenica di sole e il giudice si trova al mare con la famiglia, a Villagrazia di Carini. Come ogni fine settimana, nel pomeriggio torna in città, a Palermo, e si reca dalla madre che abita in Via d’Amelio 21, considerata pericolosa già da tempo perché molto stretta e senza vie di fuga. Insomma, per un uomo posto sotto costante protezione della scorta, può essere considerata una pericolosa “trappola per topi” ed è infatti stato richiesto dalle autorità della città che in quella zona venga applicato il divieto di sosta per tutte le vetture, in modo da fugare ogni possibile timore di attentato <75. Eppure, in via D’Amelio, quel 19 luglio le macchine parcheggiate sono ancora molte.
L’orologio segna quasi le 17 quando il giudice, come da programma, suona al campanello della madre. Non fa in tempo a staccare il dito dal citofono che una Fiat 126, rubata qualche giorno prima e imbottita con circa 90 chili di esplosivo, viene fatta detonare. La strada salta in aria e così decine di macchine, oltre ai corpi di Borsellino e degli uomini della scorta. Uno di loro, Antonino Vullo, rimane in vita e per descrivere quegli attimi usa parole forti. «Il giudice e i miei colleghi» - racconta - «erano già scesi dalle auto, io ero rimasto alla guida, stavo facendo manovra, stavo parcheggiando l'auto che era alla testa del corteo. Improvvisamente è stato l'inferno. Ho visto una grossa fiammata, ho sentito sobbalzare la blindata. L'onda d'urto mi ha sbalzato dal sedile. Non so come ho fatto a scendere dalla macchina. Attorno a me c'erano brandelli di carne umana sparsi dappertutto» <76.
Subito dopo l’esplosione, un uomo delle istituzioni, il capitano Arcangioli, viene ripreso dalle telecamere mentre cammina in via D'Amelio con una borsa di pelle marrone nella mano sinistra, una pettorina azzurra su cui si staglia uno stemma dorato dell'Arma e un marsupio nero attorno alla vita <77. Non si hanno prove sufficienti per stabilire con esattezza cosa abbia fatto il capitano dopo essersi allontanato, ma dalla scena del crimine sparisce l’agenda rossa di Borsellino, quella su cui era solito scrivere minuziosamente tutti i risultati delle sue indagini. L’agenda grigia, dove erano segnati gli appuntamenti, viene invece lasciata. Poche ore dopo, con due telefonate alle redazioni Ansa di Torino e Roma, una persona che si annuncia come portavoce della Falange Armata rivendica la strage.
Nelle vicinanze arrivano il figlio di Borsellino, Manfredi, e il suocero, il magistrato in pensione Angelo Pirano Leto, ex Presidente della Corte d’Appello di Palermo. Entrambi camminano attorno al cratere provocato dall’esplosione cercando notizie sul giudice. Anche la moglie vuole sapere qualcosa e telefona a chiunque per chiedere informazioni. A nessuno di loro, in quel momento, viene detta la verità <78. Intanto, al Palazzo di Giustizia di Palermo, vengono apposti i sigilli alla stanza del magistrato e così alla sua cassaforte, dove, secondo i familiari, teneva le carte di lavoro riservate. Nei giorni successivi, la cassaforte verrà aperta, ma stranamente, al suo interno, non si troverà nulla di importante <79.
[NOTE]
68 G. Lo Bianco e S. Rizza, L’agenda rossa di Paolo Borsellino, Chiarelettere, Milano, 2007, p. 137.
69 Ibidem, p. 140.
70 Ibidem
71 Ibidem, p. 141.
72 https://www.ilfattoquotidiano.it/2012/07/15/intervista-inedita-a-borsellino-dimenticata-negli-archivi-rai/294265/
73 https://mafie.blogautore.repubblica.it/2019/08/24/senza-titolo-2/
74 P. Grasso, A. La Volpe, Per non morire di mafia, Pickwick, Milano, 2009, p. 132.
75 http://files24.rainews.it/strage-di-via-d-amelio/la-rai-racconta-borsellino/
76 https://espresso.repubblica.it/attualita/cronaca/2013/07/18/news/via-d-amelio-ancora-troppi-misteri-1.56776
77 https://www.archivioantimafia.org/libri/borsellino_e_l_agenda_rossa.pdf
78 G. Lo Bianco e S. Rizza, L’agenda rossa di Paolo Borsellino, Chiarelettere, Milano, 2007, p. 194.
79 Ibidem, p. 196.
Nicola Corradi, La trattativa Stato-mafia: Il biennio 1992-1993 da cui è nata la "Seconda Repubblica", Tesi di laurea, Università Luiss, Anno Accademico 2020-2021

mercoledì 18 ottobre 2023

Scalfari occupa una posizione anomala


«Nonostante la proliferazione memorialista degli ultimi anni, rimangono dei grandi buchi neri nella memoria collettiva del passato» scrive Colmeiro a proposito del contesto spagnolo. Un'analisi che nel caso italiano è ancora più azzeccata. Tuttavia alcuni elementi de "L'aspra stagione" permettono di fare luce su queste zone d'ombra.
Le due pagine di apertura de "L'aspra stagione" rappresentano un elemento del tutto anomalo rispetto al resto del libro. Non c'è alcuna indicazione numerica che le identifichi come un capitolo e le pagine successive, che costituiscono il primo capitolo hanno come numero identificativo lo “0”. Il testo iniziale del libro sembra dunque esterno rispetto al resto dell'apparato narrativo, eppure si trova nella pagina che segue il titolo del libro, la dedica e l'epigrafe in esergo. Si trova dunque dislocato in una sorta di non-luogo letterario che non è quello della classica introduzione. Anche la scrittura è anomala, dato che il testo è in corsivo. È anche l'unico capitolo ad avere una data, «Roma, gennaio 2010», che fornisce le indicazioni per storicizzare quanto scritto: "l'Italia non sogna più. Ha smesso di farlo un mattino di maggio del 1978. Da allora ha imparato a ingurgitare di tutto pur di restare con gli occhi sbarrati. Non lucida. Soltanto sveglia. Un Paese senza sonno. E senza sogni. Un Paese in cui non c'è differenza tra il giorno e la notte. Un Paese in cui sono successe troppe cose. Ma è come se niente fosse successo. Niente, dall'ultimo risveglio. Da quando ci siamo alzati e siamo usciti diretti al porto, per imbarcarsi sull'unica nave galleggiante. La nave sulla quale abbiamo viaggiato fino a oggi. Navigando a vista". <417
L'immagine della nave rende l'idea di un Paese che ormai ha abbandonato il proprio passato e le proprie sicurezze, senza tuttavia mai distaccarsene troppo. Il viaggio è la direzione intrapresa dal Paese dopo gli anni del passaggio storico descritto nel libro. La storia di Carlo Rivolta riguarda i momenti immediatamente precedenti all'inizio del viaggio, «è la storia del tragitto dalle piazze al molo, dalle case al porto. È la storia degli ultimi passi sulla terraferma» <418.
Al di là di Carlo Rivolta («l'uomo che se n'è andato un attimo prima che la nave salpasse»), il “prologo” contiene una serie di riferimenti che è necessario ricostruire per chiarire la filosofia del resto del libro. Prima di tutto la metafora, che in realtà è presa da un'immagine di Bettino Craxi, di cui nelle ultime pagine viene riportata la frase “E la nave va”, pronunciata nel 1983. Craxi appare nell'ultimo capitolo del libro senza essere mai stato citato prima, perlomeno in forma esplicita. È il Presidente del Consiglio che si incarica di stabilizzare il cambiamento e che vince lo scontro con il segretario del Partito Comunista, Enrico Berlinguer. È lui, dunque, il “Nostromo” del “prologo” che, all'epoca dei fatti «studiava da ammiraglio». Assieme al “Nostromo”, a salire sulla «unica nave galleggiante» c'è un intero equipaggio composto anche da «corsari e bucanieri» che hanno fretta di imbarcarsi e che sono «promossi - sul ponte - al rango di ufficiali». Una frase ambigua in cui però non è difficile individuare, tra gli altri, chi tramite la violenza o tramite l'inganno è riuscito a superare la fase di passaggio diventando potente. Da questo punto di vista è possibile ricollegare a questa immagine i nomi degli appartenenti alla loggia P2 che, all'interno del libro, appaiono nel capitolo dedicato alla narrazione dei convulsi eventi del 1981. Si tratta di un caso unico all'interno del testo, che vede l'alternanza sincopata dei testi in corsivo e in stampatello: il nome degli esponenti della P2 viene scritto in stampatello, secondo una forma rigorosa che fa eco allo stile formale burocratico “Cognome Nome, lavoro, numero di tessera”, gli eventi vengono invece scritti col carattere in stampatello e uno stile del tutto frenetico. L'effetto finale è quello della perdita dei punti di riferimento, come se nel bombardamento continuo di eventi disperati ciò che rimane sotto traccia fosse il filo dei nomi, ciascuno dei quali rimanda ad un percorso differente che caratterizza i successivi anni della storia d'Italia: Vito Miceli, Maurizio Costanzo, Mino Pecorelli, Roberto Calvi, Bruno Tassan Din, Franco di Bella e Silvio Berlusconi, i nomi citati vengono ripresi attraverso un salto multiplo in avanti: "un elenco di nomi. Una serie di numeri. E un «Piano di rinascita democratica». Alcuni anni prima. Durante i giorni del piccolo Rampi. Molti anni dopo. Fino ad oggi. Accade in Italia". <419 Alfredo Rampi è il bambino caduto in un pozzo il 12 giugno 1981, morto durante una diretta TV seguita da trenta milioni di persone. Un evento che anche Giuseppe Genna, in "Dies Irae", individua come un momento di svolta. Così come in "Dies Irae" <420, gli autori non cedono ad un'ipotesi che vede nel il caso di Alfredo Rampi un “complotto televisivo” <421 utile a coprire lo scandalo P2. Essi lasciano piuttosto al lettore il compito di un'interpretazione, concentrandosi ancora una volta sull'immagine dello sconfitto, Carlo Rivolta, il quale «accusa il colpo» <422. Che esista un complotto o meno, si tratta comunque di un momento in cui lo scandalo sfugge all'attenzione dei media.
Esiste infine una terza lacuna all'interno del libro, che corrisponde ad un'assenza che incide anche nei materiali a disposizione dei due autori. Eugenio Scalfari, il fondatore de "La Repubblica", rifiuta la richiesta degli autori di essere intervistato sulla vita di Carlo Rivolta: le sue interviste contenute nel libro provengono da materiali di archivio. E tuttavia la metafora sul mare è legata anche alla sua vicenda. Grazie alla successione tra il “prologo” e l'inizio del capitolo “0” viene suggerito un altro accostamento possibile:
"Acqua.
Tonnellate di acqua.
A mollo la pasta di legno, miscela concentrata di fibre in sospensione nel liquido. Abeti e pioppi spogliati, scortecciati, trasformati, trattati fino a ottenere polpa succosa. Cellulosa. Impasto diluito che diventerà carta". <423
Se da una parte il paese Italia avrà Craxi come “Nostromo”, Scalfari è il personaggio in grado di avere abbastanza preveggenza per dominare il “mare di carta” dell'informazione, un elemento non secondario all'interno di un libro che narra le vicende di un cronista. Scalfari viene presentato con uno stile che amplifica il mistero attorno alla sua figura; il suo nome viene svelato solo alla fine della descrizione della sua idea di fondare il giornale dopo che nelle due pagine precedenti ci si è riferiti alla sua figura come “lui” o “l'uomo”: "in un edificio tra piazza Indipendenza e via dei Mille, l'uomo - montatura leggera, lanugine candida - scandisce il mantra degli ultimi tempi: «Sessanta Righe”. Il limite è tassativo. Che tutti se ne facciano una ragione".
Pur essendo una figura decisiva, Scalfari rimane sempre molto distaccato dalle vicende narrate: le discussioni di redazione avvengono senza di lui, così come le liti, mentre le contrarietà alla linea del giornale rispetto alla politica mantenuta durante il sequestro Moro sono destinate a non emergere mai in maniera esplicita.
Nella modo in cui presenta il progetto per il suo quotidiano, Scalfari viene descritto come una persona in grado di ammaliare e ottenere ciò che vuole: "lui […] di anni ne ha cinquantadue. Gli ultimi dodici mesi li ha passati illustrando un progetto pazzesco presso i circoli degli industriali progressisti: «Vorrei fare un giornale liberal, della borghesia illuminata, un giornale nuovo sia nel formato che nella grafica, che nella stessa impostazione: diciamo non paludata, un giornale che non sia al servizio di nessuno, ma di una visione più moderna e avanzata del Paese. Cerco un po' di soldi e sono venuto da lei, perché mi sembra appartenere a quella ridotta categoria di imprenditori che ha una visione che supera l'interesse immediato nel profitto d'impresa»".
Il progetto è legato ad un discorso di mercato: il tema del “pubblico” e delle vendite è più volte sottolineato dagli autori che proprio nel capitolo “0” inseriscono la progressione dell'aumento del prezzo dei giornali nel corso degli anni Settanta. Lo stesso mutamento della linea editoriale viene ricollegato ad una scelta di mercato.
Innanzitutto c'è la scelta di conquistare i lettori del Partito Comunista, che comporta uno spostamento della linea editoriale che, prima del rapimento di Moro, «è sottile, ma percepibile» <424, e in seguito c'è la scelta della linea della fermezza rispetto alle Brigate Rosse, con cui Rivolta è in disaccordo: "la questione, per certi versi, è anche di mercato, perché - secondo Villoresi - «Carlo è entrato in contrasto con la linea di “Repubblica” quando le cose di cui amava occuparsi passano in secondo piano, quando - in virtù d'una particolare alchimia editoriale - si guarda ad altri target e ad altri mondi»". <425
Scalfari occupa una posizione anomala: è uno dei personaggi noti più citati nel romanzo, ma non rientra di fatto tra i “potenti”, coloro che determinano l'andamento del paese. Eppure la sua immagine si addice perfettamente alla figura del Grande Vecchio, del calcolatore che ha in mente un piano preciso per il futuro. La particolare prospettiva da cui Tommaso de Lorenzis e Mauro Favale osservano la storia mette dunque in luce un cono d'ombra ancora poco investigato. Gettare una luce su questa figura potrebbe forse rivelare attraverso quali discorsi e attraverso quali processi materiali (quali decisioni, quali interessi), nel corso degli anni, è andato formandosi un giudizio così univoco e inequivocabile sulla stagione che ancora oggi viene identificata attraverso la formula “anni di Piombo”.
[NOTE]
417 Tommaso de Lorenzis, Mauro Favale, L'aspra stagione, Torino, Einaudi, 2012, p. 5.
418 Ivi.
419 Tommaso de Lorenzis, Mauro Favale, L'aspra stagione, Torino, Einaudi, 2012, p. 216-217.
420 CFR. Claudia Boscolo, Stefano Jossa, “Finzioni metastoriche e sguardi politici della narrativa
contemporanea”, in Claudia Boscolo, Stefano Jossa (a cura di), Scritture di resistenza. Sguardi politici
nella narrativa italiana contemporanea, Carocci Editore, Roma, 2014, p. 23.
421 Claudio Milanesi, Il grande complotto televisivo: Giuseppe Genna Dies Irae, in “Cahiers d'études italiennes”, 2010, n. XI.
422 Tommaso de Lorenzis, Mauro Favale, L'aspra stagione, Torino, Einaudi, 2012, p. 218.
423 Tommaso de Lorenzis, Mauro Favale, L'aspra stagione, Torino, Einaudi, 2012, p. 7.
424 Tommaso de Lorenzis, Mauro Favale, L'aspra stagione, Torino, Einaudi, 2012, p. 113.
425 Tommaso de Lorenzis, Mauro Favale, L'aspra stagione, Torino, Einaudi, 2012, pp. 122-123.
Paolo La Valle, Raccontare la storia al tempo delle crisi, Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2015

mercoledì 11 ottobre 2023

Il compromesso degasperiano si inserisce nella tradizione del moderatismo italiano che non esclude l’utilizzo della forza e della violenza


Come abbiamo già visto sui temi economici, Mario Del Pero ha invece sottolineato nel suo lavoro sulla natura del rapporto DC-USA all’inizio della Guerra fredda che parlare di totale subalternità di De Gasperi e dei suoi all’alleato americano non è storicamente del tutto corretto: le venature autonomiste e nazionaliste presenti in buona parte della coalizione governativa tesero sempre ad accettare l’influenza atlantica, ma utilizzando la presenza e le pressioni americane spesso per fini dettati dalle logiche nazionali. D’accordo si dice anche Scoppola, in un paragone con il partito moderato risorgimentale che condividiamo e, dal nostro punto di vista, racchiude un significato storico molto più denso: "Non eravamo pienamente liberi ma non eravamo neppure del tutto dipendenti dalle decisioni altrui: influire sulle decisioni americane era l’unica via possibile e responsabile che un uomo politico illuminato potesse seguire. Cosa aveva fatto, negli dell’unificazione, Cavour se non utilizzare il quadro internazionale ai suoi fini, prendendo atto realisticamente dei rapporti di forza esistenti?" <554
Così sul piano economico, su quello militare e, anche, sulle misure di contenimento anticomunista che, in particolare dopo lo scoppio del conflitto coreano, assunsero sempre più caratteri anticostituzionali, De Gasperi resistette e non solo per opportunismo: "Valutando la posizione di De Gasperi sulla base delle pressioni interne ed esterne che egli ricevette affinché venisse promossa una più decisa azione anticomunista, non si può però fare a meno di notare una certa moderazione nelle scelte dello statista trentino. Da questo punto di vista sia il contenuto dei provvedimenti dell’autunno 1950 (con il rigetto dell’ipotesi di utilizzare volontari per svolgere funzioni di polizia) che la gestione dell’iter di approvazione dei medesimi testi di legge (che si arenarono in parlamento o non vennero nemmeno presentati) sembrano costituire un tipico compromesso degasperiano. Un compromesso finalizzato non solo a soddisfare le pressioni statunitensi, ma anche ad attutire posizioni più radicali presenti all’interno dell’alleanza di governo così come nel mondo cattolico organizzato". <555
'Compromesso degasperiano' che si inserisce nella tradizione del moderatismo italiano che non esclude l’utilizzo della forza e della violenza, senza tuttavia compromettere gli equilibri a suo favore, correndo il rischio di cedere quote di potere troppo elevate ai settori oltranzisti poi difficilmente controllabili: "È difficile sfuggire alla sensazione che questa scarsa disponibilità non fosse determinata anche dal timore che la pedissequa applicazione delle misure chiaramente anticostituzionali richieste da Washington avrebbe finito per travolgere la democrazia italiana, portando il paese sull’orlo della guerra civile e ponendo le premesse per una svolta autoritaria di cui potevano essere vittime anche De Gasperi e la stessa Democrazia Cristiana". <556
Sostanzialmente d’accordo si dice anche Bertucelli quando riflette sui motivi del rifiuto, da parte della classe dirigente centrista, dell’alternativa salazariana: "I comunisti vengono esclusi da ogni ruolo di governo o di direzione nella struttura dello Stato, ma continuano a partecipare alle istituzioni della democrazia rappresentativa. La realizzazione di questo delicato equilibrio […] richiede però alleanze forti e impone l’anticomunismo come fattore di coesione irrinunciabile. Un anticomunismo variegato e polimorfo, spesso connotato socialmente, che diviene un tratto distintivo della democrazia del dopoguerra, in grado di relegare in posizione subalterna le culture riformatrici dei partiti di governo e le spinte modernizzatrici nella società". <557
È l’esperienza antifascista, il coinvolgimento profondo di una parte significativa di popolazione e di paese nella guerra di Liberazione, la tendenza ancora embrionale ma manifestatasi di settori non comunisti della società a fare causa comune con PCI e PSI, a impedire tra le altre cose la svolta autoritaria: "La stessa Costituzione, esito alto del tormentato passaggio dal fascismo alla Repubblica e cifra straordinaria di discontinuità con il passato, può essere sospesa, limitata, forzata, ma non se ne possono oltrepassare le norme fondamentali, non tanto perché l’opposizione comunista ne fa una bandiera, ma perché da quella carta trae legittimità lo stesso ceto di governo del dopoguerra che si identifica con la libertà e il nuovo Stato italiano, sorto dalle ceneri dell’otto settembre, e inserito ora in un nuovo ordine internazionale". <558
Queste considerazioni che negano l’asservimento totale e l’imperialismo come categorie utili, in questo contesto, a spiegare l’equilibrio centrista tra costituzione formale (prodotto della Resistenza, fondata sul nesso democrazia-antifascismo) e costituzione materiale (prodotto della Guerra fredda, fondata sul nesso democrazia-anticomunismo), servono a problematizzare il quadro: la sociologia dei conflitti tende a suddividere le modalità di svolgimento e gestione del conflitto da parte degli attori in campo secondo categorie che distinguono chiaramente tra contesto democratico e contesto non-democratico.
Questo ci pone una domanda: è possibile considerare così nettamente separate le due dimensioni? Probabilmente è più corretto ammettere la presenza di sfumature: l’esperienza storica ha dimostrato come diversi gradi di democrazia interna si basino su eccezioni alla norma democratica ufficiale, che intaccano la struttura delle opportunità politiche anche per coloro che sono riconosciuti come cittadini a pieno titolo. Le discriminazioni de iure, soprattutto in presenza di un conflitto interno, che si manifesti sia nelle forme delle campagne dei movimenti sociali, sia del conflitto letale o armato, comportano spesso restrizioni alle libertà politiche e aumento di potere nelle mani di forze dell’ordine e apparati di sicurezza. Si tratta dunque di una potenziale causa di de-democratizzazione. Contrariamente a quanto osservato da C. Tilly e S. Tarrow <559, però, questo processo non è necessariamente innescato da governi democratici a bassa capacità, né tantomeno che hanno subìto un trauma o un indebolimento: paradossalmente sono proprio le democrazie segmentate forti <560 a disporre dei dispositivi dell’eccezione e ad applicarli. In questo, il condizionamento culturale è centrale nell’interpretazione dei fatti sociali e nella percezione del nemico.
Quella che costruisce la classe dirigente neo-popolare e centrista appare a tutti gli effetti una democrazia limitata più che protetta: la molteplicità degli apparati di sicurezza e il peso dell’esercito (che vedremo nelle prossime pagine) non rappresentano infatti un potere capace di dettare l’agenda politica e determinare l’azione di governo (non in modo complessivo quanto meno); è un complesso intreccio tra attori e soggetti, spesso in conflitto tra loro, fatto di condizionamenti e azioni di diversa natura, che però non giunge mai a sollevare il governo dalle proprie prerogative costituzionali. Il sistema di ordine pubblico e agibilità politica che costruiscono Scelba e De Gasperi dunque non tende tanto a proteggere i diritti costituzionali, quanto a limitarne l’accesso per ampi settori sociali e politici. E questa è una tendenza di lungo periodo: "le tradizioni dell’Italia unita sia al livello istituzionale sia al livello delle strategie prevalenti verso gli sfidanti sono di tipo esclusivo. Le istituzioni del regno sabaudo erano caratterizzate da un forte centralismo, un’accentuata supremazia del governo di fronte a un parlamento debole, e una forte influenza dell’esecutivo anche sul potere giudiziario. La domanda che da parte del potere politico giungeva alle forze di polizia, anch’esse tenute sotto stretto controllo, era generalmente quella di una rigida protezione dell’ordine costituito, utilizzando anche le strategie più brutali. […] Il regime fascista portò a un’ulteriore accentuazione dei tratti esclusivi delle istituzioni statali. La legislazione (il codice penale, la legge di Pubblica sicurezza) varata durante il fascismo restò a lungo in vigore anche nella repubblica democratica, con conseguenze durature in termini di un riconoscimento debole dei diritti democratici. […] La forte correzione introdotta dalla costituzione repubblicana nel campo delle istituzioni formali ebbe inizialmente effetti solo parziali a causa dell’ostruzionismo della maggioranza che ostacolò l’introduzione delle nuove istituzioni di controllo e di decentramento del potere come la corte costituzionale, il consiglio superiore della magistratura, le regioni e il referendum". <561
Limitazione che diventa conferma dell’esclusione tradizionale delle classi subalterne: "Queste limitazioni, giustificate proprio con un presunto pericolo per la democrazia, si riflessero in una continuità nella strategia di esclusione del movimento operaio, delle sue organizzazioni e dei suoi partiti, che si cercava di confinare nello spazio della subcultura rossa". <562
Su questo punto non si trova d’accordo Scoppola, che invece ha sottolineato la differenza tra il paternalismo prefascista e il neopopolarismo degasperiano, soprattutto sulla questione sociale e sul ruolo delle classi subalterne: "per De Gasperi la giustizia sociale non discende nella realtà solo in virtù della sua forza morale, non è affidata ad uno Stato attento, dall’alto, al benessere delle plebi […], ma è il frutto di una presenza nuova, attraverso la democrazia politica e il suffragio universale su cui essa si fonda, di operai e contadini nella vita politica. […] La classe lavoratrice nella sua concezione è protagonista e non oggetto di un’azione di rinnovamento sociale […]". <563
Bisogna operare qui, secondo noi, una distinzione tra quella che è la teoria politica, la consapevolezza, che lo statista trentino dimostra e quella che risulta essere la prassi seguita dai suoi governi. Per le ragioni sopra riportate e che ritroveremo nel seguito dell’esposizione, ritroviamo i medesimi motivi da cui nacque, storicamente, la particolare 'subcultura rossa' italiana, e che nel secondo dopoguerra contribuiscono al riprodursi dei suoi caratteri antagonisti e rivoluzionaristi; elementi dovuti anche alla rottura tra i poteri pubblici e le istanze del lavoro, o meglio al rifiuto dei primi nei confronti delle richieste contenute nella politica del conflitto dei ceti subalterni. Costante di lungo periodo che, unitamente al nuovo contesto geopolitico e interpretativo della Guerra fredda, produce il "paradosso - giustificato con costanti richiami all’eccezionalità della situazione italiana - di uno Stato democratico costretto ad affidare le sue sorti ai rigori di una vigilanza autoritaria". <564
[NOTE]
554 P. Scoppola, La proposta politica di De Gasperi, il Mulino, 1978, p. 181
555 M. Del Pero, L’alleato scomodo. Gli USA e la DC negli anni del centrismo (1948-1955), Carocci, 2001, p. 106
556 Ibidem, p. 156
557 L. Bertucelli, All’alba della Repubblica. Modena, 9 gennaio 1950. L’eccidio delle Fonderie Riunite, Unicopli, 2012, p. 84
558 Ibidem, p. 85
559 C. Tilly, S. Tarrow, La politica del conflitto, pp. 81-84, Mondadori 2008
560 Regimi politici democratico-parlamentari che presentano al loro interno diversi gradi di concessione della cittadinanza politica e di accesso ai diritti civili, producendo così segmenti interni di democrazia. L’esclusione o la limitazione può derivare da criteri etnici, religiosi, politici.
561 D. Della Porta, H. Reiter, op. cit., pp. 24-25
562 Ibidem, p. 25
563 P. Scoppola, op. cit., pp. 91-92
564 G.C. Marino, op. cit., p. 57
Elio Catania, Il conflitto sociale: “motore della Storia” o “tabù” storico-politico. Il caso di Milano nel secondo dopoguerra, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2016-2017

mercoledì 4 ottobre 2023

All'inizio dei tentativi di epurazione dei fascisti in Italia



Da ultimo, le nuove autorità politiche avrebbero dovuto far luce, anche attorno ai numerosi episodi di violenza realizzati nel periodo della guerra civile (8 settembre 1943- maggio 1945): con particolare riferimento alle feroci rappresaglie naziste realizzate nel centro-nord della Penisola <4, al trasferimento di civili e militari italiani nei campi di prigionia nazista (c.d. I.M.I. Internati Militari Italiani), alla sorte dei soldati del Regio Esercito, abbandonati senz'ordini alla vendetta dell'ex “fratello d'arme” tedesco <5. Numerosi aspetti oscuri riguardavano anche la lotta partigiana, nelle cui maglie vennero sovente ad innestarsi, regolamenti privati tra cittadini e scontri tra bande ideologicamente rivali, nonché l'opera di liberazione condotta dagli eserciti alleati, nel corso delle cui azioni non mancarono episodi di violenza e aggressione ai danni delle popolazioni civili dei territori di volta in volta liberati <6. Si trattava, come è evidente di incombenze imbarazzanti che difficilmente la giovane ed inesperta democrazia italiana avrebbe potuto realizzare nel breve periodo, specie se si consideri che essa era, in pari tempo, chiamata ad affrontare ulteriori prioritarie questioni: la ricostruzione del Paese distrutto dai bombardamenti, la crisi economica post-bellica, la riconversione dell'industria militare agli usi civili, la riorganizzazione, infine, dopo un vuoto durato vent'anni del pluralismo politico e culturale, operazioni alle quali avrebbe dovuto procedersi, peraltro, sotto le spinte di una popolazione che ampiamente rivendicava una maggiore giustizia sociale ed una più incisiva partecipazione alle scelte politiche del Paese.
In un simile quadro, i primi sforzi del Governo Badoglio furono indirizzati alla “defascistizzazione” dello Stato, divenuto nel corso del ventennio quasi un unicum con il Partito di Mussolini <7: con R.d.l. n. 668/1943 venne disposta, infatti, la soppressione del Tribunale speciale per la difesa dello Stato, con R.d.l. n. 706/1943 si provvide allo scioglimento del Gran Consiglio del fascismo, infine, con R.d.l. n. 704/1943 venne liquidato il P.N.F. e le sue organizzazioni. Ulteriori provvedimenti diedero luogo all'abolizione dell'ordine corporativo e alla Camera dei Fasci e delle corporazioni. Una volta demolite le strutture del vecchio regime, con l'insediamento dei Governi ciellenisti Bonomi e Parri furono riattivate le regole del gioco democratico: vennero soppresse le antiche limitazioni alla libertà di stampa, si ristabilirono le libertà politiche e sindacali (d.lg.lgt. n. 369/1944), fu convocata (nell'attesa dell'insediamento di un nuovo Parlamento) una Consulta Nazionale, incaricata di formulare pareri sui problemi generali e i provvedimenti legislativi sottoposti dal Governo <8.
Per quanto concerne gli aspetti più dichiaratamente discriminatori del passato, con R.d.l. n. 25/1944 si provvide all'abolizione di tutti i decreti, le leggi e le singole disposizioni regolamentari in cui era fatto esplicito riferimento “all'accertamento o alla menzione della razza”, reintegrando al contempo tutti i cittadini di fede ebraica nel pieno godimento dei diritti civili e politici. Con riferimento specifico alle loro sofferenze economiche, il R.d.l. n. 26/1944 precisò, inoltre, la reintegrazione dei suddetti nei loro precedenti diritti patrimoniali <9.
Una corretta gestione del passato, non poteva prescindere, tuttavia, dalla realizzazione di una significativa opera di epurazione del personale dell'esercito, dell'amministrazione pubblica e degli organi di giustizia, nonché dalla persecuzione dei c.d. «delitti collaborazionisti» e dei più efferati crimini perpetrati durante la lunga vigenza del regime, specie nei primi tumultuosi anni della sua affermazione con la marcia del 1922. Tale ufficio rappresentava, peraltro, una delle condizioni (art. 30) specificamente imposte dai rappresentanti dell'esercito anglo-americano al momento della concessione dell'armistizio lungo dell'3 settembre 1943.
Assumendosi detto impegno, il Governo provvide, già il 28 dicembre successivo, durante il c.d. Regno del Sud, all'emanazione del D.l. n. 28/1943, per mezzo del quale si dispose l'assoggettamento a giudizio di chiunque si trovasse, al momento dell'emanazione, insignito della qualifica di squadrista, marcia su Roma, gerarca o sciarpa littorio, o avesse, in ogni caso rivestito in passato ruoli dirigenziali nel quadro organizzativo del Partito nazionale fascista, attribuendo al Consiglio dei ministri, ai consigli di amministrazione o di disciplina degli enti nazionali, nonché a commissioni di nomina prefettizia appositamente istituite, il compito di emettere la decisione e comminare la relativa sanzione. Al di là delle categorie su richiamate furono ad ogni modo considerati colpevoli gli autori di episodi configurabili come “attentato alla libertà individuale” dei cittadini.
Era evidente, in ogni caso, che, stante la divisione del Paese in due Stati in conflitto e la perdurante lotta tra bande partigiane e milizie repubblichine del Governo saloino, il provvedimento in argomento non poté conoscere puntuale attuazione, dando origine a risultati significativamente distanti da quelli auspicati.
Sulla questione dovettero intervenire, perciò, numerose ulteriori disposizioni. Sotto la vigenza dell'Esecutivo Bonomi fu adottato, in particolare il d.lg.lgt. n. 159/1944, per mezzo del quale furono inasprite le pene comminate dal precedente intervento, venne fornita più esatta indicazione dei soggetti destinatari della sanzione, si provvide ad istituire, quali organi di giudizio nelle operazioni, l'Alta Corte di giustizia, le Corti d'assise e i Tribunali militari, integrati questi ultimi, con giudici non togati appartenenti agli ambienti resistenziali. A garanzia del corretto svolgimento delle operazioni venne istituito, altresì, l'Alto Commissario per le sanzioni contro il fascismo, organo destinato ad essere successivamente assistito da quattro Alti Commissari aggiunti, ciascuno dei quali incaricato alla supervisione di uno dei settori di intervento: punizione dei delitti, epurazione dell'amministrazione, avocazione dei profitti del regime, liquidazione dei beni fascisti <10. Il provvedimento in esame stabilì, altresì, che, avverso le sentenze, le ordinanze e i provvedimenti emessi dell'Alta Corte di giustizia non avrebbe potuto proporsi gravame in appello, ma solo il giudizio in Cassazione la valutazione dei vizi di legittimità nell'applicazione di esso. Secondo dette disposizioni si procedette all'epurazione del Senato <11, dei dipendenti militari e civili dello Stato in posizione apicale, dei vertici delle aziende di Stato e delle imprese private, specie se titolari di rapporti di fornitura o di appalto con le amministrazioni pubbliche.
Il sistema predisposto, stando al parere della più recente storiografia <12, conobbe nel complesso, un apprezzabile avvio, tale da consentire - nel caso in cui fosse stato portato effettivamente a compimento - un effettivo rinnovamento del sistema amministrativo centrale e periferico dello Stato (prefetti, podestà, dirigenti della burocrazia ministeriale), nonché una più facile rielaborazione del problematico passato da parte della generalità dei consociati.
Le operazioni in tal modo avviate dovettero subire, però, un radicale mutamento con l'approvazione del d.lg.lgt. n. 625/1945, per mezzo del quale fu disposta la soppressione dell'Alta Corte di giustizia ed il trasferimento di tutti i procedimenti allora pendenti ad una sezione speciale (rectius specializzata) delle Corti d'assise.
La magistratura ordinaria (che era riuscita nel complesso a sottrarsi alle misure di epurazione) si trovò, così, investita del non facile compito di “defascistizzare” la Pubblica amministrazione, assumendo su di sé l'incarico di comminare sanzioni penali e disciplinari a funzionari e dirigenti rei di aver assunto, nel corso della propria carriera, atteggiamenti non dissimili da quelli posti in essere da essi stessi durante il lungo interregno della dittatura fascista <13.
Nell'esercizio di tale attività, fu evidente, quindi, che i magistrati presero ad assumere atteggiamenti di maggior indulgenza rispetto a quelli fatti propri dai componenti delle precedenti commissioni d'epurazione governative, i quali, nel passato, avevano generalmente rivestito ruoli di primo piano nelle file dell'antifascismo e della guerra di liberazione partigiana.
Il frequente ricorso da parte del legislatore a clausole interpretative quali “delitto per motivi fascisti”, “atto rilevante”, “dolo”, “faziosità” consentì ai medesimi, infatti, di procedere ad interpretazioni giurisprudenziali salvifiche delle condotte poste in essere dai dirigenti e dagli impiegati della struttura amministrativa dello Stato e delle sue articolazioni, assicurando ai medesimi una generalizzata e pressoché totale impunità ogniqualvolta non fosse incontrovertibilmente dimostrato - sulla base delle risultanze istruttorie contro di essi prodotte - il ricorso ad atteggiamenti settari o faziosi (requisito esso stesso, come è evidente, suscettibile di ampia interpretazione) nell'esercizio delle funzioni per le quali erano preposti.
[NOTE]
4 L'occupazione dell'Italia da parte delle truppe naziste nel periodo compreso tra l'8 settembre 1943 ed il 2 maggio 1945 (data della resa tedesca in Italia), provocò più di diecimila vittime tra la popolazione civile. Tra l'8 settembre 1943 e l'aprile del 1945 in tutto il centro-nord si registrarono oltre 400 stragi, tra le quali gli eccidi delle Fosse Ardeatine (335 vittime) e di Marzabotto (770 vittime) furono solamente gli episodi più conosciuti. L'area dell'Appennino tosco-emiliano, data la sua posizione strategica lungo la linea Gotica, conobbe, il maggior numero di violenze: tra l'aprile e l'agosto del 1944 le stragi furono 280 e 83 i comuni interessati (tra cui Sant'Anna di Stazzema, Bardine S. Terenzo, Fivizzano, Fosdinovo, Padule di Fucecchio). Le stime più attendibili sono al momento quelle avanzate da Gerhard Schreiber secondo il quale i militari italiani giustiziati nel settembre-ottobre 1943 furono 6.800 tra Balcani, Grecia ed Egeo; 22.720 furono, invece, i partigiani “uccisi nel disprezzo delle disposizioni internazionali” e 9.180 civili i sterminati. Autori di tali esecuzioni collettive non furono soltanto i nazisti delle SS, ma anche i soldati della Wermacht e della Luftwaffe - l'aviazione militare tedesca - nonché le milizie regolari e irregolari del partito fascista inquadrate sotto le insegne della Repubblica sociale italiana. Alla base di tali stragi vi furono sicuramente: il pregiudizio nei confronti degli italiani per reazione psicologica al “tradimento” dell'8 settembre; la decisione del comando supremo della Wermacht e del feldmaresciallo Kesserling (Capo supremo delle forze armate tedesche in Italia) di difendere ad ogni costo il territorio italiano in un momento in cui la guerra all'Est era ormai perduta, il timore di un'attività partigiana che si faceva sempre più efficace e che intimoriva i giovani ed inesperti soldati provenienti direttamente dalla Hitlerjugend; la volontà di ricorrere a dimostrazioni di forza e di superiorità, legittimata con la serie di misure repressive adottate dalle autorità di occupazione.
5 L'esempio più emblematico è senza dubbio l'eccidio di Cefalonia, ma episodi analoghi ebbero a realizzarsi anche nelle altre isole greche: Lero, Coo, Rodi. Con la resa del Governo Badoglio agli anglo-americani, i soldati italiani della 33ª Divisione fanteria "Acqui" si trovarono ad assumere il ruolo di “traditori” agli occhi del co-occupante tedesco. Di fronte alla sua richiesta di disarmo, e senza più conoscere ordini dallo Stato maggiore, le truppe di stanza si trovarono a dover affrontare l'ex alleato, intenzionato a ridurli in prigionia e trasferirli in Germania. La guarnigione comandata dal generale Gandin si oppose ed aprì le ostilità contro quello che ora era diventato il nemico della fazione alleata. Ebbe inizio una sanguinosa battaglia (13-22 settembre) alla quale, in spregio a qualsiasi norma di diritto internazionale militare, l'esercito tedesco vincitore fece seguire il massacro di 4750 soldati e 341 ufficiali. Migliaia di militari furono, invece deportati su navi poi fatte saltare nell'Adriatico.
6 Tra le violenze alleate, emerse nel corso degli ultimi decenni, l'episodio certamente più emblematico è quello delle c.d. “marocchinate”, documentato in letteratura già nel 1957 dall'opera “La ciociara” di Alberto Moravia (e a cui fece seguito il più noto adattamento cinematografico di De Sica). Con tale espressione ci si riferisce all'insieme di stupri e sevizie realizzate nel basso Lazio - all'indomani della battaglia di Montecassino - dalle truppe coloniali franco-marocchine comandate dal generale Juin (c.d. Goumiers). Le vittime furono circa diecimila tra donne, uomini, bambini, anziani e religiosi. All'origine di tali violenze, delle quali era a conoscenza lo stesso generale de Gaulle, vi era un forte sentimento di rancore da parte dei francesi nei confronti degli italiani, considerati colpevoli del “coup de pugnace dans le dos” del giugno 1940. Casi di violenza analoghi si registrano anche in Sicilia, in Toscana ed in altre zone del Meridione.
7 Per un'analisi approfondita della trasformazione dello Stato italiano in senso autoritario successivamente all'affermazione del movimento fascista si rinvia all'ormai classico A. ACQUARONE, L'organizzazione dello Stato totalitario, Torino, 1965.
8 Per maggiori approfondimenti sul tema della transizione italiana si rinvia a U. DE SIERVO, La transizione costituzionale (1943-1946), in Diritto Pubblico, 1996; V. ONIDA, (a cura di), L'ordinamento costituzionale italiano dalla caduta del fascismo all'avvento della Costituzione repubblicana, 1991; A. SACCOMANNO, La transizione italiana: le costituzioni provvisorie, in L. GARLATI, T. VETTOR (a cura di), Il diritto di fronte all'infamia del diritto, cit., 397-414.
Per un quadro sulla riaffermazione dei diritti civili e politici nella neonata democrazia italiana si cfr. P. CARETTI, I diritti fondamentali. Libertà e diritti sociali, Torino, 2005
9 Come giustamente sottolinea Falconieri, la reintegrazione dei cittadini di fede ebraica nel pieno possesso dei diritti si iscrive «a pieno titolo nel percorso di rielaborazione e edificazione di una memoria condivisa che avrebbe dovuto
coinvolgere tanto le élites politiche e intellettuali quanto la popolazione italiana del dopoguerra». Cfr. S. FALCONIERI, Riparare e ricordare la legislazione antiebraica. La reviviscenza dell'istituto della discriminazione (1944-1950) in G. RESTA, V. ZENO-ZENCOVICH, Riparare Risarcire Ricordare. Un dialogo tra storici e giuristi, cit., p. 141.
10 Alto Commissario per le sanzioni contro il fascismo venne nominato il liberale Carlo Sforza. Ad esso si affiancarono il comunista Mauro Scoccimarro (epurazione nella Pubblica Amministrazione), il liberal-democratico Stangone (sequestro delle proprietà fasciste), il democristiano Cingolani (illeciti profitti del regime) e Mario Berlinguer del Partito Demo-laburista (persecuzione dei crimini fascisti). Le quattro commissioni per l'epurazione furono istituite,
invece, con d.lg.lgt. 198/1944 e 238/44. Per l'intera ricostruzione del processo di epurazione in Italia si rinvia ai dettagliati e completi: A. DI GREGORIO, Epurazioni e protezione della democrazia. Esperienze e modelli di “giustizia post-autoritaria”, cit., 2012, pp. 72-92; P. BARILE., U. DE SIERVO, Sanzioni contro il fascismo e il neofascismo, in Novissimo digesto italiano, Torino, 1969, pp. 541-564 e in sede storiografica a H. WOLLER, I conti con il fascismo. L'epurazione in Italia (1943-1946), Bologna, 1997, C. PAVONE, La continuità dello Stato. Istituzioni e uomini, in AA. VV., Italia 1945-1948. Le origini della Repubblica, Torino, 1974 e M. FLORES, L'epurazione, in L'Italia dalla liberazione alla Repubblica. Atti del Convegno internazionale organizzato a Firenze il 26-28 marzo 1976 con il concorso della Regione Toscana, Milano, 1977, pp. 413-467, infine M. SALVATI, Amnistia e amnesia nell'Italia del 1946, in M. FLORES, Storia, verità, giustizia. I crimini del XX secolo, Milano, 2001, pp. 141-161.
11 L'art. 8 del d.lg.lgt. 159/1944 prevedeva all'ultimo comma la decadenza dalla loro carica vitalizia per i senatori che «con i loro voti o atti contribuirono al mantenimento del regime fascista ed a rendere possibile la guerra». Furono deferiti all'Alta Corte di giustizia 394 senatori su 408, di questi 275 furono dichiarati decaduti dalla carica. I senatori sanzionati appellandosi alla Corte di Cassazione (che riconobbe l'assoluto difetto di giurisdizione dell'Alta Corte) riuscirono ad ottenere l'annullamento dei provvedimenti irrogati. Alla fine del processo di epurazione, solo 51 furono dichiarati decaduti. Su questi punti si rinvia ancora a A. DI GREGORIO, Epurazioni e protezione della democrazia. Esperienze e modelli di “giustizia post-autoritaria”, cit., 82.
12 Il giudizio sull'epurazione in Italia da parte della storiografia tradizionale è stato nel complesso negativo. Secondo la terminologia più corrente esso è stato definito una «farsa legale», un processo al termine del quale le élite fasciste mantennero le funzioni pubbliche tradizionali. Tale valutazione, seppur in sostanza non inveritiera, è stata però rivisitata e sfumata negli ultimi anni da magistrati come Canosa e storici come Woller, Minetti e Argenio. A parere di questi ultimi, infatti, gli sforzi per realizzare un'effettiva epurazione vi furono ed anche considerevoli. Ad una prima intensa attività delle commissioni seguì, però, un esito deludente causato dall'adozione dell'amnistia e da un'opera di interpretazione salvifica degli ex fascisti da parte della magistratura. Per un'interpretazione tradizionale del processo di epurazione si rinvia a Z. ALGARDI, Processi ai fascisti, Firenze, 1973, per le più recenti interpretazioni si veda ancora H. WOLLER, I conti con il fascismo. L'epurazione in Italia (1943-1946), cit.
13 La magistratura, come qualsiasi altro potere dello Stato aveva subito nel corso del ventennio una significativa opera di fascistizzazione, che si era compiuta per gradi attraverso il progressivo allontanamento degli elementi togati non allineati al regime. Nel 1925 i giudici ostili alla dittatura furono dispensati dal servizio e l'Associazione generale magistrati sciolta di diritto. I vecchi togati furono rimpiazzati con elementi più favorevoli alla dittatura, mentre i più giovani furono crebbero in un clima che finì per plasmarli completamente alle direttive del duce. Il fascismo creò anche una singolare commistione tra apparato politico-amministrativo dello Stato e funzione giudicante: il Procuratore del Re divenne, infatti, membro delle commissioni per la disposizione del confino politico ai cittadini accusati di antifascismo. Come ha sottolineato Franzinelli, infine, «molti magistrati andarono molto in discesa sul versante dell'autorità, in parte per fanatismo o per senilismo, ma soprattutto per la troppo facile convinzione che la legalità corrispondesse all'autorità: chi aveva a cuore la legalità doveva favorire l'autorità, senza star troppo a sottilizzare la qualità e la legittimazione sostanziale di chi rappresentava l'autorità». La completa fascistizzazione della magistratura trovò conferma in ogni caso nella legge sull'ordinamento giudiziario deliberata nel 1941, con cui si riservò l'accesso ai ruoli requirenti e giudicanti ai cittadini di «razza italiana», di sesso maschile, iscritti al Partito nazionale fascista.
Mirko Della Malva, Diritto e memoria storica nell'esperienza giuridica comparata: il difficile bilanciamento tra tutela della dignità delle vittime, libertà di manifestazione del pensiero, protezione della democrazia, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, Anno Accademico 2013-2014

sabato 30 settembre 2023

Trentin viene visto da tutti come un capo naturale e un punto di riferimento stimolante soprattutto per i giovani

6 settembre 1943: Silvio Trentin accolto trionfalmente a San Donà di Piave. E' in seconda fila e al centro. (Centro studi e ricerca Silvio Trentin, Jesolo - N. della busta/raccoglitore:1 - N. della serie: 46 - Segnature: 10.1.161; 10.1.162; R.G.E. 1247; R.G.E. 1248. Fonte: Graziano Bertola, Op. cit. infra

Dopo la caduta di Mussolini Silvio Trentin decide di rientrare in Italia ed arriva nel Veneto nei primissimi giorni del settembre 1943 con la moglie Beppa e i due figli maschi, mentre la figlia Franca resta in Francia. Il 4 settembre arrivano a Mestre per abbracciare il grande amico Camillo Matter, il giorno dopo sono a Treviso dove Trentin è intervistato dal Gazzettino <94, il giorno 6 a San Donà di Piave dove Silvio è accolto trionfalmente, ma nella seconda visita al paese natale, dopo l'8 settembre, nessuno gli apre più le porte. Da qui in poi scatta per lui la clandestinità, userà nomi diversi, si sposterà spesso e cambierà più volte domicilio: ne consegue, purtroppo, che risulta non facile ricostruire questo periodo perché le fonti biografiche sono, come in quello francese, pochissime.
Anche se la documentazione storica è molto scarsa, quel che è certo è che Trentin viene visto da tutti come un capo naturale e un punto di riferimento stimolante soprattutto per i giovani <95. In questi primissimi giorni in Italia, aderisce al Partito d'Azione e verso il 10 di settembre si ritrova, parole sue, “già praticamente investito della direzione del partito di tutto il Veneto”. <96
A Padova con Concetto Marchesi ed Egidio Meneghetti, rispettivamente rettore e professore dell'università patavina, partecipa alle sedute del Comitato di liberazione nazionale per la regione veneta (CLNRV), ha contatti con alti ufficiali militari dell'esercito per convincerli a distribuire le armi alla popolazione <97, poi è, per un mese circa, ospite a Mira della famiglia di Guglielmo Fortuni <98. Seguono parecchi incontri nel trevigiano per unificare il comando militare dei resistenti e, fra i problemi emersi, c'è anche quello di stabilire se esso, così unificato, può o meno agire indipendentemente dal comando politico, ed alla fine vince la posizione di Meneghetti e Trentin che, per evitare pericolose e anomale guerriglie "private" con altre formazioni combattenti, vogliono un comando militare solo parzialmente “autonomo” <99. Il comandante scelto è un ufficiale della marina militare italiana, di famiglia polacca e nato in Italia, Jerszy Saskulcisky ("col. Sassi") [in effetti si trattava di Jerzi Sas Kulczycki]. Nelle prime settimane in Italia, Trentin rifiutò la richiesta di Lussu di recarsi a Roma a far parte della direzione centrale del CLN <100, sentiva che doveva combattere nel Veneto dove il suo ruolo era insostituibile, tutti avevano infatti bisogno del suo prezioso consiglio e, secondo lo storico della Resistenza nel Veneto, Teodolfo Tessari, l'impulso che lui dava al movimento partigiano era decisivo.
Il comando politico del CLNRV - che aveva la sua sede centrale fino al dicembre 1943 a Padova, e poi a Venezia - era composto da Alessandro Candido per il Partito socialista, da Trentin e Meneghetti <101 per il Partito d'azione, Saggin per il Partito democratico cristiano e Marchesi per il PCI <102.
L'organo ufficiale del Pd'A di Padova, ad uscita piuttosto irregolare, porta un nome storico, "Giustizia e Libertà", ed il 1° novembre 1943 esce con lo scritto di Trentin "Appello ai Veneti guardia avanzata della nazione italiana", un saggio che punta il dito contro il fascismo, la borghesia e la monarchia che sostengono Badoglio ed è, nello stesso tempo, un accorato invito all'azione rivoluzionaria: "Ora, non vi è oggi altro luogo dove possono essere chiamati a raccolta tutti coloro che rivendicano la loro propria appartenenza ad esso (il popolo italiano) che là dove ci si batte o ci si prepara a batterci, con tutte le armi, senza più esclusione di colpi, contro l'invasore straniero ed i bastardi indigeni che, in veste di indicatori, di carcerieri, di sicari, lavorano al suo servizio. La consegna è oggi di darsi alla macchia, di raggrupparsi, di ricominciare insieme nella fraternità di una libera federazione di pionieri della nuova Italia, di armarsi, di battersi e, se occorra di morire". <103
Ai primi di novembre, sotto il falso nome di prof. Ferrari si trasferisce da Mira a Padova in casa di amici, i coniugi Monici, in via del Santo (all'odierno numero civico 123), dove il 19 novembre viene arrestato con il figlio Bruno <104, interrogati per due giorni e poi detenuti alla prigione dei Paolotti. Non avendo trovato nulla a loro carico, agli inizi di dicembre vengono rilasciati, anche forse per i problemi cardiaci di Silvio, che il 6 dicembre viene ricoverato all'ospedale "Elena di Savoia" di Treviso fino all'11 febbraio 1944 quando, a causa dei bombardamenti aerei sulla città, è trasferito in una clinica a Monastier, un comune della stessa provincia <105.
Trentin ha da poco tempo finito di stendere un abbozzo di Costituzione per l'Italia del dopoguerra, modellata su quella francese da lui stesa l'anno precedente <106. Nell'ultimo scritto "Ai lavoratori delle Venezie" - un appello in cui si ribadisce che la rivoluzione socialista e federalista sarà su scala planetaria <107 - li arringa parlando loro a nome del Partito d'azione, alla vigilia della Liberazione, affinché prendano il loro posto di combattimento nella battaglia decisiva.
Dice Trentin: "A quest'effetto il Partito d'azione pone in testa alle sue rivendicazioni rivoluzionarie lo smantellamento dello stato autoritario e monocentrico e la restituzione alla vita sociale di tutte le sue fonti pluralistiche, mediante l'attribuzione alla compagine della nazione di una assise integralmente federalistica". <108
Ma, in questo scritto, forse, il passo ideologicamente più importante sta dove Trentin afferma che con il Partito comunista c'è la stessa solidarietà e la stessa comunanza di temi e vedute che esso aveva con Giustizia e Libertà in Francia, ma, nel contempo, sottolinea anche molto fermamente le distanze ideologiche, facendone addirittura l'elenco. Nel frattempo porta avanti le relazioni iniziate in Francia con De Gaulle per raggiungere un accordo di collaborazione nella Resistenza fra Francia e Italia. <109
L'11 marzo 1944 Camillo Matter, tornato il giorno prima da Roma dov'era stato a chiedere fondi per la resistenza veneta, va a trovarlo in clinica e durante la conversazione Trentin ha una grave crisi cardiaca. Silvio morì il giorno dopo, con al capezzale la moglie Beppa e il figlio Giorgio <110. Prima di morire rifiutò i conforti religiosi. Fu sepolto due giorni dopo a San Donà di Piave, di sera, con un corteo funebre composto dalla moglie Beppa, i figli Giorgio e Bruno e l'amico Camillo Matter. Non c'era nessun altro. La polizia fascista, in un'atmosfera di sospetto, sorvegliava e, come da ordini ricevuti, non fece passare il carretto con la bara per il centro di San Donà. <111
[NOTE]
94 IL GAZZETTINO, Visita all'on. Trentin tornato in Italia dopo vent'anni, Venezia, 7 settembre 1943, p.2.
95 TRENTIN, Antifascismo e rivoluzione, p. XXXI.
96 DE LUNA G., L'esperienza di Silvio Trentin nel Partito d'azione, in AA.VV., Silvio Trentin e la Francia, p. 38.
97 Ivi, p. 41.
98 VERRI, I Trentin a Mira nella Resistenza, p. 12.
99 TESSARI T., Sulle origini della resistenza militare nel Veneto. Settembre 1943-aprile 1944, Neri Pozza, Venezia, 1959, p. 17.
100 TESSARI T., Sulle origini della resistenza militare nel Veneto. Settembre 1943-aprile 1944, Neri Pozza, Venezia, 1959, p. 17.
101 VERRI, I Trentin a Mira nella Resistenza, p. 13.
102 ROSENGARTEN, Silvio Trentin dall'interventismo alla resistenza, pp. 204-206.
103 TRENTIN, Appello ai veneti, guardia avanzata della nazione italiana, a cura di Paladini G., Antifascismo e rivoluzione, pp. 532-533.
104 FELTRIN FRANCESCO, Nuovi documenti su Silvio Trentin, CLEUP, Padova, 2000, pp. 7-84. L'autore espone i particolari dell'arresto e di tutto il periodo di detenzione dal 19 novembre al 2 dicembre 1943, sulla base di documenti rinvenuti presso l'Archivio di Stato di Padova.
105 VERRI, I Trentin a Mira nella Resistenza, p. 14.
106 Centro studi Trentin, Jesolo, Abbozzo di un piano tendente a delineare la figura costituzionale dell'Italia, Busta 1C, Fasc.3.
107 VERRI, I Trentin a Mira nella Resistenza, p. 37.
108 TRENTIN, Ai lavoratori delle Venezie, a cura di Paladini G., Antifascismo e rivoluzione, pp. 535-538.
109 VERRI, I Trentin a Mira nella Resistenza, p.40.
110 Ivi, pp. 134-136.
111 ROSENGARTEN, Silvio Trentin dall'interventismo alla resistenza, pp. 211-213.
Graziano Bertola, Silvio Trentin ed i Patti Lateranensi, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2013-2014
 
Quando Silvio Trentin <1 rientrò in Italia agli inizi di settembre del 1943 il Partito d’Azione veneto aveva quasi un anno di vita <2, essendo stato costituito nell’ottobre dell’anno precedente a Treviso nello studio dell’avvocato Leopoldo Ramanzini <3, con la presenza dei maggiori esponenti veneti (ad eccezione di Egidio Meneghetti) <4, e aveva tenuto una seconda riunione collegiale il 23 agosto, sempre del 1943, a Venezia in casa di Ranieri Da Mosto <5, con la partecipazione di rappresentanti di tutte le province venete <6. Fu costituita in quell’occasione la prima direzione regionale del partito: ne era segretario il veneziano Agostino Zanon Dal Bo <7, affiancato dall’udinese Fermo Solari <8, dal vicentino Mario Dal Pra <9, , dal padovano Giuseppe Zwirner <10, dai veneziani Luigi Martignoni <11 e Armando Gavagnin <12, dal trevigiano Bruno Visentini <13. Sul rientro di Trentin molto è stato scritto e non ritengo il caso di ritornarci <14. Quello che voglio evidenziare non è tanto il ruolo di Trentin, quanto il rapporto tra il Partito d’Azione veneto e il suo capo carismatico, rapporto durato solamente pochi mesi per la prematura morte del sandonatese. La prima riunione di azionisti veneti con la presenza di Silvio Trentin si tenne a Padova agli inizi di ottobre 1943 nell’istituto di filosofia del diritto, dove insegnava Norberto Bobbio <15. Fu affidata la segreteria regionale a Leopoldo Ramanzini <16. La parte più rilevante dell’incontro fu costituita però dall’intervento di Trentin, che espose alcune sue idee, che il resoconto di Agostino Zanon Dal Bo non esplicita (egli si limita ad annotare: «Trentin pose la proposta di dare un carattere “rivoluzionario” (era la sua espressione), al programma e all’azione del partito» <17), ma che si può supporre fossero quelle maturate nel soggiorno francese e che si possono ritrovare, tra l’altro, nei suoi interventi sul giornale «Libérer et Fédérer» <18, ma anche nei testi manoscritti da lui portati dalla Francia: "Stato Nazione Federalismo" e "Libérer et fédérer", che furono letti dagli azionisti veneti e suscitarono ampie discussioni. Ricorda Mario Dal Pra che «A Padova […] il suo manoscritto [di "Stato Nazione Federalismo"] fu oggetto di vivaci discussioni fra i compagni di fede; destò molto interesse e si pensò di stamparlo. Trentin allora lo affidò a me» <19.
Trentin, rendendosi probabilmente conto dell’impatto creato dalle sue idee, non propose, nel corso della riunione, come scrive Zanon Dal Bo, una discussione immediata su di esse, ma la nomina di un gruppo di studio, formato da Bobbio, Dal Pra e Zanon Dal Bo, per approfondirle. Purtroppo, come racconta il veneziano, esso non riuscì a lavorare, perché Mario Dal Pra fu costretto poco tempo dopo a lasciare precipitosamente Vicenza e il Veneto, per sfuggire all’arresto, rifugiandosi a Milano <20, e Zanon Dal Bo dovette allontanarsi da Venezia, riparando a Vittorio Veneto, sua città natale; non va dimenticato poi che Trentin fu arrestato il 19 novembre e Bobbio il 6 dicembre.
[NOTE]
1 Su Silvio Trentin (1885-1944) la biografia più completa è F. Rosengarten, Silvio Trentin dall’interventismo alla Resistenza, Feltrinelli, Milano 1980. La bibliografia su Trentin è troppo ampia per presumere di offrirne una sintesi. Mi limito a P. Arrighi, Silvio Trentin. Un Européen en Résistence (1919-1943), Loubatières, Porter-sur-Garonne 2007; M. Guerrato, Silvio Trentin, un democratico all’opposizione, Vangelista, Milano 1981; G. Paladini, Silvio Trentin dalla democrazia radicale al socialismo federalista (1924-1944), «Archivio veneto», CXVI, 1981, pp. 59-83; Id., “Figlio del Veneto”. Colloqui parigini su Trentin fra esilio e Resistenza, «Venetica», 3, 1985, pp. 77-92; V. Ronchi, Silvio Trentin, ricordi e pensieri 1911-1926, Canova, Treviso 1975; C. Verri, Guerra e libertà. Silvio Trentin e l’antifascismo italiano (1936-1939), XL edizioni, Roma 2011, oltre agli interventi di Norberto Bobbio: Ricordo di Silvo Trentin. Commemorazione nel decennale della liberazione, Artigrafiche Sorteni, Venezia 1955, poi come Silvio Trentin, «Il Ponte», X, 1954, pp. 702-713, poi in Italia civile. Ritratti e testimonianze, Passigli, Firenze 1986, pp. 249-266; Commemorazione di Silvio Trentin, in Atti del Convegno di studi su Silvio Trentin (Jesolo, 20 aprile 1975), Neri Pozza, Vicenza 1976, pp. 109-123. Per l’elenco dei suoi scritti rimando a S. Trentin, Scritti inediti. Testimonianze e studi, Guanda, Parma 1972, pp. 321-333.
2 Sul Partito d’azione veneto rimando a G.A. Cisotto, “Solo uomini di buona volontà”. Il Partito d’azione veneto (1942-1947), Viella, Roma 2014.
3 Leopoldo Ramanzini (1903-1987), avvocato trevigiano, nel 1945 fu nominato dal CLN prefetto di Treviso. Su di lui si vedano R. Binotto, Personaggi illustri della Marca Trevigiana. Dizionario bio-bibliografico dalle origini al 1996, Cassamarca, Treviso 1996, p. 468, e l’affettuoso ricordo di E. Opocher, Ramanzini, una vita per la libertà, «Lettera ai compagni,» XIX (7-10), 1987, p. 12.
4 Erano presenti Antonio Giuriolo da Vicenza, Luigi Martignoni e Agostino Zanon Dal Bo da Venezia, Flavio Dalle Mule da Belluno, Fermo Solari e Luigi Cosattini da Udine, Norberto Bobbio e Walter Dolcini da Padova, Leopoldo Ramanzini, Bruno Visentini, Enrico Opocher, Elio Gallina, Romolo Pellizzari da Treviso (Cisotto, “Solo uomini di buona volontà”, cit., pp. 16-18, al quale rimando anche per i riferimenti biobibliografici sui singoli esponenti). Il nazionale era rappresentato da Ugo La Malfa da Milano e da Sergio Fenoaltea da Roma (G. De Luna, Storia del Partito d’Azione 1942-1947, Editori Riuniti, Roma 1997, p. 34). Si vedano pure L. Ramanzini, I partiti politici nel Trevigiano durante il 1943, in Archivio dell’Istituto veneto per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea (d’ora in avanti: Aivsrec), b. 13. Relazioni al Convegno di studi sulle origini della Resistenza nel Veneto. Padova, maggio 1955; poi in R. Biondo, M. Borghi (a cura di), Giustizia e Libertà e Partito d’Azione. A Venezia e dintorni, Edizioni Nuova Dimensione, FIAP, Iveser, Portogruaro 2005, pp. 174-175; B. Visentini, Ugo La Malfa. Commemorazione tenuta a Treviso il 21 maggio 1979, s.n., Milano 1980, pp. 5-6; A. Zanon Dal Bo, Il Partito d’azione a Venezia dalle origini all’inizio della resistenza armata, in Il Partito d’Azione dalle origini all’inizio della Resistenza armata, Archivio trimestrale, Roma 1985, p. 741.
5 Ranieri Da Mosto, nato a Venezia nel 1924, è stato giornalista e responsabile della redazione veneziana della RAI (1943-1945. Venezia nella Resistenza. Testimonianze, a cura di G. Turcato, A. Zanon Dal Bo, Comune di Venezia, Venezia 1976, p. 551).
6 Parteciparono alla riunione: per Padova Ugo Morin, Giuseppe Zwirner Francesco Cingano, Egidio Meneghetti; per Treviso Bruno Visentini, Enrico Opocher, Leopoldo Ramanzini; per Udine Fermo Solari, Carlo Comessatti, Luciano Comessatti, Alberto Cosattini; per Vicenza Antonio Giuriolo, Mario Dal Pra, Licisco Magagnato; per Belluno Flavio Dalle Mule, Giuseppe Gerardis; per Rovigo Lino Rizzieri, Mario Degan; per Verona Giovanni Dean, Giovanni Zorzi. Venezia era «naturalmente molto rappresentata», ma Zanon Dal Bo non indica i nomi, salvo il suo e quello di Ranieri Da Mosto. Scrive sempre Zanon Dal Bo: «La riunione si concluse dando al sottoscritto l’incarico di Segretario regionale affiancato da alcuni compagni (un incarico che non sarebbe durato molto perché l’8 settembre rese problematica la mia stessa permanenza a Venezia)» (Zanon Dal Bo, Il Partito d’azione a Venezia, cit., pp. 744-745). Si veda Cisotto, “Solo uomini di buona volontà”, cit., pp. 22-23, con bio-bibliografia dei partecipanti.
7 Agostino Zanon Dal Bo (1902-1993), nato a Vittorio Veneto, fu insegnante di lettere a Venezia dal 1934 nel liceo Foscarini. Si vedano 1943-1945. Venezia nella Resistenza, cit., pp. 559-560; Zanon Dal Bo Agostino, in Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza, VI, La Pietra Milano, 1989, p. 447; M. Isnenghi, Allievi e maestri, in Memoria resistente. La lotta partigiana a Venezia e provincia nel ricordo dei protagonisti, a cura di G. Albanese, M. Borghi, Nuova dimensione, Iveser, Portogruaro 2005, pp. 109-121.
8 Fermo Solari (1900-1988), nato a Prato Carnico (Udine), imprenditore, fu esponente di primo piano del Partito d’azione e della Resistenza. Successivamente aderì al Partito socialista, per il quale fu eletto in Parlamento. Su di lui rimando a N. Del Bianco, Fermo Solari, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1991; Fermo Solari, dirigente della resistenza, uomo politico, industriale friulano, a cura di M. Tosoni, In uaite, Udine 1988; C. Rinaldi, I deputati del Friuli-Venezia Giulia a Montecitorio dal 1919 alla Costituente, Regione autonoma Friuli Venezia Giulia, Trieste 1983, pp. 649-654; M. Lizzero, Fermo Solari “Somma”, «Storia contemporanea in Friuli», XVIII (19), 1988, pp. 265-270; T. Sguazzero, Le ragioni della sinistra nella prospettiva politica di Fermo Solari. Dalla Liberazione alla crisi politica degli anni Settanta, Storia contemporanea in Friuli», XXV (26), 1995, pp. 27-62; M Robiony, Solari Fermo, in Nuovo Liruti. Dizionario biografico dei friulani, 3. L’età contemporanea, a cura di C. Scalon, C. Griggio, G. Bergamini, Forum, Udine 2011, cit., pp. 2187-2190; M. Puppini, Solari, Fermo, in Dizionario della Resistenza, II. Luoghi, formazioni, protagonisti, a cura di E. Collotti, R. Sandri, F. Sessi, Einaudi, Torino 2000, pp. 645-646. Di lui ricordo in particolare L’armonia discutibile della Resistenza. Confronto tra generazioni a Udine, estate autunno 1978, La Pietra, Milano 1979.
9 Mario Dal Pra (1914-1992), vicentino, fu filosofo e storico della filosofia. Insegnò al liceo classico di Vicenza, dove ebbe come allievi Luigi Meneghello, Mario Mirri, Enrico Melen e altri giovani poi divenuti azionisti. Fuggito a Milano alla fine del 1943 per sottrarsi all’arresto, divenne uno dei dirigenti del CLNAI. Dopo la guerra rimase a Milano, dove passò ad insegnare all’Università statale. Su di lui rimando a M. Dal Pra, F. Minazzi, Ragione e storia, Rusconi, Milano 1992; F. Minazzi, Mario Dal Pra filosofo e partigiano. Sulla genesi etico-culturale di una scelta civile antifascista, «Odeo olimpico», XXV (2002-2004), Vicenza 2008, pp. 233-349; D. Borso, Uno storico militante, in M. Dal Pra, La guerra partigiana in Italia. Settembre 1943-maggio 1944, a cura di D. Borso, Giunti, Firenze 2009, pp. 21-33.
10 Giuseppe Zwirner (1904-1979), professore di matematica all’università di Padova, fu vice sindaco nell’amministrazione patavina insediata dal CLN nel 1945.
11 Luigi Martignoni (1890-1965) come ufficiale del genio navale fece la guerra di Libia e la Prima guerra mondiale, dimettendosi nel 1920. Aderì al Pd’A nel 1942; fece parte del comitato interprovinciale di Venezia dopo il 25 luglio 1943; il 14 settembre il comando tedesco di Venezia ne ordinava l’arresto e fuggì a Roma sotto falso nome; lì «si dedicò allo studio dei problemi del dopoguerra ed alla organizzazione della resistenza locale». Il 27 dicembre 1943 fu arrestato e rinchiuso nel carcere di via Tasso, da dove riuscì a fuggire il 4 gennaio dell’anno successivo (si veda [Ing. Martignoni], Roma-Via Tasso 155. Storia di una evasione, in Aivsrec, b. 13); fu membro del Comando militare regionale veneto dall’agosto 1944 fino al 7 gennaio 1945, quando fu arrestato. Dopo la guerra fu in Consiglio comunale a Venezia nelle liste del PSI.
12 Armando Gavagnin (1905-1978) fu arrestato nel 1928 per attività antifascista. Nel dopoguerra fu direttore de «Il gazzettino», consigliere comunale dal 1946 e più volte assessore del comune di Venezia. Di lui ricordo Vent’anni di resistenza al fascismo, Ricordi e testimonianze, Einaudi, Torino 1957.
13 Bruno Visentini (1914-1995), di Treviso, avvocato e docente universitario, fu esponente politico prima azionista e poi 2005; Per Bruno Visentini, a cura di C. Toria, R. Zorzi, Venezia, Marsilio 2001; F. Cingano, Bruno Visentini, «Belfagor», 2, 1999, pp. 194-202; Il gran borghese in Parlamento. Ricordo di Bruno Visentini, Fondazione della Camera dei deputati, Roma 2004.
14 Sul rientro di Trentin Rosengarten, Silvio Trentin, cit., pp. 200-203; Zanon Dal Bo, Il Partito d’azione a Venezia, cit., pp. 745-746; ora anche C. Verri (a cura di), I Trentin a Mira nella Resistenza, ANPI, Sezione di Mirano (Venezia), Mirano 2013. Un giornalista de «Il gazzettino» di Venezia si affrettava ad incontrarlo a Treviso: Visita all’on. Trentin tornato in Italia dopo vent’anni, «Il gazzettino», 7 settembre 1943.
15 Norberto Bobbio (1909-2004) era arrivato a Padova come docente di filosofia del diritto alla fine del 1940. Sul periodo padovano del filosofo torinese rimando a Norberto Bobbio. Gli anni padovani, a cura di B. Pastore, G. Zaccaria, Padova University Press, Padova 2010 e in particolare D. Fiorot, Il mio ricordo di Norberto Bobbio negli anni 1943-46, pp. 39-52 e A. Ventura, Bobbio nella Resistenza nel Veneto, pp. 27-38; D. Fiorot, Norberto Bobbio e l’Università di Padova: 1940-48, «Foedus», 8, 2004, pp. 3-11.
16 Erano presenti Silvio Trentin, Agostino Zanon Dal Bo, Norberto Bobbio, Mario Dal Pra, Leopoldo Ramanzini, Enrico Opocher ed altri, di cui non è riportato il nome (Zanon Dal Bo, Il Partito d’azione a Venezia, cit., p. 747).
17 Ibidem.
18 Si vedano ad esempio Les 3 problèmes fondamentaux de la liberté dans le monde de demain, s.d. [1942]; L’Italie à la veille de l’effondrement du fascisme, febbraio-marzo 1943; Vive la révolution italienne!, agosto 1943 (Fac similé de Libérer & Fédérer. 14 Juillet 1942-Avril-Mai 1944, Centre d’Etudes et de Documentation sur l’Emigration Italienne, Paris 1985).
19 M. Dal Pra, Prefazione, in S. Trentin, Stato - Nazione - Federalismo, La Fiaccola, Milano 1945, p. VIII.
20 Nel novembre del 1943 però Dal Pra dovette fuggire da Vicenza perché ricercato dalla polizia e si trasferì a Milano (Dal Pra, Minazzi, Ragione e storia, cit., p. 122). A Milano, a fianco di Valiani e Lombardi, con il nome di “Procopio” fu responsabile della stampa del Pd’A fino al 25 aprile 1945.
Gianni A. Cisotto, Il Partito d'Azione Veneto e Silvio Trentin in (a cura di) Fulvio Cortese, Liberare e federare. L’eredità intellettuale di Silvio Trentin, Firenze University Press, 2016