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venerdì 23 dicembre 2022

Il carattere dell’attività garibaldina in Valtellina è essenzialmente militante

Cataeggio, Frazione del Comune di Val Masino (SO). Fonte: Paesi di Valtellina e Valchiavenna

Il 10 giugno 1944 la Delegazione per la Lombardia del Comando Generale delle Brigate d’assalto Garibaldi inviava al Comando Generale un rapporto in cui esponeva l’attività svolta nei due mesi precedenti. A fine aprile “i risultati - si legge nel rapporto - furono scarsi, né poteva essere altrimenti, […] in quanto perdurava ancora nelle differenti federazioni una incomprensione ed una sottovalutazione del lavoro militare che ostacolava e rendeva difficile non solo lo sviluppo del lavoro stesso, ma anche la presa di collegamento con le forze esistenti” <1. Nei centri lombardi le forze gappiste erano quasi inesistenti e le poche formazioni partigiane in attività erano disperse e isolate nelle province. La relazione arieggiava un testo assai più duro scritto in quegli stessi giorni dalla sezione organizzazione ed effettivi del Comando generale e forse mai spedito. In esso si legge che “in Lombardia esiste una sola brigata Garibaldi, 3° Lombardia, ma praticamente inesistente perché è stata disorganizzata dai colpi della polizia […]. Cosa volete che sia una brigata inesistente di fronte alle nove del Piemonte, sei dell’Emilia, quattro del Veneto e quattro delle Marche? Come vedete la vostra regione è alla coda del movimento partigiano in Italia e questo ritardo è tanto più grave se si considera la forza organizzativa del Partito nella regione […], la combattività della classe operaia dimostrata in vari scioperi generali, l’odio antitedesco e antifascista della popolazione e questa constatazione è un disonore per voi. Dovete al più presto mettere fine a questo stato di cose […]. In ognuna delle vostre vallate: Brescia, Sondrio, Pavia, dove avete già dei distaccamenti organizzati, nel Bergamasco, nel Varesotto, dove certamente ci sono dei distaccamenti partigiani di cui voi non sapete nemmeno l’esistenza, in ognuna di queste valli dovete organizzare una brigata Garibaldi” <2.
Difficile essere più chiari, ma la durezza del tono era dettata dall’urgenza del momento: Roma era appena stata liberata e le truppe di Eisenhower avevano messo piede in Francia, col grandioso e terribile sbarco in Normandia; a est l’esercito sovietico si stava concentrando per lanciare un’offensiva che stringerà in una morsa le truppe tedesche. La liberazione sembrava ottimisticamente vicina e il movimento partigiano non poteva farsi trovare impreparato. “Ogni vallata, ogni montagna, ogni città e villaggio deve avere il suo gruppo armato di patrioti che disturbi con attacchi continui il nemico” <3.
[...] I due pungoli dei comandi garibaldini lombardi furono dunque il senso della inadeguatezza del movimento partigiano in Lombardia e la necessità di prepararsi per la liberazione, che non doveva essere lontana. “Il 6 giugno - ricorda Nicola [Dionisio Gambaruto] - gli alleati erano sbarcati in Normandia e noi della Resistenza avevamo ricevuto l’ordine di entrare in azione dappertutto per allargare il più possibile il conflitto e per disturbare la marcia delle truppe fasciste e tedesche” <10. I partigiani garibaldini si fecero subito comandanti di distaccamento e si diedero ad organizzare le formazioni partigiane dall’interno. Era il lavoro militare, la mancanza del quale aveva pregiudicato i successi della Resistenza lombarda nella passata primavera. A luglio, nella loro relazione per la federazione e il comando militare, Ario e Silvio ricordarono che “furono scelti i migliori elementi e preparati per coprire posti di comando […]. Il distaccamento fu così organizzato: nucleo - 6 uomini compreso il capo nucleo; squadra su 2 nuclei, più il Capo Squadra; Distaccamento - su 2 squadre, più il Comandante, il Commissario, il Vice Comandante più alcuni elementi per servizi vari” <11. Furono costituite sei basi di appoggio, che dovevano servire da magazzino e da recapito e furono imbastiti i collegamenti con la federazione, il comando militare, il Fronte della Gioventù, il comando unico. I partigiani disponevano poi di due uffici di intendenza collegati con Milano, di un ufficio informazioni e di un medico per il servizio sanitario <12.
Il 25 maggio, in risposta al bando di Mussolini per l’arruolamento nell’esercito di Salò, fu costituita la 40° Brigata Matteotti, divisa in due zone: il Fronte nord, sul lato destro della Valtellina fino a Sondrio, e il Fronte sud, dalla Val Gerola all’alta Valsassina. A capo del primo fu posto Nicola, il secondo fu affidato ad Aldrovandi. Da questi due tronchi nasceranno, nel luglio del 1944 le due brigate Garibaldi della Valtellina: la 40° Matteotti e la 55° Rosselli. Gli effettivi al 10 luglio ammontavano già a cinquecento uomini, per lo più giovani mandati dal Fronte della Gioventù e provenienti da Lecco e da Milano. Ma la loro preparazione lasciava molto a desiderare. Scrivevano Ario e Silvio: "Non andiamo per nulla bene […]. Il 90 % dei giovani del F.d.G. inviati o si sono sbandati o sono ritornati a casa e molti sono stati arrestati perché destavano sospetto in gruppo o hanno parlato lungo il viaggio della loro meta. La maggioranza sono arrivati scalzi e credevano di trovare l’Eden. Il compito principale del F.d.G. è di prepararli a sopportare le dure fatiche della montagna e di tutto il nostro lavoro. Bisogna che prima di partire sappiano che il cibo è scarsissimo che le armi non sono a disposizione come in una caserma, ma che si devono prendere al nemico e che un fucile è già un’arma preziosa per il partigiano" <13.
Il carattere dell’attività garibaldina in Valtellina è essenzialmente militante: il suo obiettivo è il potenziamento del movimento partigiano dall’interno, la sua espansione e lo sviluppo dell’organizzazione. Ma il momento  dell’organizzazione è congiunto all’azione bellica e ne è per così dire il prolungamento: “la migliore organizzazione militare sorge e si tempra alla prova del fuoco”, scrivono Ario e Silvio in maiuscolo nella loro relazione e sono parole che torneranno nelle carte dei comandi partigiani <14.
A fine agosto Ario, diventato nel frattempo comandante in pectore del Raggruppamento della 40°, 55° e 52°, le tre brigate attive tra la Valsassina e Sondrio, scriverà alle compagne partigiane parole inequivocabili: “Alludiamo alla necessità, in questo momento, di bolscevizzare la nostra azione mediante una lotta serrata aperta finale. Nessuna esitazione, nessuna giustificazione, tutte le nostre forze devono essere in linea di combattimento, dobbiamo imitare i gloriosi compagni e compagne dell’Unione Sovietica che hanno saputo dare alla guerra sostenuta dall’esercito rosso un’impronta bolscevica, unica e vera ragione per cui gli eserciti nazifascisti sono ripetutamente battuti […]. Avanti dunque con coraggio, organizzate squadre di gappiste, di sappiste, organizzate distaccamenti completi femminili che agiranno al nostro fianco valorosamente” <15. Dalla lotta nascono i quadri: “non fatemi più sapere (perché purtroppo lo so già) che vi mancano i compagni capaci - così Ario ai compagni della Brigata -. I compagni capaci siete voi, poiché altri non ve ne sono e non ve ne saranno, dato il grandioso compito del Partito nella società democratica immediatamente futura. Sdoppiatevi, moltiplicatevi e mettete avanti negli sforzi con coraggio giovani e poi giovani compagni che, dietro la vostra guida, daranno certamente buoni risultati. Non sono capaci? Diventeranno capaci in misura degli aiuti che voi saprete apportare loro. E solo voi sarete responsabili se non funzioneranno. Così l’avanzamento tra i migliori patrioti. La nostra lotta è la nostra Università e i quadri devono uscire da questo consesso patriottico così come in tutte le rivoluzioni sociali i quadri escono dal popolo” <16. Coraggio dunque: fare e organizzare, lottare e nella lotta forgiare le formazioni.
Certo, il lavoro organizzativo non diede proprio i risultati che i dirigenti di Lecco e di Milano desideravano. Dal giugno al novembre del 1944 uno stillicidio di comunicazioni della Delegazione del Comando generale per la Lombardia al Comando della 40° brigata Matteotti e della 55° Rosselli - cioè a Nicola e Al [Vando Aldrovandi] - e poi al Comando di Raggruppamento delle brigate operanti in Valtellina, lamentava l’evanescenza del Comando di brigata, l’insufficienza dei collegamenti interni, la necessità di costituire, nel mese di agosto, un Comando di divisione, la disorganizzazione della 55° brigata e la mancanza, ovunque, di commissari politici <17.
Il 14 agosto 1944, Nicola rispose piccato in una lettera alla Delegazione: “Questo Comando vorrebbe sapere quali elementi specifici di organizzazione ci rimproverate. Sono sempre stati nostri criteri impedire la burocratizzazione dei Comandi per tenersi il più possibile vicino agli uomini e spingerli continuamente sulla via dell’azione. Quando è stato possibile non abbiamo esitato a lasciare le circolari per adoperare il mitra” <18 e spiegò che il lavoro delle varie Sezioni Operazioni, Intendenza e Sanità poteva essere svolto anche solo da un Capo Sezione, con l’ausilio tutt’al più di un vice. “Tenete però conto di vari elementi - proseguiva Nicola - che i capaci e in fede sono pochi; che non essendo molto numerosa la Brigata, alcuni servizi possono essere assunti dallo stesso individuo senza tema di accumulazione dannosa di lavoro; che abbiamo cercato di snellire i servizi per portare tutti gli elementi idonei alla lotta viva e reale contro l’odiato nemico” <19.
Insomma, per riprendere il filo della nostra argomentazione, le deficienze organizzative del movimento garibaldino non ne inficiarono l’ispirazione di fondo: quella a svilupparsi dall’interno e ad accrescersi per mezzo di un’incessante attività di combattimento. L’organizzazione interna non veniva prima dell’azione, ma dopo: la parola d’ordine era bolscevizzare, lasciare le circolari per il mitra. Accanto al lavoro militare, i comandanti garibaldini comunisti erano consapevoli della necessità di un alacre lavoro politico. “Non essendoci a disposizione un numero di compagni sufficiente, pensammo di reclutare tra i simpatizzanti migliori alcuni elementi per farli entrare nel Partito” così Ario e Silvio, che organizzarono i nuclei di partito nei distaccamenti della 40° Brigata. “Molte riunioni furono fatte per spiegare o comunque chiarire i compiti militari e politici dei Distaccamenti e sviluppammo tutto il programma del CLN. Furono fatte riunioni dei nuclei di partito e spiegammo i loro compiti e le funzioni dei compagni nelle formazioni. Segnalammo alla federazione l’urgente necessità di avere la nostra stampa nelle formazioni” <20.
In un documento senza data, ma collocabile tra il giugno e il luglio del 1944, il vice Commissario di Brigata Gino esponeva ai Commissari di Distaccamento il punto di vista del comando partigiano in tema di propaganda politica. “La propaganda, che dovrebbe dare una coscienza politica al combattente per la libertà, è stata un po’ trascurata finora in quanto gli avvenimenti hanno impedito la propulsione di essa. Da oggi i Commissari politici incaricati a detta mansione, dovranno svolgere un’intensa azione di propaganda al fine di rendere comprensibile a tutti i combattenti il movente della nostra lotta contro l’invasore tedesco e il traditore fascista”. Parlando del CLN, che Gino definisce il nuovo governo degli italiani, il vice commissario si raccomanda: “i combattenti devono anche conoscerlo in tutti i suoi atti e in tutto il suo valore affinché essi vedano sempre che il loro interesse e l’interesse dei lavoratori è salvaguardato ed è il movente principale della lotta di liberazione nazionale” <21.
Tuttavia, il lavoro politico incontrò grosse difficoltà dovute soprattutto alla cronica mancanza di agit prop: “questo comando non è tanto contento in quanto, mancando dei compagni capaci, il lavoro dei nuclei non rende come dovrebbe; anche i Commissari non sono all’altezza dei loro compiti. Pur tuttavia, ora si inizierà una serie di circolari che si crede colmeranno queste lacune, poiché stiamo allestendo una segreteria della Brigata. Si sta preparando il giornale della Brigata e si è certi che se ne trarranno buoni profitti” <22. Nei mesi estivi, comunque, i progressi sul fronte politico furono di scarso rilievo e in autunno si dovette ricominciare daccapo. Il 14 ottobre 1944, in una riunione dei compagni del Comando di Divisione fu stigmatizzata la poca coscienza politica dei nuovi partigiani, ma in ottemperanza alle direttive del Partito Comunista si decise di reclutare tutti i simpatizzanti, escludendo solo gli elementi di moralità molto dubbia <23. Furono nominati i responsabili di partito per ogni distaccamento, battaglione e brigata; fu deciso che i compagni dei distaccamenti si sarebbero riuniti due volte alla settimana, che con la stessa frequenza i responsabili dei distaccamenti avrebbero incontrato i loro omologhi dei battaglioni e che una volta alla settimana si sarebbero riuniti tutti i compagni della brigata <24. Nei mesi di ottobre e novembre, la propaganda politica cominciò a dare i suoi frutti: “In questa Brigata si è dato impulso al lavoro politico con riunioni e conferenze fatte ai Patrioti. I commissari svolgono bene il loro lavoro. […] le riunioni politiche sono state oggi esplicate dai Commissari nei distaccamenti IV e X discutendo: in uno della disciplina nelle formazioni partigiane e nell’altro leggendo e commentando il fascicolo “La nostra lotta”. Particolare attenzione fu dedicata ai più giovani: “A Cataeggio sono stati adunati tutti i giovani del Paese dai 16 anni in avanti ed è stata loro spiegata l’organizzazione del Fronte della Gioventù. Alla richiesta fatta loro di organizzarsi tutti hanno aderito” e alle donne: “è stato formato a Cataeggio un Gruppo di Difesa della donna composto da 35 donne. Anche a Filorera 15 donne si sono organizzate. A queste donne è stata tenuta una conferenza dove veniva loro spiegata l’utilità e la necessità di questa organizzazione” <25.
[NOTE]
1 AAVV, Le brigate Garibaldi nella Resistenza: documenti, Milano, Feltrinelli, 1979, vol. II, pag 23
2 Ivi, pag 30.
3 Ivi, pag. 28
10 Marco Fini e Franco Giannantoni, op. cit., vol II, pag . 56.
11 Relazione per la F. e il CM di Ario e Silvio del 10 luglio 1944, Issrec, Fondo Gramsci, b1 f6.
12 Cfr Ivi.
13 Ivi
14 Ivi.
15 AAVV, Le Brigate Garibaldi, op. cit., vol. II, pagg 279-280.
16 Comando 40° Brigata d’Assalto Garibaldi Matteotti ai Compagni della Brigata, firmato Ario, 21/7, Issrec, Fondo Gramsci, b1 f6.
17 Cfr Issrec, Fondo CVL INSMLI.
18 Comando 40° Brigata d’Assalto Matteotti alla Delegazione, firmato Nicola, 14/8/1944, Issrec, Fondo Gramsci, b1 f6.
19 Ivi.
20 Relazione per la F. e il CM di Ario e Silvio del 10 luglio 1944, cit.
21 40° Brigata d’assalto Matteotti ai commissari di Distaccamento, Oggetto: Lavoro di propaganda politica da svolgere, firmato Gino, s.d., Issrec, Fondo Cvl Insmli, b1 f5. L’intestazione reca tra parentesi la scritta “Comando Fronte nord”. Il 23 luglio 1944 i due fronti della 40° Matteotti si trasformarono reciprocamente nella 40° Brigata Matteotti e nella 55° Brigata Rosselli. Da qui la nostra attribuzione del testo al giugno-luglio del 1944.
22 Comando 40° Brigata d’Assalto Garibaldi Matteotti per la Delegazione Comando e il Comando Regionale unificato Lombardo, 20/7, Issrec, Fondo Gramsci, b1 f6. Il giornale della 40° Matteotti
23 Il nucleo di Partito del Comando di Divisione alla Federazione del PCI, 14/10/1944, Issrec, Fondo Gramsci, b1 f5.
24 Ivi
25 Relazione politica al Commissario di Raggruppamento, firmato Nicola e Primo, 24/11/44, Issrec, Fondo Gramsci, b1 f5.
Gian Paolo Ghirardini, Società e Resistenza in Valtellina, Tesi di laurea, Università degli Studi di Bologna, Anno accademico 2007/2008

venerdì 16 dicembre 2022

Romita e soprattutto De Gasperi iniziano quella riconversione in senso democratico dell’immagine pubblica del prefetto come pilastro dell’unità statale e del ripristino della legalità


Luigi Einaudi fin dal 1944 aveva lanciato il suo durissimo atto d’accusa verso il prefetto, con il celebre grido: "Il delenda Carthago della democrazia liberale è: Via il prefetto! Via con tutti i suoi uffici e le sue dipendenze!" <619
Aggiungendo la sua visione (condivisa da antifascisti di diverso orientamento) di radicale antitesi tra figura prefettizia e democrazia: "Finché esisterà in Italia il prefetto, la deliberazione e l’attuazione non spetteranno al consiglio municipale ed al sindaco, al consiglio provinciale ed al presidente; ma sempre e soltanto al governo centrale, a Roma; o, per parlar più concretamente, al ministro dell’interno. […] Democrazia e prefetto ripugnano profondamente l’una all’altro". <620
L’identificazione tra prefetto e fascismo è profonda, soprattutto per il movimento partigiano del centro-nord e in particolare per i gappisti impegnati nella resistenza urbana; mentre il dibattito politico, che vede contrapporsi per i primi mesi [del secondo dopoguerra] un’opzione più sensibile alle autonomie locali, anticentralista, alla centralizzazione dello Stato post-fascista, ha tra i suoi temi principali proprio il ruolo prefettizio. Questo è dunque antitetico alla democrazia, rappresenta il pericolo permanente della degenerazione se non in dittatura, quanto meno in uno stato di polizia. Tuttavia, per i medesimi motivi per cui il governo Parri non sceglie la strada della rottura, optando invece per la continuità attraverso la depoliticizzazione, allo stesso modo il prefetto è visto come uno strumento di garanzia e tutela: di fronte a una situazione di emergenza sociale, debolezza statale, scarso controllo dell’ordine pubblico, Romita e soprattutto De Gasperi iniziano quella riconversione in senso democratico dell’immagine pubblica del prefetto come pilastro dell’unità statale e del ripristino della legalità: "Percepito solo come strumento della politica di controllo e di repressione dello Stato fascista, non ha possibilità di ottenere la riconferma. Invece, man mano che passa il tempo, questa rappresentazione si trasforma e il prefetto appare, a una parte della classe politica, come un mezzo importante di garanzia dell’ordine pubblico ma anche come organo fondamentale nell’opera di ricostruzione, sia del paese concreto che della legalità". <621
Nei mesi che precedono le elezioni per la costituente, il fronte abolizionista perde progressivamente forza e iniziativa, mentre la riconversione democratica dell’immagine prefettizia si impone; la democrazia cui si fa riferimento è quella che emerge dall’egemonia del partito moderato, di cui si fanno interpreti i liberali (che infatti causano la caduta del governo Parri) e il nuovo presidente del consiglio democristiano. Per i primi, che presentano un decalogo programmatico durante la crisi di governo, "la revoca dei prefetti e dei questori dei CLN figurava tra i punti più insistiti (insieme allo svuotamento totale dei CLN e alla fine dell’epurazione). Così, mentre un autorevolissimo liberale come Einaudi aveva lanciato il grido di battaglia 'via il prefetto!', grido tutt’altro che privo di eco fra le stesse file liberali, nel governo di cui era stato la mosca cocchiera il PLI avrebbe interpretato quel grido quale 'via i prefetti della Liberazione!" <622
De Gasperi invece, prima ancora di prendere in mano il Viminale, con l’appoggio di Romita, avrebbe avviato l’allontanamento di tutti i prefetti CLN dai loro incarichi (uno dei punti chiave del piano rivendicativo del ciclo conflittuale in questo periodo, fino al suo momento più importante rappresentato dal caso Troilo), avvalendosi tra l’altro del decreto fascista del 1937 ancora in vigore, relativo al ripristino dei funzionari di carriera. In piena discussione sulla redazione della Carta, di fronte a tutti i prefetti riuniti a Roma nel novembre ’46, dirà "Dalla Costituente molti organismi potranno uscire trasformati, ma oggidì ancora i prefetti sono gli organi più immediati del governo, i responsabili più diretti dell’amministrazione; e, in ogni caso, i criteri fondamentali ch’essi devono seguire, frutto dell’esperienza ed emanazione d’immutabili norme di diritto ravvivato dallo spirito democratico, potranno essere rifusi in altre forme, ma non essere distorti o rinnegati, a scanso di portare lo Stato alla dissoluzione o all’assorbimento nella dittatura di parte". <623
Da strumento della possibile distorsione autoritaria a garanzia invalicabile dell’ordinamento democratico repubblicano: la metamorfosi così realizzata a livello culturale e di immagine pubblica permette anche di giustificare il permanere delle prerogative forti del prefetto, proprio partendo dal presupposto che la democrazia e lo Stato devono dimostrare la propria forza e capacità di controllo.
La prima legge post-fascista relativa ai poteri prefettizi (9 giugno 1947) conferma il cosiddetto 'controllo di legittimità', ovvero la prerogativa di controllo sul rispetto del principio di legalità da parte degli enti locali. La fine del dibattito costituzionale conferma di fatto lo status quo.
In secondo luogo, il mantenimento del TULPS comporta anche la sopravvivenza di quelle norme sui poteri speciali del ministro degli Interni e dei prefetti in caso di 'pericolo pubblico'; paradossalmente proprio Scelba aveva proposto in un primo momento, nel ’48-’49, di abolire quelle norme considerate di netto marchio autoritario, ovvero "per quanto riguarda il prefetto, si tratta di sopprimere l’articolo 2 che gli consente, in caso di urgenza, di emettere ordinanze normative e soprattutto il titolo IX che dà la facoltà, negli articoli 214 e 215, al ministro dell’Interno e ai prefetti di istituire lo stato di pericolo pubblico. In questo caso, 'durante lo stato di pericolo pubblico il Prefetto può ordinare l’arresto o la detenzione di qualsiasi persona, qualora ciò ritenga necessario per ristabilire o per conservare l’ordine pubblico', secondo la legge del 1926". <624
È poi lo stesso Scelba che, poco tempo dopo, nel corso del dibattito parlamentare del marzo ’50, propone di ristabilire il titolo IX, coerentemente con il proprio progetto di legislazione speciale, dove la figura teorizzata del 'superprefetto', di cui parlerà sempre nella famosa intervista del 1988, si avvicinava molto a quanto previsto dalla legge fascista del ’26: "Già nei primi tre mesi del 1948 era stata messa a punto un’infrastruttura capace di far fronte ad un tentativo insurrezionale comunista. L’intero Paese era stato diviso in una serie di grosse circoscrizioni e alla loro testa era stato designato in maniera riservata, per un eventuale momento di emergenza, una specie di prefetto regionale […], un uomo di sicura energia e di assoluta fiducia. L’entrata in vigore di queste prefetture allargate sarebbe stata automatica nel momento in cui le comunicazioni con Roma fossero state, a causa di una sollevazione, interrotte: allora i superprefetti da me designati avrebbero assunto gli interi poteri dello Stato sapendo esattamente, in base ad un piano preordinato, che cosa fare". <625
L’idea dello Stato propria del clerico-moderatismo, di cui fu espressione il ministro degli Interni poi presidente del consiglio, era legata a una 'ideologia' neutralista e impolitica della macchina statale per cui l’intervento governativo poteva, anzi doveva essere per l’interesse generale; un altro paradosso dello scelbismo fu dunque la piena trasformazione degli strumenti di controllo e governo al servizio di una parte (l’anticomunismo e la DC in particolare) in nome dell’imparzialità.
"La sua concezione della statualità, infatti, coniugava i valori definiti dalla tradizione della borghesia liberale con la dottrina ecclesiologica del potere come servizio da rendere alla società con umile e ferma dedizione. Ne conseguiva un’interessante simbiosi tra i princìpi di autorità riconfermati a tutela dell’ordine ('perché la vita sociale è fatta di gerarchie') e i compiti paternalistici e filantropici ancora attribuiti allo Stato da un certo pensiero cattolico, dal fondo tradizionalista, convertitosi di recente alla fede nella democrazia. […] Il suo proposito ideologico […] si richiamava alla forma classica della statualità borghese per piegarla ai contenuti del suo pensiero di cattolico-popolare: in particolare, all’idea di un bene pubblico e di una verità politica (il 'sano' e 'giusto' ordine sociale, la 'vera' democrazia) di cui le funzioni statali avrebbero dovuto farsi interpreti e difensori inflessibili". <626
[NOTE]
619 L. Einaudi, Il buongoverno. Saggi di economia politica (1897-1954), p. 59, Laterza 1973, cit. in Virgile Cirefice, Prefetti e dottrina dello Stato di diritto nei dibattiti, p. 9, in P. Dogliani, M.A. Matard-Bonucci (a cura di), Democrazia insicura, Donzelli editore 2017, p. 5
620 Ivi
621 Virgile Cirefice, op. cit., p. 7
622 C. Pavone, op. cit., p. 154
623 Dichiarazione del presidente del consiglio ministro dell’Interno ai prefetti del Piemonte, della Lombardia, del Veneto e della Liguria, 19 novembre 1946 in Archivio centrale dello Stato, Presidenza del Consiglio, Gabinetto, 1944-1947, cit. in V. Cirefice, op. cit., p. 8
624 V. Cirefice, op. cit., pp. 13-14
625 M. Scelba, cit. in G. De Lutiis, op. cit., p. 153
626 G.C. Marino, op. cit., pp. 221-22

Elio Catania, Il conflitto sociale: “motore della Storia” o “tabù” storico-politico. Il caso di Milano nel secondo dopoguerra, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2016-2017

venerdì 2 dicembre 2022

La missione che portò migliori risultati per la causa partigiana fu quella del 10 ottobre 1944

Marina di Massa, Frazione di Massa. Fonte: Wikipedia

Già dal mese di settembre [1944], con l'avvicinarsi delle truppe alleate alla zona di Massa, il GPA [Gruppo Patrioti Apuani] cercò di stabilire un contatto con i comandi americani. Furono allo scopo mandati sia via mare che attraverso i valichi delle Apuane delle missioni. L'obiettivo era rendere nota la grave situazione della popolazione civile di Apuania e spingere gli Alleati ad avanzare e ad armare le formazioni partigiane tramite lanci paracadutati. La prima missione inviata fu quella comandata dal tenente “Pippo”, Franco Guidi, composta dal capo squadra Bosi Raffaele e dai partigiani Natali Domenico e Bellè Alfredo. Per superare la linea del fronte venne scelto di passare dal mare. La notte del 14 settembre <380 partendo da Marina di Massa su una piccola imbarcazione, gli uomini riuscirono nell'impresa, nonostante venissero individuati e bersagliati dalle artiglierie tedesche.
Questa prima missione aveva il preciso scopo di richiedere un lancio per il GPA <381. Il giorno seguente partì un'altra missione guidata questa volta da Andrea Vatteroni, “Nino” <382 composta dal tenente Tognini Carlo e dal tenente Navarini. L'itinerario scelto per l'attraversamento del fronte era quello dalle montagne, partendo da Antona e dirigendo verso Montignoso e da qui a Ruosina. Partiti il 15 dopo varie peripezie, i partigiani decisero di cambiare rotta e puntarono anche loro sull'attraversamento via mare. Scopo della missione era quello di fornire notizie dettagliate delle postazioni tedesche nella zona della Linea Gotica. Fu a tale scopo disegnata una carta topografica. Subito intercettati dai tedeschi sulle montagne sopra al paese di Altagnana, dopo uno scontro a fuoco furono costretti a nascondersi sui monti nei pressi di Ripa perdendo contatto dal Navarini. Ormai impossibilitati a proseguire in quella direzione, scesero verso il mare e trovata una barca proseguirono. Durante la traversata l'imbarcazione imbarcò acqua ed affondò; a nuoto i due partigiani riuscirono a prendere terra fra il Cinquale e Forte dei Marmi, nella spiaggia di Vittoria Apuana. Arrivati a Viareggio il 21 settembre, vennero arrestati dai soldati americani ma riuscirono a fornire i disegni delle postazioni naziste <383.
La missione che portò migliori risultati per la causa partigiana fu quella del 10 ottobre, guidata da Gino Briglia, “Sergio” comandante della 5^ compagnia “Falco” del GPA. Partito da Antona con una decina di uomini <384 portava con sé un memoriale sulla situazione disperata di Massa, da consegnare al comando alleato:
“1- Sulle Alpi Apuane e precisamente nel centro della zona si trova e agisce il Gruppo Patrioti Apuani forte di circa mille uomini, costituito sotto l'attuale denominazione e con l'attuale sistemazione organica già da parecchi mesi. L'armamento è scadente specie per quanto riguarda le armi di reparto e il munizionamento scarsissimo.
2 - La popolazione della zona dichiarata militare che, secondo gli ordini tedeschi avrebbe dovuto sfollare a Pontremoli o nella Valle Padana si è invece riversata dopo il 15 settembre, donne e bambini in maggioranza, sulla montagna nei pressi dei nostri reparti con una scorta di viveri per circa una settimana, con indumenti leggeri da estate, senza possibilità di alloggio nei paesi per timore delle rappresaglie tedesche e quindi con sistemazioni provvisorie nei boschi, sotto grotte, capanne o addirittura all'aperto.
3 - La zona è, come risaputo, agrariamente fra le più povere d'Italia […] le poche risorse alimentari che esistevano al 15 settembre sono completamente esaurite […].
4 - Sono esauriti i medicinali che la formazione aveva con sé.
I numerosi cannoneggiamenti tedeschi di paesi e località ove era ricoverata la popolazione civile hanno causato vittime e feriti […]. Premesso quanto sopra posso asserire che la situazione della formazione è critica e quella della popolazione disastrosa. […] Militarmente la nostra attività è limitata dalla mancanza di armi pesanti di reparto e dallo scarso munizionamento anche delle armi individuali. Nella zona è piuttosto limitato.” <385
La missione fu frutto di una decisione presa in piena autonomia dal comandante Pietro [Pietro del Giudice] che ne informò il CPLN e la Brigata Garibaldi “U. Muccini” solo il giorno 12:
“Trovandoci tanto disorientati per lo strano arresto delle truppe alleate a pochi chilometri da noi, ho deciso di mandare ai rappresentanti del comando alleato una missione, comandata dal Tenente Sergio, con un memoriale in cui sono descritti brevemente le preoccupanti condizioni della zona per chiedere direttive ed aiuti. La missione si trova attualmente a Viareggio e dovrebbe ritornare salvo inconvenienti, domenica.” <386
Sergio, una volta giunto al di là delle linee, fu ascoltato dagli ufficiali americani ma non riuscì nell'intento di convincerli ad avanzare, né in quello di ottenere dei lanci per il GPA. Impossibilitato a rientrare, riuscì ad ottenere la fiducia dei comandi Alleati, soprattutto grazie all'incontro con il tenente dell'O.S.S. <387, Formichelli, che capì l'importanza di avere dei partigiani affidabili ed esperti conoscitori della zona, da impiegare sia come guide che come avanguardie dell'avanzata. Si avviò così il processo che portò alla nascita del Gruppo F 3388, composto dalle tre compagnie “Fulgor”, costituita a Forte dei Marmi il 14 novembre, “Falco”, nata il 27 dicembre a Seravezza, e la “Ferox” 16 gennaio a Stazzema. Le tre compagnie erano in gran parte formate da partigiani massesi affluiti in territorio liberato dopo il rastrellamento e i combattimenti del 2 dicembre. La “Fulgor” andò a sostituire il ruolo svolto da alcuni reparti partigiani versiliesi, in particolar modo la formazione Canova, poi ribattezzata “Tigre”, e la Bandelloni.
Il 3 novembre venne inviato oltre le linee il comandante della 2^ compagnia del GPA, il tenente Orlandi. Il tentativo di Pietro mirava a concordare con gli Alleati il passaggio delle linee di centinaia di partigiani del Gruppo, che avrebbero dovuto essere armati dagli americani nelle zone ormai liberate e poi reinviati in zona di guerra per guidare un'offensiva sulle Apuane. Del Giudice informò della missione, a cosa già avvenuta, il maggiore Oldham con una comunicazione datata 4 novembre:
“Caro Maggiore, avevo deciso di venire al Comando Divisione per mettervi al corrente di quanto ho potuto fare in obbedienza alle direttive fissatemi nell'ultimo nostro incontro se non chè una pattuglia americana proveniente dal fronte guidata dal comandante la formazione Tigre che combatte al fianco degli alleati, mi ha aperto una nuova possibilità di cui credo conveniente e doveroso tenerne conto. Si tratterebbe di passare il fronte in forze con almeno 300 uomini bene inquadrati per convincere i comandi di Viareggio a sferrare una piccola offensiva che dovrebbe portare a liberare ad una modifica del fronte sufficiente a liberare le popolazioni di Montignoso e Massa in condizioni veramente disperate. Di questa azione il nostro Gruppo, armato convenientemente (inutile aspettare quei lanci che non verranno: occorre andare di là ad armarsi, se almeno questo ci può venire concesso), è disposto a sopportare tutti gli oneri. Il passaggio del fronte non ci preoccupa, purché gli americani di Viareggio ci armino convenientemente siamo disposti a tutto.” <389
Questa strategia, pensata da Pietro, come visto, si realizzerà solo in parte con la nascita, qualche giorno dopo, della formazione “Fulgor” e poi, dopo il rastrellamento del 2 dicembre, con la costituzione delle altre due compagnie del gruppo F 3. Emerge, ancora una volta, la capacità di iniziativa di Del Giudice, abile nel capire, sia dal punto di vista militare che politico, l'evolversi della situazione. Ma appare con altrettanta chiarezza la ricerca di autonomia della formazione, incapace, nei suoi vertici, di rimanere semplice pedina all'interno di un piano militare stabilito da altri.
[NOTE]
380 Alcuni testi riportano come data della missione Guidi il 13 settembre ma due dichiarazioni presenti in archivio e firmate da alcuni dei partecipanti alla missione parlano esplicitamente della partenza la sera del 14: “Io sottoscritto tenente Franco Guidi “Pippo” dichiaro che la sera del 14 settembre fui inviato dal GPA in missione oltre il fronte via mare. […] durante il traffico essendoci accorti che la barca procedeva lentamente verso le linee alleate ed essendo stati avvertiti dalle sentinelle tedesche che dettero l'allarme a tutta la costa, tanto dalla Punta Bianca di La Spezia, fu lanciato un bengala e subito presi a bersaglio da colpi di cannone.” AAM busta 5, fascicolo 27.
381 La notizia è ricavata dal manoscritto di Andrea Vatteroni, “Nino”, che incontrò il Guidi a Viareggio.
382 Vatteroni divenne in seguito il comandante della compagnia “Fulgor” del Gruppo F 3. compagnia costituita il 14 novembre 1944 a Forte dei Marmi con lo scopo di affiancare le truppe Alleate.
383 Le notizie sulla missione Vatteroni sono ricavate dal manoscritto, A. Vatteroni, Pagine dal diario di un partigiano, AAM busta 25, fascicolo 23.
384 Dalle pagine del manoscritto del Vatteroni sappiamo anche i nomi dei nove partigiani che accompagnarono “Sergio” e sono: Piero Masnadi, Sandro Bonini, Vincenzo Rossi, Pietro Bigarani, Mario Conti, Ovidio Buffoni, Francesco Badiali, Francesco Giusti, Bengasi Tongiani. Assieme a loro il partigiano pisano Luciano Ceccotti, ferito il 16 maggio nell'attacco della formazione di “Tito” al paese di Altagnana, e due ufficiali inglesi il colonnello Gordon De Bruyne e il capitano Browne.
385 AAM busta 33, fascicolo 1.
386 AAM busta 20, fascicolo 2.
387 Sigla dell'Office of Strategic Services, servizio segreto americano antesignano della CIA, costituito nel giugno 1942 con lo scopo di raccogliere ed analizzare informazioni e per svolgere operazioni speciali. Notizie dettagliate sull'organizzazione OSS nel settore apuano si trovano nel saggio G. Cipollini, La Linea Gotica - settore occidentale 1943-45, atti del convegno di studi, pubblicato nel sito web ANPI Versilia che riporta: “L'attività della F 3 rientrava nell'area di competenza del Fifth Army Detachement, di cui era responsabile il maggiore Vincent Abrignani, dal quale dipendeva il Forth Corp Detachment, comandato dal maggiore Stephen Rossetti. Dei quattro reparti che lo costituivano, il primo indicato con la lettera A doveva occuparsi dei rapporti con i partigiani ed aveva il comando a Viareggio. Dall'inizio di novembre al 13 marzo 1945 fu guidato dal capitano James Manzani, quindi dal maggiore Frank T. Blanas. I primi contatti con i partigiani versiliesi dopo la liberazioni erano stati tenuti dal tenente Michael Formichelli.” pp. 7-8. Altre e maggiori notizie in Eserciti Popolazione e Resistenza sulle Alpi Apuane, cit. che contiene il saggio di G. Petracchi e R. Vannucci, Rapporti delle formazioni apuane con gli Alleati. Petracchi spiega come l'O.S.S. fosse composto da due strutture nel proprio lavoro sul fronte italiano: la Secret Intelligence Branch guidata da Vincent Scamporino e da Max Corvo e il Fifth Arm Detachment creato nel luglio 1943 con scopi tattici per sostenere l'avanzata della V^ armata.
388 Comandante del Gruppo F 3 fu Loris Palma, “Villa”, vice comandante Gino Briglia, “Sergio”.
389 AAM busta 24, fascicolo 1
Marco Rossi, Il Gruppo Patrioti Apuani attraverso le carte dell'archivio A.N.P.I. di Massa. Giugno - Dicembre 1944, Tesi di laurea, Università di Pisa, 2016

venerdì 25 novembre 2022

Il maggiore Wilkinson fungeva da collegamento diretto tra le truppe alleate e le forze della Resistenza nel Veneto

Venezia. Foto: S.M.

Nell'agosto del 1944 furono paracadutate alcune squadre che dovevano operare nella zona di Rovereto (guidate dal maggiore Ferrazza), sull'altopiano di Asiago (guidate dal maggiore John Prentice Wilkinson “Freccia”, che venne paracadutato proprio nella notte tra l'11 e il 12 agosto nella zona di Granezza), sul Grappa (capitano Brietsche), nel bellunese (maggiore Tilman).
Il maggiore Wilkinson, che venne poi ucciso, <17 fungeva da collegamento diretto tra le truppe alleate e le forze della Resistenza nel Veneto.
Dalle parole di “Colombo” <18: “Quando la Missione fu lasciata vicino a Monte Paù nella notte del 12/13 agosto, era formata da tre persone: Maggiore John Wilkinson (“Freccia”), io (allora Tenente, ma più tardi Capitano “Colombo”), Caporale (più tardi Sergente) Douglas Archiblad (“Arci”)...Lo scopo principale di missioni come la nostra, che erano mandate a lavorare con le principali formazioni partigiane italiane nelle zone montane del nord e centro Italia, era di cercare per quanto possibile di coordinare le attività con quelle delle maggiori forze alleate.” <19
[...] A Venezia, dopo le prime figure antifasciste di rilievo (Trentin, Borin, Luzzato) la Resistenza sembrò acquisire nuova forza dopo il 25 luglio del 1943. La città lagunare era animata da socialisti (Emilio Scarpa, Tonetti, Lombroso, Rossi, Giancarlo Matteotti) e comunisti (Pizzinato, Trevisan, Turcato), ma anche dagli azionisti organizzati da Egidio Meneghetti (rettore all'università di Padova). Molti insegnanti dell'università Ca' Foscari (Trentin, Luzzato, Longobardi, Rigobon, Armanni) aderirono al manifesto di Benedetto Croce.
Gli antifascisti erano particolarmente attivi, se si pensa che alcuni gappisti, capeggiati da Giuseppe Turcato, riuscirono a impadronirsi per alcuni minuti del teatro Goldoni, interrompendo lo spettacolo e lanciando dal palco la loro critica al fascismo (12 marzo 1945). “Se in teatro c'è qualche spia o traditore fascista venga fuori, che avrà piombo patriottico...” <20 diceva Ivano Chinello “Cesco” al pubblico sorpreso del teatro.
Grande rilevanza ebbe la bomba che i partigiani misero a Ca' Giustinian (26 luglio 1944). In tale attentato rimase ucciso un soldato, dato che il palazzo era sede del comando provinciale della Gnr (Guardia nazionale repubblicana). La reazione fu durissima e tredici persone verranno fucilate per rappresaglia dai fascisti sulle macerie dello stesso palazzo.
La resa tedesca venne firmata a Venezia il 29 aprile 1945; gli alleati arriveranno solamente il 2 maggio in città.
Grosso contributo alla Resistenza venne anche dai centri della terraferma; a Mirano, Portogruaro, Cavarzere si formano Cln locali. Importanti furono anche le azioni di sabotaggio alla ferrovia di Mestre.
Nel Polesine e in provincia di Rovigo l'organizzazione resistenziale assume alcuni tratti caratteristici, legati soprattutto alla conformazione del territorio (pianeggiante, scarse protezioni naturali, molte vie d'acqua).
Un aiuto consistente alla Resistenza viene dunque dai contadini e da tutte quelle persone legate al lavoro nei campi. Anche qui, però, come nelle altre province, i partigiani si organizzarono con la brigata “Silvio Trentin“, la brigata “Maurizio Martello” e alcuni gruppi di Gap e Sap. Anche qui, puntualmente, il tributo di sangue fu pagato in modo particolarmente brutale il 15 ottobre del 1944, quando vennero uccisi nell'eccidio di Villamarzana 42 persone, tra partigiani e civili, come vendetta in seguito al ritrovamento dei cadaveri di 4 fascisti.
La città di Treviso fu decorata con la medaglia d'oro al valore militare. In città il 12 settembre, quattro giorni dopo il proclama di Badoglio, veniva riaperta la Federazione provinciale fascista. Le zone montuose sopra la città vedranno la concentrazione dei primi partigiani.
Le formazioni che qui nascono saranno impegnate negli scontri violentissimi sul Monte Grappa e sull'Altopiano del Cansiglio. Operano a Treviso e provincia formazioni garibaldine; nell'aprile 1945 c'era la divisione “Nannetti”, al confine tra Belluno e Udine, la divisione “Sabatucci”, la divisione “Monte Grappa” al confine con Vicenza e Padova. Una figura di grande rilievo per la Resistenza nel Trevigiano fu inoltre quella di Primo Visentin “Masaccio”, che diceva: “Forse è mio destino cadere prima di raggiungere la vetta, e cadere da solo; ma nella mia caduta mi si troverà con gli occhi rivolti al sole, con nella mano stretti tenacemente i fiori dei miei ideali.” <21
La Resistenza padovana fu invece incentrata e organizzata soprattutto all'interno dell'università della città, o comunque da personalità legate al mondo accademico, tanto che all'università di Padova, unica in Italia, venne assegnata nel dopoguerra la medaglia d'oro al valore militare. Nei giorni seguenti l'armistizio Silvio Trentin, (già professore a Ca' Foscari), Concetto Marchesi e Egidio Meneghetti, rispettivamente rettore e prorettore dell'università patavina, organizzano il Cln Veneto (dotato anche di una sua propria pubblicazione, ”Fratelli d' Italia”) che aveva la sua sede a Padova nel palazzo Papafava.
Oltre all'università operano anche altri protagonisti. Il partito comunista aveva insediato a Padova la delegazione triveneta delle brigate “Garibaldi”; squadre di Giustizia e Libertà, guidate dall'ingegnere Otello Pighin, si dedicavano ad attentati e sabotaggi a fabbriche e mezzi di comunicazione. Arrivarono anche ad incendiare la sede, in uno studio dell'università, del giornale studentesco fascista “Il bò”.
A Padova operava anche la banda fascista chiamata “Carità“ (dal nome di Mario Carità). Dopo un trascorso in Toscana, la banda scelse come sua sede il Palazzo Giusti, continuando nel tentativo di indebolire la Resistenza, tramite frequenti torture e uccisioni.
Padova insorge il 28 aprile; il giorno dopo l'esercito nazista in fuga darà prova della sua ferocia uccidendo 127 persone tra S. Giorgio in Bosco, S. Martino di Lupari e Villa del Conte.
La provincia di Verona fu una zona verso la quale le truppe naziste e fasciste nutrirono sempre un grosso interesse. A Salò e dintorni avevano trovato sede i principali uffici della Rsi.”Verona diventa la città più nazistizzata d'Italia. Alberghi, ospedali, uffici diventano sedi dell'attività repressiva tedesca, i vecchi forti austriaci sulle colline diventano carceri dove saranno rinchiusi i patrioti” <22
Il 14 novembre 1943 veniva emanato il manifesto di Verona che in 18 punti dettava le linee guida della neonata Repubblica sociale italiana. Sempre a Verona si insediò il comando di tutte le forze di polizia naziste in Italia (Gestapo, Ss) al comando di Wilhelm Harster.
Nella città si alternano, a causa delle defezioni provocate dalla repressione, tre Cln. Nella Lessinia orientale opera la divisione “Pasubio”, guidata da Giuseppe Marozin “Vero”, figura discussa della Resistenza veneta. Sul monte Baldo è poi molto attiva la divisione garibaldina “Vittorio Avesani”.
L'azione forse più temeraria della resistenza veronese è da attribuirsi ai Gap, che il 17 luglio 1944 riuscirono a liberare dal carcere degli Scalzi un loro compagno, Giovanni Roveda, che diventerà primo sindaco di Torino del dopoguerra.
Vicenza e la nascita delle brigate garibaldine “Ateo Garemi”
La zona di Vicenza è quella su cui, per ovvi motivi, mi sono soffermato maggiormente. Bruno Viola, nato a Vicenza il 6 settembre 1924, faceva parte delle formazioni garibaldine “Ateo Garemi”.
Si può correttamente affermare che la Resistenza vicentina fu “egemonizzata” dalle formazioni garibaldine, senza con ciò voler sottovalutare l'importanza delle altre formazioni.
Il Cln vicentino nacque il 20 settembre, formato da rappresentanti di tutti i partiti: Domenico Marchioro e Emilio Lievore per il P.C.I, Segala per il P.S.I.U.P, Ettore Gallo, Mario Dal Prà per il partito d'azione, Andrea Rigoni. Dipendeva dal Cln il Comitato militare provinciale (Cmp) ed entrambi riferivano la loro azione al Clnai (Comitato di liberazione nazionale alta Italia).
Questo primo Cln durò per tutto il 1944, fino a dicembre quando i suoi membri furono quasi tutti arrestati.
Si tenga comunque presente che i primi Cln, locali e provinciali, nascevano come aggregazione di quei gruppi e comitati antifascisti che per primi si erano mossi, in qualche caso già prima del 25 luglio, per dare un'organizzazione all'opposizione al fascismo.
La situazione era, come facilmente comprensibile, in continua evoluzione; pur apparendo semplicistico e riduttivo mi sembra importante offrire un riassunto delle forze resistenziali e delle relative zone d'operazione.
Le prime formazioni partigiane operavano e si erano sapientemente divise il territorio già ad inizio 1944.
A fine guerra si contano 3 divisioni partigiane.
Sono la “Vicenza”, la “Monte Ortigara” e la “Garemi”. <23
[NOTE]
17 Egidio Ceccato, “Freccia, una missione impossibile. La strana morte del maggiore inglese J.P. Wilkinson e l'irresistibile ascesa del col. Galli (Pizzoni) al vertice militare della Resistenza veneta, Cierre EdizioniIstresco, Verona 2004
18 Christopher Woods
19 Lettera agli autori di Christopher Woods “Colombo”, in Sergio Fortuna, Gianni Refosco, Tempo di guerra. Castelgomberto: avvenimenti e protagonisti del secondo conflitto mondiale e della Resistenza, Odeonlibri Ismos, Schio, 2001, pag. 177-178
20 Giuseppe Gaddi, I comunisti nella Resistenza veneta,Vangelista Editore, Milano, 1977, pag. 182
21 Umberto Dinelli, La guerra partigiana nel Veneto, Marsilio Editori, Venezia, 1976, pag. 147
22 Ivi pag. 149
23 Alcune formazioni della “Garemi” vennero in seguito elevate a divisioni
Francesco Corniani, Un marinaio in montagna. Storia di Bruno Viola e dell’eccidio di Malga Zonta, Tesi di laurea, Università Ca’ Foscari, Venezia, Anno accademico 2009-2010

sabato 19 novembre 2022

L’affermazione della "Settimana Incom" giunse in un periodo di grande espansione del cinema in Italia


Il primo numero della "Settimana Incom" uscì il 15 febbraio del 1946. Chi lo mise in piedi non poteva sapere che il cinegiornale sarebbe andato avanti sino al n. 2554 del 1965.
La Industria Corto Metraggi, con sede a Roma in via Bellini 27, dopo una pausa di quasi tre anni, tornò sul mercato con un prodotto nuovo <45. Se in epoca fascista, come sappiamo, il regime aveva riservato all'Istituto Luce il settore dei film d'attualità, lasciando alla Incom e agli altri privati uno spazio di produzione solo nell'ambito del documentario, nel dopoguerra il vincolo cadde <46 e il direttore, che era sempre Sandro Pallavicini, decise di puntare sul cinegiornale per rilanciare la società <47.
Ad agevolare l'iniziativa privata, giungeva l'articolo 8 del decreto luogotenenziale n. 678 del 5 settembre 1945, che garantiva al cinegiornale il rimborso dei diritti erariali per il 3 per cento dell'introito lordo sugli spettacoli cui il breve filmato era abbinato. Il passaggio dal regime fascista al periodo di transizione fino alla repubblica, non danneggiò Pallavicini, anzi, con la fine della guerra, il potere del direttore crebbe. Egli intratteneva ottimi rapporti con i nuovi alleati d'oltreoceano, non tanto per motivi di parentela <48, che seppe peraltro certamente sfruttare, quanto per la sua capacità di presentarsi come l'artefice di un nuovo tipo di informazione. Pur facendo tesoro dell'esperienza maturata sotto il fascismo, Pallavicini sposò la causa dell'antifascismo e della difesa della democrazia come se fossero sempre stati i suoi valori fondanti. Il nuovo successo della Incom fu il risultato di una serie di fattori: in primo luogo, come vedremo, lo smaccato filo-atlantismo, evidente sin dal primo numero; in secondo luogo, la capacità di farsi espressione di quella parte politica del paese che già si intuiva dominante; in terzo luogo, lo stile «disinvolto, un po' superficiale ma spettacolarmente vivace» <49 che affondava le radici nelle produzioni realizzate sotto il regime; infine, un'aggressiva campagna di distribuzione, che si avvalse di una serie di concorsi a premi <50, appetibili al pubblico e, di conseguenza, agli esercenti.
La società riuscì ad occupare quasi per intero lo spazio di mercato dei cinegiornali, nonostante il decreto luogotenenziale del 1945 aprisse le sale italiane anche all'invasione straniera. «Negli anni che seguono, accadde un fatto abbastanza insolito - almeno non registrato negli altri paesi, Stati Uniti compresi -, che solo in parte è da imputare alla mancanza di informazione visiva libera del pubblico italiano durante il periodo fascista. Ci sono anche fattori di interesse, economici e politici insieme, che portano ad una vera e propria invasione delle testate di cinegiornali, molti dei quali però vivono per breve tempo» <51. Nella seconda metà degli anni '40 uscirono in Italia 9 cinegiornali, soprattutto edizioni nazionali di prodotti inglesi e statunitensi <52: "Notizie da tutto il mondo" della Eagle Lion, "Notizie del giorno" della M.G.M., "Fox Movietone" della 20th Century Fox, "Colpi d'obbiettivo" sul mondo della Paramount, "Universal News" della Universal, che diventerà poi "Film Giornale Universale" realizzato su commissione dalla Sedi. E' invece lo sport il tema di fondo di uno dei primi cinegiornali interamente “made in Italy” del dopoguerra: "Cinesport", edito dalla Compagnia Italiana Attualità Cinematografiche, dal 1945 fu prima quindicinale, per i primi tre anni, poi settimanale. Nel 1944 erano usciti tre numeri di "Attualcine", con il titolo di "Giro d'Orizzonte", in una Venezia appena liberata: erano dedicati all'insurrezione di Venezia, alla liberazione della città e alla manifestazione del primo maggio <53. Del 26 luglio 1945 è il primo numero del "Notiziario Nuova Luce", realizzato dall'Istituto Luce, che aveva cambiato denominazione in “Istituto Nazionale Nuova Luce”: i suoi cinegiornali andarono avanti per 22 numeri sino al 1947, quando il governo decise di fermarne la produzione <54.
Nonostante i numerosi concorrenti, la "Settimana Incom" riuscì a conquistarsi progressivamente un posto di primo piano. Lo staff della società <55 era rimasto pressoché invariato dai tempi del Ventennio: Sandro Pallavicini ne era ancora, come abbiamo visto, il direttore; Alfonso Cedraschi, altro membro della ricca famiglia di imprenditori italo-svizzeri, prese il posto del fratello Erminio come consigliere delegato; Domenico Paolella <56, che era stato uno dei registi, divenne redattore capo, e, dopo il 1948, direttore artistico; Guido Notari <57, una delle voci fuori campo dei documentari di epoca fascista, fu nel dopoguerra “la voce” della "Settimana Incom". Figura del tutto nuova era, invece, Giacomo Debenedetti <58, intellettuale di estrazione comunista, chiamato personalmente da Pallavicini a scrivere i testi dei cinegiornali. Debenedetti svolse questo compito per dieci anni e, almeno sino al 1950, fu l'unica attività retribuita dell'intellettuale. Questa informazione è importante, perché configura la sua collaborazione, che non risulta da nessun contratto e che non fu mai pubblicamente dichiarata nè da Debenedetti né dalla Incom <59, come un lavoro dettato dalle necessità della sopravvivenza, e contribuisce a spiegare l'adattamento del fine uomo di cultura allo stile superficiale e propagandistico del cinegiornale <60.
Le preziose dichiarazioni di Paolella chiariscono le modalità attraverso le quali avveniva la ricerca del compromesso all'interno della redazione: «Per cominciare, d'accordo con Pallavicini, io avevo fatto una redazione politicamente composita, in cui eravamo rappresentati un po' tutti. I commenti parlati, che sono un po' la chiave dei cinegiornali, li faceva Giacomo Debenedetti, grandissimo saggista, un comunista col quale ho avuto dimestichezza per cinque anni. Tra i redattori c'era un socialista e uno dell'Uomo Qualunque, che allora era un gruppo politico importante. Pallavicini era un po' al disopra e al di fuori, e naturalmente l'indirizzo lo dava lui, ma non poteva evitare che i collaboratori esprimessero un certo tipo di opinioni.» <61
Le indicazioni venivano date a Debenedetti anche in fase di preparazione del servizio, nel momento in cui si visionavano le immagini <62. A guidare la realizzazione del cinegiornale era l'idea che l'immagine e il commento dovessero procedere in sincronia: «La perfetta armonia di parlato e immagine resta una delle caratteristiche della Incom e una delle ragioni del successo» <63. L'impostazione data era di carattere giornalistico, con un occhio ai rotocalchi: La "Settimana Incom" proponeva cronache politiche, servizi sulla ricostruzione e sulle relazioni con gli americani, curiosità italiane e dal mondo, interviste a uomini politici, filmati sulle tradizioni religiose locali, cronache sportive e rubriche di moda. I filmati dovevano avere una lunghezza standard <64, e le inquadrature e il montaggio richiedevano la massima cura. Anche l'organizzazione interna ricalcava quella di un quotidiano a stampa <65: una volta ricevuta, dall'Ufficio Informazioni, la segnalazione di una serie di appuntamenti, questi venivano selezionati dal capo redattore, in accordo col regista che effettuava un sopralluogo. L'ufficio lavorazione organizzava la troupe <66, indicando circostanze, luoghi e persone da filmare, per poter procedere con la stesura del commento. Presso lo stabilimento sviluppo e stampa, che si occupava anche della catalogazione, venivano individuati i temi che potevano essere interessanti per l'esportazione all'estero <67.
«Avevamo adottato un certo tipo di comportamento verso le richieste di riprese che tutti ci facevano. È chiaro che i nostri telefoni erano bombardati dai partiti, dalle industrie, perché tutti ci volevano, e il problema era di convincerli che solo i grossi avvenimenti nazionali avevano senso, e non i tagli dei nastri. Ci avvalevamo di una serie di registi-giornalisti un po' in tutta Italia, una rete che avevo messo su perché funzionasse non solo in rapporto alla cronaca, ma anche rispetto agli avvenimenti politici importanti, e mi pare di aver reso in sostanza uno specchio veritiero dell'Italia di allora, con tutto quello che di difettoso c'era.» <68
L'affermazione della "Settimana Incom" <69 giunse in un periodo di grande espansione del cinema in Italia: nel '48 il numero delle sale era quasi il doppio rispetto a dieci anni prima e i biglietti venduti erano saliti del 75%. Nel settore dello spettacolo, il cinema non lasciava spazio ad alcun altro tipo di intrattenimento: nel 1949 su 70 miliardi incassati dagli spettacoli, il grande schermo se ne era aggiudicati 54. Dopo appena tre anni dalla fine della guerra, in Italia si contavano 6500 sale private e oltre 5000 sale parrocchiali. La crisi della guerra che aveva portato distruzione anche nel mondo del cinema era in via di superamento.
Nel 1948 la fisionomia della Incom si definì ulteriormente con l'ingresso di Teresio Guglielmone, in qualità di Presidente. Personaggio chiave della Dc, il finanziere piemontese diventò senatore con le elezioni del 18 aprile 1948, dotando la Incom di un potente sostegno politico <70. Parallelamente, il controllo sulla società da parte di Guglielmone garantì alla Democrazia Cristiana un efficace strumento di propaganda. «Il successo della Incom fu capillare e straordinario. E della Incom cominciò a interessarsi la Democrazia Cristiana, nella persona del senatore Guglielmone, che non so se da sé o attraverso comitati diversi, riuscì ad avere, proprio nel '48, il 51% delle azioni della società. Naturalmente le cose cambiarono, anche se, debbo dire, con una certa gradualità. […] A poco a poco però il cinegiornale peggiorò. Cominciarono a entrarci i tagli dei nastri […]» <71.
Il filo-atlantismo della Incom, portato quasi all'esasperazione, come vedremo, nei primi mesi del 1948, e che si esercitava anche attraverso l'utilizzo di materiali forniti direttamente dagli americani, che esaltavano gli effetti del sostegno statunitense sullo sviluppo economico italiano, valse a Pallavicini il plauso del rappresentante Usa a Roma, e qualcosa di più: «Già all'indomani della vittoria elettorale del 1948 egli si presenta agli americani per riscuotere i suoi crediti. L'ambasciatore americano a Roma, in una lettera del 27 aprile del 1948 al Dipartimento di stato, ne sottolinea caldamente i meriti filoamericano e sollecita da parte del governo, aiuti più continui e sostanziosi e soprattutto filtrati da canali governativi» <72. Il sostegno politico della Dc e quello finanziario degli americani garantirono alla società Incom il dominio incontrastato per quasi vent'anni. Soltanto l'affinamento dell'informazione televisiva, che era in grado di proporre uno stile giornalistico con il quale la vecchia formula del cinegiornale non poteva competere, decretò il tramonto della società Incom: <73 «La cultura della transizione al capitalismo dei consumi non poteva accontentarsi della formula dello stereotipo. La televisione fu la grande innovazione tecnologica in grado di coniugare valori morali, innovazione formale e modernità, lasciando al giornalismo rosa dei rotocalchi popolari la
parte più effimera e “luccicosa” che era stata propria dell'offerta dei cinegiornali, e appropriandosi, con ben altra consapevolezza, nel bene e nel male, di quel segmento dell'informazione sociale e politica sul quale si sarebbero giocati i destini del paese.» <74
[NOTE]
45 «L'aggettivo “nuovo” è la foglia di fico che consente di conciliare capra e cavoli, tradizione e cambiamento. Guardiamo i giornali. Solo in rarissimi casi si cambia la testata radicalmente […] Ma ancor più minuscolo e irriconoscibile è il travestimento quando la testata rimane proprio la stessa e si aggiunge sopra o sotto l'aggettivo “nuovo”. È quel che accade all'Istituto Nazionale Luce ritinteggiato appena nell'insegna che ora è Istituto Nazionale Luce Nuova.», E.G. Laura, op. cit., p. 235. La Incom, dal canto suo, non cambiò neanche la propria sigla.
46 Dopo la liberazione di Roma si era costituito il Film Board, una sorta di commissione tra alleati occupanti e italiani, che si riunì per decidere il destino del cinema in Italia. Il Board si componeva di 5 membri rappresentanti i vari interessi in gioco: l'ammiraglio americano Stone, a presiedere la commissione, Pilade Levi, in rappresentanza dell'esercito americano, Stephen Pallos, di quello britannico, Alfredo Guarini, come rappresentante dei lavoratori dello spettacolo, Alfredo Proia, a tutelare gli interessi degli industriali del cinema. All'interno del Board i tentativi statunitensi di ridurre ai minimi termini il cinema italiano, considerato troppo compromesso con il fascismo, trovarono un argine nelle posizioni del rappresentante britannico, che aveva interesse a contenere l'influenza statunitense, spalleggiato da Guarini. Nel 1945, in sede di Commissione paritetica sulla cinematografia, istituita dal governo provvisorio, fu messo insieme un progetto di legge che garantiva l'obbligatorietà per 84 giorni all'anno del film italiano nei cinematografi italiani, ma, in sede di Consiglio dei ministri, al posto della legge preparata dalla Commissione paritetica, venne fuori il decreto n. 678, che escludeva il contingentamento. Il Board, nella persona dell'ammiraglio Stone, aveva fatto pressione sul governo affinché venisse approvata una legge che, accanto al sostegno ai produttori cinematografici, garantisse l'apertura alle pellicole straniere delle sale italiane. Cfr., Lorenzo Quaglietti, Storia economico-politica del cinema italiano. 1945-1980, Editori Riuniti, Roma, 1980, p. 37 e sgg.
47 Paolella afferma: «Quello che […] a me interessava presso la Incom, era che si facesse un cinegiornale, una mia idea fissa, anche perché ero veramente stato scandalizzato dall'Istituto Luce, dalla sua struttura rigidamente piramidale. Un cinegiornale giornalistico. L'incontro con il buon Pallavicini, che era ancora militare, fu abbastanza positivo. […] Comunque si convinse subito che bisognava fare un cinegiornale “giornalistico”, con tutte le regole: direttore, caporedattore, gli inviati; e che ci fosse la libertà di girare delle cose vere.», F. Faldini e G. Fofi, op. cit., p. 132.
48 Il matrimonio con Margaret Roosevelt stava probabilmente naufragando: la donna tornò in America nel 1945 e nel 1949 Pallavicini sposò, a Roma, un'altra donna, Gaea. Come abbiamo ricavato dall'articolo del «New York Times», il matrimonio con Margaret era stato celebrato con rito protestante; inoltre alla cerimonia religiosa non era seguita, per espressa volontà del padre della sposa, la cerimonia civile. Probabilmente questi fatti consentirono a Pallavicini di convolare a nuove nozze con rito cattolico. La Settimana Incom dedica al matrimonio del direttore un servizio nel numero 258 del 3 marzo 1949, dal titolo “Auguri al nostro direttore”, in cui nessun riferimento viene fatto alle precedenti nozze.
49 E.G. Laura, op. cit., p. 240.
50 Uno di questi concorsi fu “Aurora della rinascita”. Cfr. p. 55 di questa tesi.
51 Cfr. Franco Cocchi, C'erano una volta i cinegiornali italiani, in «Cinema nuovo», luglio-ottobre 1992, p. 29.
52 Cfr. Franco Cocchi, Il tempo dei cinegiornali annullato dalla televisione, in «Problemi dell'informazione», anno XVIII, n. 3, settembre 1993, p. 342.
53 Ibid., p 341.
54 Il destino dell'Istituto Luce venne discusso in una delle prime sedute del Consiglio dei ministri del governo Parri. Si decise di rifondare l'Istituto e di affidarne la gestione, in qualità di commissario straordinario, al socialista Vernocchi. Questi rimise in funzione l'attività cinegiornalistica del Luce, ribattezzato “Istituto Nazionale Luce Nuova”, con il Notiziario Nuova Luce, il cui primo numero uscì il 26 luglio 1945. La produzione fu però molto limitata: uscirono appena 22 numeri, dal luglio 1945 all'ottobre 1946. Il Notiziario aveva uno stile asciutto, antiretorico e puntava sui contenuti. Quando il Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani rifondò, nel 1946, i “Nastri d'argento”, Il documentario prodotto dal Luce Nuova, La Valle di Cassino di Giovanni Paolucci, ottenne il premio per il miglior documentario. Alla Manifestazione del Cinema di Venezia dello stesso anno, il Notiziario Nuova Luce ottenne, dalla commissione internazionale dei giornalisti, la segnalazione per il miglior cinegiornale d'attualità dell'anno. Nonostante questi importanti riconoscimenti, l'Istituto venne messo in liquidazione, con il decreto legislativo n. 305 del 10 maggio 1947. Dietro le insinuazioni di continuità con il Luce fascista, si celava la volontà di agevolare la Incom, che si rivelava in maniera sempre più esplicita un utile strumento di propaganda democristiana e filoamericana. Del nastro d'argento al Notiziario Nuova Luce, la Settimana Incom dà sbrigativamente notizia nella chiusura del servizio “Nel mondo del cinema. Il nastro d'argento”, Settimana Incom n. 19, 14 agosto 1946. Un breve cenno al documentario premiato a Venezia è nel servizio “Il mondo del cinema. La Mostra di Venezia”, Settimana Incom n. 22, 6 settembre 1946.
55 «La società era piccola ma solida, finanziata da un gruppo di signori svizzero-milanesi di grande intelligenza affaristica, soprattutto i Cedraschi. E facemmo in quegli anni un cinegiornale che era l'unico mezzo audiovisivo che avessero gli italiani per vedere le cose, se si pensa che la televisione è cominciata nel '53. Io mi sono occupato della Incom dal '46 al '51, e in quei cinque anni ho fatto, credo, seicento numeri come redattore capo.», D. Paolella, in F. Faldini e G. Fofi, op. cit., pp. 132-133.
56 Nel n. 38 del 23 dicembre 1946, Pallavicini presenta i suoi collaboratori: “[…] Paolella, per chi non lo sapesse, è il redattore capo. Per lui l'avvenimento è un nastro di celluloide: dal suo ufficio, come da un posto di blocco ferroviario, egli manovra cataclismi, eruzioni, incendi, e altre piccolezze del genere, nel preciso instante in cui stanno trasformandosi in celluloide. […]”, “Parliamo un po' di noi”, La Settimana Incom n. 38, 23 dicembre 1946. Paolella fu anche sceneggiatore e regista. Negli anni '50 si dedicò soprattutto a pellicole musicali e mitologiche. Tra i suoi film più celebri, Destinazione Pievarolo, con Totò.
57 Nel sopracitato n. 38 della Settimana Incom, Guido Notari è presentato attraverso un brevissimo spezzone di film in cui figura come attore, nella parte di un uomo che suona il pianoforte, in stato di ebbrezza. Questo spezzone è lo stesso che la Incom aveva inserito nel documentario Cinque minuti con… Cinecittà del 1939, preceduto da brevi immagini del film - di propaganda coloniale - Abuna Messias. Nel servizio della Settimana Incom compaiono infatti anche le immagini del film fascista, senza, ovviamente, che ne sia citata l'origine. La voce fuori campo, che è quella dello stesso Notari, dice: “Beh! Ma cosa mi stanno combinando? Io, Guido Notari, che in questo momento vi sto parlando, non vesto affatto lo smoking, ma una giacca marrone! Io non bevo, non faccio il gagà! E Guido, Guido, non me li fare questi scherzi! Ma ecco che Gervasio [colui che metteva in musica le immagini] inverte la marcia della moviola [anche
quest'“inversione di marcia”, sulle scene di Abuna Messias, proviene dal documentario del 1939]. Quante signore e signori di nostra conoscenza vorrebbero possedere questa macchina per tornare indietro! Stop, bloccato! Beato Gervasio, che può bloccare il corso degli avvenimenti![…]”. È forse azzardato affermare che ci sia un messaggio di sapore nostalgico in questa parte del servizio, ma, considerando che la provenienza di quelle immagini poteva essere colta solo dagli autori stessi (o dai grandi estimatori del film Abuna Messias), la scena potrebbe rappresentare un “gioco” tutto interno, tra le righe di un servizio brioso e innocente. Un'altra ipotesi è che, in modo meno celato e in linea con la nuova professione di antifascismo della Incom, si facesse riferimento alla nostalgia altrui (“Quante signore e signori di nostra conoscenza […]”).
58 Per una ricostruzione dettagliata della figura di Debenedetti cfr. P. Frandini, Il teatro della memoria. Giacomo Debenedetti dalle opere e i documenti, Manni, Lecce, 2001. A questo lavoro si deve il recupero delle frammentarie notizie sulla collaborazione di Debenedetti alla Incom e il riconoscimento dell'importante ruolo che egli ebbe come unico autore dei commenti parlati.
59 Nei nn. 38 e 107, rispettivamente del 23 dicembre 1946 e del 27 dicembre 1947, che concludono gli anni 1946 e 1947, viene presentata la redazione del cinegiornale, ma Debenedetti non è citato.
60 La Frandini, in Giacomo Debenedetti e la «Settimana Incom» (in «Strumenti critici», a. XXII, n. 2, maggio 2007), tende ad evidenziare i riferimenti “colti” presenti nei testi dei servizi Incom, non solo come palese firma dell'intellettuale, ma anche come espressione degli spazi di autonomia che egli era in grado di ritagliarsi. Se consideriamo poi la politica del Pci di Togliatti nei primi due anni del dopoguerra, tesa a mantenere in piedi l'alleanza con la Dc, obiettivo al quale i comunisti sacrificarono più di una battaglia, il ruolo di Debenedetti all'interno della Incom risulta meno incomprensibile.
61 D. Paolella, in F. Faldini e G. Fofi, op. cit., pp. 132.
62 I testi dattiloscritti, che abbiamo inserito in appendice, evidenziano il controllo operato, presumibilmente, da Pallavicini e le correzioni apposte a mano. In alcune note rivolte a Debenedetti compare il suo nome: nel testo dattiloscritto relativo al n. 173 del 22 luglio 1948, sulla campagna elettorale americana, troviamo un appunto in cui l'autore dei testi viene caldamente invitato a correggere il tiro (“Niente spirito Giacomo, per favore… Spiegare il duello fra i due e essere chiaro. Solo una spiritosaggine finale.”). Nel n. 339 troviamo un riferimento ancora più esplicito: “Il signor Debenedetti, nel redigere il commento parlato, è pregato di mettere in evidenza […]”.
63 P. Frandini, Il teatro della memoria, op. cit., p. 233.
64 Ogni numero è costituito da 6-7 servizi, la cui durata è compresa tra i 40 secondi e i due minuti (salvo notizie di particolare rilievo, che occupano un tempo maggiore). Alcuni eventi “cruciali”, come le elezioni, impegnano l'intero numero.
65 “[…] Primatista tra i divoratori di scatolame [scatole di pellicole sugli avvenimenti ripresi] Borracetti: ogni giorno riceve a chilometri il mondo in scatola, e lo passa al capo cronista Cancellieri, martire delle forbici e del telefono [possibile riferimento alla censura] L'ignaro passante domanda atterrito: «Cos'è, una caserma dei pompieri? [i cronisti escono dalla sede Incom e si infilano veloci nelle auto]», «No!», riponde Giovanni, l'olimpico usciere, «Ma sta succedendo un avvenimento, signore». D'improvviso, un colpo di silenzio [uomo alla moviola]. Eppure è proprio qui che nasce il suono: Gervasio è il maestro che mette in musica le notizie […]”, “Parliamo un po' di noi”, La Settimana Incom n. 38, 23 dicembre 1946.
66 In ogni regione era presente una troupe, formata da regista, operatore, aiuto operatore e organizzatore. Nella capitale le troupe a disposizione erano addirittura cinque.
67 La Presidenza del Consiglio, che aveva la necessità di fornire anche all'estero un immagine positiva dell'Italia nel pieno fermento della ricostruzione, commissionò alla Incom alcuni numeri destinati all'esportazione.
68 D. Paolella, in F. Faldini e G. Fofi, op. cit., pp. 133.
69 Fin dal 1948, la Settimana Incom godette di una distribuzione capillare, che, grazie a un accordo che riduceva il prezzo del noleggio, portava il cinegiornale anche nei cinema di bassa categoria. Le attualità di Pallavicini erano maggiormente diffuse al nord e in particolare in Emilia Romagna e Piemonte.
70 Alla morte di Guglielmone la Incom dedicò un lungo servizio celebrativo: “L'ultimo viaggio terreno del senatore Guglielmone”, La Settimana Incom n. 1732, 28 gennaio 1959. La Incom cita Guglielmone in 87 servizi dal 1946, quando egli era Presidente della Commissione economica del Cln, al 1960 in occasione del primo anniversario della morte.
71 D. Paolella, in F. Faldini e G. Fofi, op. cit., pp. 133. I legami politici e finanziari della Incom erano noti: quando, nel 1950, si discusse al senato della possibilità o meno di consentire all'Istituto Luce di produrre nuovamente cinegiornali (dopo la sua messa in liquidazione nel 1947), arrivò puntuale la denuncia del parlamentare Menotti, nella seduta del 21 novembre: «La Incom è nelle mani di un gruppo finanziario e bisogna dire che questa Incom presenta gli spettatori una produzione deteriore e, quel che è peggio ancora, una produzione volutamente tendenziosa, di propaganda politica di parte».
72 G. P. Brunetta, Storia del cinema italiano 1945-1980, Editori Riuniti, Roma, 1982, pp. 47-48.
73 «La Incom finì perché, in Italia, tutto diventa presto senile; perché le persone che l'hanno fatta a un certo punto l'hanno abbandonata.», D. Paolella, in F. Faldini e G. Fofi, op. cit., pp. 133. L'ultimo numero della Settimana Incom è il 2554 del 1° marzo 1965.
74 F. Monteleone, Dalla pellicola alla telecamera: l'informazione per immagini tra stereotipo sociale e controllo politico, in A. Sainati (a cura di), op. cit., p. 126.
Giulia Mazzarelli, L'Italia del secondo dopoguerra attraverso i cinegiornali della "Settimana Incom" (1946-1948), Tesi di dottorato, Università degli Studi di Cagliari, 2011

domenica 13 novembre 2022

Nel 1947 Milano rappresenta il cuore della tendenza estremista interna al partito comunista


Tornando indietro a settembre, come già ricordato, la conflittualità operaia urbana diviene il caposaldo della politica del conflitto dei ceti subalterni e del movimento comunista. Sono numerosi e imponenti gli scioperi dell’autunno, dove vengono lanciate parole d’ordine radicali che richiamano alle aspirazioni autonomiste del ’45:
"Mentre raffiche di licenziamenti si abbattono sulla Caproni, sulla Lagomarsino, sull’Isotta Fraschini, le Rubinetterie alla fine del novembre 1947 diventano un caposaldo decisivo perché, dicono i dirigenti camerali, la Edison è il cuore della Confindustria e se la Edison ci rimetterà le penne tutta la Confindustria subirà l’influsso di questa sconfitta. […] 'Bisogna dare un colpo più energico'. E questo è costituito appunto dal fatto che il comitato d’agitazione prenda in mano la gestione della fabbrica, riesca a far marciare la produzione, anche se è impossibile immetterla sul mercato 'perché il liquidatore della fabbrica diffida i clienti'. Nonostante simili difficoltà, l’autogestione risulta a parere dei dirigenti camerali il fattore decisivo che assicura nel giro di poco tempo una felice soluzione della vertenza, con la revoca del provvedimento di liquidazione. […] L’esempio delle Rubinetterie resta significativo, anche perché esso viene esportato di lì a poco nelle campagne […]. Nel dicembre 1947 si profila infatti lo sciopero dei mungitori della provincia, sciopero aspro per le rabbiose reazioni degli agrari e i loro propositi di violenza, sciopero pericoloso perché minaccia di privare del latte la città e riaprire le ostilità fra il centro urbano e la campagna, a tutto favore delle forze reazionarie. E allora la decisione caldeggiata dalla sinistra è quella che i mungitori si approprino del latte e diventino i diretti fornitori della città stessa: 'si tratta di una nuova forma di lotta', dichiara Busetto, richiamando espressamente l’esempio delle Rubinetterie per rassicurare al tempo stesso la minoranza cattolica […] 'non di un atto rivoluzionario che leda il principio di proprietà; è solo un diritto di pegno che i salariati prendono nei confronti degli agrari'." <408
Diversi sentimenti ruotano attorno alla forma conflittuale dell’autogestione: se per i lavoratori essa è pratica antagonista o al più rivoluzionaria, i dirigenti invece tendono a presentarla come espressione di quella disciplina del lavoro propria della classe operaia secondo l’ideologia della ricostruzione. I lavoratori sono portatori di quel senso di responsabilità nazionale e collettiva di cui, invece, i padroni non sono capaci. Intendiamoci: la cultura del produrre, l’idea che 'prima di prima di esprimere ogni rivendicazione è necessario aver compiuto il proprio dovere' <409, è radicata e diffusa tra i lavoratori manuali da diverse generazioni; il primo operaismo, quello del Partito operaio che non permetteva l’iscrizione a intellettuali e studenti, ha nel culto della fatica fisica e della produzione un proprio carattere fondativo.
"Il senso del dovere rispetto al proprio lavoro è, infatti, profondamente radicato in questi operai perché il lavoro stesso, la posizione professionale, costituisce, probabilmente, l’asse portante sul quale si incentra la loro identità sociale e la loro autostima. Il lavoro è lo strumento attraverso il quale realizzare l’ambizione a migliorare la propria condizione sociale e di lavoro: in questo senso, si tratta ancora di operai di professione per i quali il mestiere è una sfera di difesa che protegge la loro autonomia e consente una resistenza che condiziona in senso limitativo l’autorità imprenditoriale." <410
Carattere centrale di questo produttivismo, però, è proprio la difesa della propria dignità e della propria posizione di forza, di potere, conquistata: mai la subalternità che, invece, a volte essi riconoscono nella retorica della Ricostruzione proposta da governi, imprenditori e, spesso, dai loro stessi dirigenti sindacali e di partito. La loro è dunque una 'collaborazione antagonista': "quando i tentativi imprenditoriali di riprendere il pieno possesso dell’organizzazione produttiva provocheranno i primi interventi sui tempi di lavoro e sui cottimi, la reazione operaia sarà immediata perché verrà messa in discussione la possibilità di lavorare secondo le regole consuetudinarie di un orgoglioso sapere operaio e verranno attaccati gli spazi di autonomia decisionale dei lavoratori. Nei primi anni del dopoguerra - almeno fino al 1948 e, seppure in forme più contrastate, anche nel 1949 - ciò non avviene: i militanti operai riescono infatti ad avere una parte preponderante nel definire le regole del proprio lavoro e dell’attività produttiva in fabbrica e - per quanto possa apparire in un primo momento paradossale - proprio per questa loro forza antagonista si dispongono favorevolmente verso le ipotesi di collaborazione produttiva con la controparte." <411
La crisi nera di Milano, che vede un’economia cittadina sull’orlo del collasso, vede in condizione particolarmente precaria le piccole e medie aziende, mentre le grandi sono minacciate dalla rottura unilaterale da parte della Confindustria sulle trattative legate al rinnovo della tregua salariale. L’offensiva padronale, forte di un primo successo nella vertenza sulle assemblee di fabbrica e sull’indebolimento delle Commissioni interne, utilizza anche le serrate (nonostante il loro divieto formale) durante la vertenza della FIOM sul rinnovo del contratto di categoria: la Camera del Lavoro risponde con uno sciopero di 48 ore il 16-17 settembre. Il 24 ottobre, invece, un imponente sciopero di Milano e provincia risponde all’aut-aut degli industriali sullo sblocco totale dei licenziamenti.
Sull’onda di questa nuova, breve, stagione del controllo operaio viene convocato a Milano, il 23 novembre, il congresso nazionale dei consigli di gestione, su impulso in particolare di Luigi Longo e dell’ex presidente CLNAI, il socialista Rodolfo Morandi. Intervengono oltre 7000 delegati di commissioni interne e CDG, secondo la segreteria del PCI il congresso "dovrà rappresentare la prima tappa conclusiva di un grande movimento di massa, guidato dalle forze del lavoro, che passano al contrattacco per arrestare e capovolgere l’azione che i gruppi capitalistici sviluppano in Italia con l’appoggio del governo nero". Mentre, nella sua mozione finale, l’assise "fa voti perché tutte le forze e i movimenti democratici si affianchino in un grande fronte del lavoro, della pace, della libertà, per un profondo rinnovamento strutturale della società italiana, che sottragga l’economia nazionale al dispotico arbitrio e al sabotaggio dei gruppi capitalistici e monopolistici dominanti, e la salvi dal marasma e dalla catastrofe […]. La salvaguardia della nostra industria e l’avvio alle riforme di struttura…non possono venire che dalla classe lavoratrice…La forma attraverso la quale la classe lavoratrice adempie a questa sua funzione è quella del controllo delle forze del lavoro sulla produzione attuato con i Consigli di gestione. […] la lotta per i Cdg diventa ormai una lotta di liberazione dall’oppressione dei gruppi monopolistici che dovrà essere condotta con lo stesso spirito con cui l’”altra” lotta di liberazione portò appunto alla nascita dei Cdg." <412
La preoccupazione della Direzione comunista, sia quella regionale che nazionale, è che la nuova linea di contrattacco di partito e sindacato venga scambiata per una parola d’ordine rivoluzionaria e insurrezionale (e che 'con lo stesso spirito' sia interpretato dalla base come 'con gli stessi mezzi'). Si vuole evitare da un lato la rottura definitiva con la minoranza cattolica interna alla CGIL unitaria e, dall’altro, salvaguardare l’esistenza legale del movimento comunista. Togliatti diffida dell’azione extraparlamentare (questo è il principale punto di divergenza con Secchia e gli operaisti), vorrebbe indirizzare tutte le energie della base in chiave elettoralistica, isolando al tempo stesso il classismo settario e aprendo ai ceti medi. Da questo punto di vista, Milano rappresenta il cuore della tendenza estremista interna (sia a livello di dirigenza che di base) e uno degli ostacoli più importanti al consenso nei confronti della teoria della democrazia progressiva.
Tuttavia la sua prospettiva era già in parte entrata in crisi per il mutato quadro politico all’indomani delle elezioni di giugno ’46 e con il radicalizzarsi del conflitto sociale nell’estate-autunno dello stesso anno:
"La 'democrazia progressiva' è una formula nella quale possono essere compresi diversi contenuti: in termini generali indica senza dubbio una strategia gradualistica, tesa a modificare progressivamente i rapporti di forza a favore della sinistra e del PCI, concretando così in misure socialmente sempre più incisive e radicali il mutamento che questo partito si propone. Ma la 'democrazia progressiva' ha come termine di riferimento - almeno all’inizio - un sistema politico, quello perseguito dai comunisti, che proprio intorno alla metà del 1946, con il referendum e le elezioni della Costituente, appare ormai irraggiungibile. […] D’altra parte, l’azione concreta al governo, dalla svolta di Salerno in poi, valorizza oggettivamente gli elementi di continuità col passato piuttosto che quelli di rottura." <413
Le concessioni all’ala dura e alle pressioni della base, portano Togliatti ad ammettere la possibilità di uno scontro violento, che non avrebbe certo visto i comunisti sottrarvisi; ma ciò non significa abbandonare l’asse della democrazia progressiva, la cui validità viene confermata in un contesto politico dove l’offensiva conservatrice è interpretata come attacco diretto alla democrazia, con tentativi provocatori di indurre il PCI a riadottare la prospettiva greca che ne avrebbe determinato l’uscita dalla legalità. Democrazia progressiva, ora, significa lotta sul piano istituzionale-elettorale, sempre prevedendo la “carta” della pressione da conflitto, per rovesciare i settori più retrivi e reazionari della borghesia. Su questo, nonostante le divergenze tattiche, si trova d’accordo con Secchia, il quale ribadisce: "noi non lavoriamo affatto con la prospettiva della guerra civile." <414
L’importante però per il Migliore è che "Anche in questo caso il partito mantenga un orientamento democratico. Questa impostazione la ritroveremo in molti discorsi e interventi successivi, e in particolare - non a caso - dopo il 18 aprile, e indica fino a che punto la democrazia progressiva, intesa come una democrazia in movimento, sia considerata insidiata dalla reazione […]. " <415
L’episodio di convergenza delle molte cause della conflittualità sociale è la cosiddetta 'guerra di Troilo': Ettore Troilo è uno degli ultimi prefetti nominati dal CLN rimasto in carica nel novembre del ’47; uomo del Partito d’Azione, di provata fede antifascista, è molto apprezzato dagli operai e dai sindacalisti della città. I rapporti tra lui e il ministro degli Interni sono tesi da tempo, per la differente modalità che hanno nel gestire l’ordine pubblico e le mobilitazioni dei lavoratori; nel momento in cui Troilo si rifiuta di reprimere uno sciopero indetto contro i licenziamenti, Scelba trova il pretesto per destituirlo. Per protesta, il sindaco socialista Greppi, il vicesindaco Montagnani e altri assessori si dimettono in solidarietà col prefetto; il loro esempio è seguito da altri 156 amministratori socialisti e comunisti della provincia. Non solo: il 28 novembre, prima che giungano militari e poliziotti a presidiare la prefettura, posta in stato d’assedio, le strade sono bloccate da migliaia di operai in sciopero giunti da Sesto e dalle principali fabbriche della città (Alfa Romeo, Isotta Fraschini, Caproni, Borletti, Brown Boveri, Pirelli, Breda, Bianchi, Magneti, Ercole Marelli), che occupano simbolicamente proprio il palazzo della prefettura in corso Monforte. Mentre vengono erette barricate e rispuntano le armi, da Roma giunge l’ordine al comando militare di assumere tutti i poteri amministrativi della città e della provincia. Milano è di fatto completamente bloccata e si giunge ad un soffio dallo scontro diretto tra militari, operai ed ex partigiani armati.
"L’annuncio ufficiale della cessazione del lavoro viene dato alle 13,30 e tutti i giornali sospendono le pubblicazioni, la radio stessa interrompe le trasmissioni, limitandosi a diffondere comunicati. Molti negozi abbassano le saracinesche, cinematografi e teatri sono chiusi. I tranvai vengono avviati verso le rimesse, mentre squadre di sorveglianza chiudono in centro i negozi e i cinematografi ancora aperti, bloccando anche le auto pubbliche che continuano a prestare servizio. Tutte le officine interrompono il lavoro. Verso le 16 giunge da Roma al generale Capizzi una disposizione in base alla quale tutti i poteri militari e civili nella città e nella provincia di Milano dovrebbero essere assunti dall’autorità militare. Mentre Genova si dichiara pronta allo sciopero generale, 'ventimila partigiani scendono in piazza Vittoria, da molte parti spuntano fuori le armi'." <416
La sommossa è guidata da Giancarlo Pajetta e da un comitato d’agitazione, cui non prendono parte le correnti moderate del sindacato unitario. Tra gli uomini del servizio d’ordine, sono presenti gli esponenti principali della 'Volante rossa'. Le decisioni prese dal Partito comunista milanese non furono influenzate solo dalle spinte della base, ma furono anche consapevole scelta dei dirigenti locali. Durante l’intera vicenda, Comitato centrale e Direzione del PCI seguono gli sviluppi degli eventi con una certa freddezza; sembra addirittura che, quando Pajetta telefona a Togliatti per informalo dell’avvenuta occupazione di Corso Monforte, questi abbia commentato: 'E ora cosa te ne fai?' <417. Mentre il pensiero di parte del gruppo dirigente milanese andava all’insurrezione, per prendere il potere in una situazione che sembrava favorevole, la Dirigenza a Roma esprime forte dissenso e invita a concludere i negoziati pacificamente. E qualche giorno dopo, quando si riunisce la Direzione, Pajetta subisce l’attacco sarcastico del segretario: "Credevi che la Bastiglia o il Palazzo d’Inverno fossero a tua disposizione a Milano per venire rovesciati od occupati alla baionetta? Bell’impresa. Quanti giorni o quante ore avresti resistito come un garibaldino fuori tempo massimo? So bene che ti chiami Nullo […]. Ma nulla avresti concluso." <418
Di fatto, dopo giorni di trattative locali e il silenzio da parte di Scelba e del governo centrale, si trova una sorta di accordo al ribasso per i sostenitori di Troilo: il prefetto viene infatti comunque destituito e al suo posto viene insediato un gretto burocrate di Pavia, invece dell’originale funzionario di Torino, che a Milano non aveva buona fama.
Pajetta da l’ordine di smobilitare e, nel giro di due giorni, i lavoratori rientrano negli stabilimenti. Al termine della vicenda, i vertici regionali del partito vengono sostituiti (segretario lombardo diventa Agostino Novella, dirigente fedele alla linea moderata); mentre i dirigenti milanesi, nonostante i richiami ufficiali, non vengono toccati. Prima di poterli isolare, Roma dovrà aspettare che passi la febbre partigiana e si costituisca una base di consenso attorno alla futura politica di rinnovamento.
Ma di questo ci occuperemo più avanti.
[NOTE]
407 C. Bermani, op. cit., p. 84
408 L. Ganapini, op. cit., pp. 250-51
409 L. Bertucelli, Nazione operaia, op. cit., p. 76
410 Ibidem, p. 77
411 Ibidem, p. 81
412 Documenti presentati al Congresso nazionale dei Consigli di gestione e delle Commissioni interne, p. 9, UESISA 1947, cit. in G. Galli, op. cit., pp. 178-79
413 R. Martinelli, op. cit., pp. 109-10
414 E. Collotti (a cura di), Archivio Pietro Secchia (1945-1973), p. 110, Feltrinelli 1973
415 R. Martinelli, op. cit., pp. 303-04
416 C. Bermani, op. cit., p. 89
417 A. Cossutta, Una storia comunista, p. 50, Rizzoli 2004
418 Riferito in M. Caprara, Il sedativo Togliatti, Il Giornale 12 agosto 1987, cit. in C. Bermani, op. cit., p. 91

Elio Catania, Il conflitto sociale: “motore della Storia” o “tabù” storico-politico. Il caso di Milano nel secondo dopoguerra, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2016-2017