Pagine

Visualizzazione post con etichetta 1945. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta 1945. Mostra tutti i post

domenica 16 aprile 2023

Cenni sulla Resistenza in provincia di Parma

Fornovo di Taro (PR). Fonte: Wikipedia

Nei concitati giorni della proclamazione dell’Armistizio anche il Comitato d’azione antifascista parmense intensifica gli sforzi. In una riunione tenutasi a Mariano il 9 settembre, nella villa del professor Angelo Braga, viene presa la decisione di coordinare gli sforzi degli esili gruppi antifascisti presenti sul territorio e cominciare ad organizzare una concreta opposizione agli occupanti <8. Da subito il nascente CLN si impegna per offrire aiuto e sostegno logistico ai militari alleati in fuga dai campi di prigionia, cercare armi, imbastire una rete di contatti. Il 15 ottobre, nello studio dell’avvocato Francesco Micheli, dirigente del Partito Popolare ed esponente di spicco dell’antifascismo parmense, si costituisce formalmente il Comitato di Liberazione Nazionale di Parma, struttura provinciale di organizzazione e coordinamento della nascente lotta antifascista. Ne fanno parte comunisti, socialisti, cattolici, repubblicani, liberali, azionisti <9.
Il CLN così costituito deve preoccuparsi di imbastire un’efficiente rete di comunicazioni con i centri del movimento partigiano. Ad attendere a questi compiti sarà un esercito di staffette, che costituiranno, per tutti i mesi della lotta partigiana, i nodi fondamentali di una rete clandestina di comunicazione e informazione. Le staffette sono tradizionalmente, nella memorialistica sulla Resistenza, donne. Per loro era forse più semplice muoversi liberamente sul territorio, destando minori sospetti dei colleghi maschi. Un compito importante che però non esaurisce la varietà dei ruoli ricoperti dalle circa 460 resistenti riconosciute in Provincia di Parma che, per tutti i mesi della lotta partigiana, cureranno feriti, faranno opera di propaganda, consegneranno stampa clandestina, organizzeranno manifestazioni pubbliche, prenderanno parte a combattimenti <10.
All’indomani dell’Armistizio si pongono anche le basi per la formazione delle squadre SAP (Squadre di Azione Patriottica) e GAP (Gruppi d’Azione Patriottica), vere e proprie cellule partigiane clandestine dislocate in città, composte da persone che, anziché abbandonare le proprie case e unirsi alle bande della montagna, continuano a vivere nella propria dimora e mantenere un normale impiego, dietro cui mascherano l’attività di guerriglia, sabotaggio e spionaggio.
Al progressivo consolidamento delle forze antifasciste si accompagna la rapida stabilizzazione del potere tedesco in città: tra settembre ed ottobre il controllo militare e amministrativo della provincia di Parma passa nelle mani del Militärkommandatur 1008, l’amministrazione militare tedesca, stabilitasi a ridosso della Cittadella, tranquillo quartiere residenziale lontano dai possibili obiettivi dei bombardamenti alleati <11.
[NOTE]
8 Gorreri D., Parma ’43. Un popolo in armi per conquistarsi la libertà, Parma, Step, 1975.
9 Istituto Storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Parma, I caduti della Resistenza di Parma 1921-1945, Parma, Step, 1970, p. 159.
10 Pieroni Bortolotti F., Le donne della Resistenza antifascista e la questione femminile in Emilia Romagna: 1943-1945, Milano, Vangelista, 1978.
11 Klinkhammer L., Una città sotto l’occupazione tedesca: il caso di Parma, in «Storia e documenti», 5, 1999.
Iara Meloni, Occupazione tedesca e lotta di Liberazione a Parma: una breve introduzione storica in Stefano Rotta, Partigiano Carbonaro. Un ragazzo nella Prima Julia, Parma, Graphital, 2015

In questo capitolo ci si vuole soffermare e analizzare in che modo era strutturato il movimento partigiano parmense e che tipo di rapporti intercorrevano tra i comandi (e organismi) provinciali e quelli regionali o nazionali. Non vuole essere questa la sede per analizzare le caratteristiche e le criticità dei Comitati Nazionali come il CLN o il CLNAI, che sono invece stati ampiamente ed egregiamente trattati da storici come Roberto Battaglia, Claudio Pavone o Santo Peli. <46 Al di là quindi degli organi nazionali, ciò che interessa è focalizzarsi su quelli locali, cercando di dipanare la complicata rete di rapporti interni alla provincia di Parma ed esterni ad essa.
Nel precedente capitolo si è visto come il movimento resistenziale, sin dal suo esordio, sia stato guidato da un organizzazione a carattere nazionale, il CLN <47 appunto, che rappresentava quindi il vertice delle gerarchie di comando. Da questo organo si diramavano e si collegavano tutti i vari Comitati Nazionali sorti nelle città; nel caso di Parma, ricordiamo, questo si formò il 15 ottobre 1944. La fitta rete di collegamenti, non passava direttamente dal CLN nazionale a quelli locali, ma si rapportava anche con organi intermedi, a carattere regionale; per l’Emilia Romagna, era il caso del CUMER (Comando Unico Militare Emilia Romagna). La costituzione dei Comandi regionali si deve all’iniziativa comunista che propose, scrive Battaglia, “di trasformare le vecchie giunte militari in Comandi veri e propri, dotati della necessaria autonomia” <48. I Comandi regionali erano modellati sulla base del Comando Centrale, alle dipendenze del CLNAI, che nacque il 9 giugno 1944 con la costituzione del “Comando Generale per l’Alta Italia occupata del Corpo volontari della libertà” <49.
Alla costituzione del CVL, corrispose una spartizione delle competenze: sommariamente, le attribuzioni del CLNAI erano principalmente di natura politica, quelle del CVL, di carattere militare <50. Al pari di quello centrale, anche i Comitati di Liberazione provinciali e i Comandi locali si basavano su questa divisione. Nel caso parmense, si è visto come nel marzo del 1944, per motivi organizzativi, dal CUMER si formò la Delegazione Nord Emilia, con competenza sulle province di Parma, Reggio e Piacenza <51.  I contatti con il Comando Delegato avvenivano grazie alla costituzione a Fornovo, un paese della provincia parmense, di un Centro Collegamenti del Comando Nord Emilia, nel giugno 1944, affidato ai partigiani Bertini (Bruno Tanzi), Ferrarini (Enzo Costa) e Sergio (Alceste Bucci).
Per completare, sommariamente, il quadro dei rapporti tra la provincia parmense e gli altri organismi presenti sul territorio, è doveroso accennare anche alla presenza del Comando Alleato. Nonostante la scarna documentazione a riguardo, Leonardo Tarantini ci informa del fatto che i primi abboccamenti con gli Alleati risalivano al Natale del 1943. <52
I principali contatti con il Comando angloamericano avvennero per gli accordi relativi agli aviolanci; solo negli ultimi mesi prima della Liberazione, il Comando Alleato interverrà in una questione politica interna al Comando Militare parmense, questione che verrà analizzata successivamente, nel presente capitolo.
La gerarchia di comando non riguardava solo l’assetto nazionale, ma si riproponeva anche a livello provinciale. Nel caso di Parma, al pari delle altre città, il movimento era al suo interno rigidamente suddiviso. All’ultimo gradino della scala piramidale si collocavano le Brigate, gerarchicamente divise in Battaglioni, a loro volta suddivisi in Distaccamenti. Ogni reparto, ricordiamo, aveva il suo Comando composto dal Comandante, il Commissario, i rispettivi vice, l’Intendente e il Capo di Stato Maggiore. Salendo nella scala, al gradino intermedio, si posizionavano le Divisioni. Si tratta di raggruppamenti composti da diverse brigate, che si formarono nel parmense a partire dal febbraio 1945. Una relazione dell’ Ispettore del Nord Emilia, Umberto (Umberto Pestarini), ci informa sui motivi della riorganizzazione in Divisioni: “questo ultimo provvedimento, quello delle Divisioni, fa parte di un piano organico di riforma disciplinare e di dislocazione delle nostre forze […]”. <53 Naturalmente anche le Divisioni avevano il loro Comando. Infine al gradino più alto si trovava il Comando Unico Operativo, che coordinava le Brigate dipendenti e interagiva con i Comandi superiori. A differenza che per le vicine Piacenza e Reggio, a Parma si costituì la Delegazione del Comando Unico, operante nella zona ad Est della Cisa; in teoria essa era subordinata al Comando Unico, ma di fatto operava come autonoma. Sulle mansioni e le questioni inerenti al Comando Unico verrà dedicato un ampio paragrafo del capitolo.
[NOTE]
46 Cfr. R. Battaglia, Storia della resistenza Italiana, S. Peli, Storia della resistenza in Italia, C. Pavone, Una guerra civile.
47 sarebbe più preciso dire il CLNAI dal momento che a partire dal maggio 1944, “si considera a tutti gli effetti rappresentante del governo legittimo” cfr. R. Battaglia, Storia della resistenza italiana, p. 333.
48 R. Battaglia, Storia della resistenza italiana, cit. p. 339.
49 Ibidem
50 Per un approfondimento cfr. R. Battaglia, Storia della resistenza italiana, p. 439.
51 Il Comando Nord Emilia era così composto: Comandante: Mario Roveda (Bertola), Commissario: Emilio Suardi (Rinaldi), Vice Comandanti: Amerigo Clocchiatti (Lamberti) e Giovanni Vignali (Bellini), Ispettori: Enzo Costa (Ferrarini) e Bruno Tanzi (Bertini). Cfr. Fernando Cipriani, Guerra partigiana: operazioni nelle provincie di Piacenza, Parma e Reggio Emilia, p.7.
52 Cfr. L. Tarantini, Resistenza armata nel parmense, p. 67.
53 Archivio dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Parma (d’ora in poi AISRECP), Fondo Lotta di Liberazione, busta RI, fasc. QC, f. 19.

Costanza Guidetti, La struttura del comando nel movimento resistenziale a Parma, Tesi di laurea, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2017-2018

A Parma l'attività militare cittadina fu pressoché inesistente fino al 24 febbraio 1944, quando in centro venne ucciso un milite della GNR. Queste difficoltà di azione trovano conferma da quanto riportato nella Relazione della 12ª Brigata Garibaldi, che attribuiva ai GAP unicamente un'azione di recupero di armi per la montagna nel febbraio 1944. Eugenio Copelli “Gianni”, catturato dalla polizia in un'osteria del quartiere Oltretorrente nella serata del 9 marzo 1944 e ucciso subito dopo, veniva indicato quale comandante dei GAP di Parma da un volantino che lo descriveva come un eroico gappista, ma alla prova delle carte d'archivio risulta che dal colpo di febbraio fino al 10 aprile - quando sulla strada Parma-Colorno venne ferito gravemente da un ciclista un milite della Gnr - non si verificò più nessun attentato. Un ultimo colpo di coda del gappismo parmense si ebbe tra i mesi di maggio e luglio 1944, quando vennero segnalate dai Notiziari della GNR alcune sparatorie compiute da ignoti in bicicletta contro militi della RSI.
Maria Grazia Conti, Gruppi di azione patriottica (GAP) in Comando Militare Nord Emilia. Dizionario della Resistenza nell’Emilia Occidentale, Progetto e coordinamento scientifico: Fabrizio Achilli, Marco Minardi, Massimo Storchi, Progetto di ricerca curato dagli Istituti storici della Resistenza di Parma, Piacenza e Reggio Emilia in Rete e realizzato grazie al contributo disposto dalla legge regionale n. 3/2016 “Memoria del Novecento. Promozione e sostegno alle attività di valorizzazione della storia del Novecento”

Nella provincia di Parma le SAP si organizzarono a partire dall'estate del 1944 nella zona della bassa parmense limitrofa ai paesi di Colorno, Roccabianca, San Secondo e Mezzano di Sotto. Durante l'estate esse disarmarono alcune caserme, effettuarono frequenti sabotaggi alla rete telefonica, alle linee ferroviarie e ai cartelli stradali e sparsero sulle principali vie di comunicazione chiodi antipneumatici per bloccare i mezzi nemici, senza però riuscire ad innescare un movimento di massa nelle campagne circostanti. Queste problematiche furono denunciate nel novembre 1944 proprio dal Comando Terza zona che, in una nota al Comando generale delle brigate Garibaldi, lamentava «l'attendismo» delle comunità locali e la sconnessione esistente tra lotta militare e lotta politica. Sempre nel primo autunno del 1944 cominciò ad esserci traccia di nuclei sappisti anche nella zona a sud della via Emilia, ai bordi della città, ma le azioni, anche in questo caso, non andavano oltre qualche disarmo. Come è noto, i grandi rastrellamenti dell'inverno del 1945 costrinsero le SAP a ritirarsi in montagna per impedire gravose perdite di uomini, lasciando la pianura sotto il controllo dei nazifascisti.
Maria Grazia Conti, Squadre di azione patriottica (SAP) in Comando Militare Nord Emilia. Dizionario della Resistenza... op. cit.

domenica 19 marzo 2023

In sintesi, l’intelligence americana evidenziava che una penetrazione su larga scala dell’Italia era viepiù necessaria


 

In coerenza con il progetto che stava a cuore a Donovan, sin dal dicembre 1944 il Planning Group Office dell'OSS elaborò una speciale programmazione concernente l'istituzione di un articolato servizio d'intelligence nel Teatro del Mediterraneo, compresa l'Italia, da attuarsi nel periodo postbellico e, in particolare, nella delicata fase di transizione successiva alla cessazione delle ostilità con la Germania. Con particolare riguardo all'Italia, la pianificazione di un servizio d'intelligence nel periodo postbellico doveva essere finalizzata a salvaguardare la sfera d'influenza americana in Italia, avuto riguardo al fatto che l'assetto degli equilibri europei, come configurato dalle Nazioni Unite <84, non avrebbe impedito, nelle previsioni a lungo termine dell'intelligence americana <85, che altre Nazioni, non esclusi gli stessi Alleati, avessero mire su un Paese, quale l'Italia, di notevole importanza strategica scaturente dalla posizione nel Mediterraneo, approfittando della situazione di grande fragilità in cui versava il 'Bel Paese', che, a giudizio dell'OSS, era in rovina, sia economica sia politica e morale, incapace di ritrovare la sua unità e risollevarsi dalle sue ceneri, dopo un ventennio di dittatura fascista che aveva significato "la sua disfatta economica e psicologica" <86 e, in quanto tale, privo delle necessarie risorse sia psichiche e sociali sia materiali per fronteggiare un'eventuale politica d'influenza, se non di controllo, da parte di altre nazioni.
"Tuttavia non sarebbe saggio pensare che la costituzione di tale status impedirebbe ad altri paesi di mostrare interesse per l'Italia. Anche se l'Italia manterrà la sua sovranità e non diventerà proprietà fisica di alcun paese, si manifesteranno vari livelli d'interesse. La città di Roma, sin dal momento della sua liberazione, è stata un centro d'intrighi pullulante di rappresentanti di partiti e fazioni, del Vaticano, dei paesi dei Balcani, degli Alleati e di ex membri dell'Asse e loro satelliti, tutti impegnati a stringere alleanze, coltivare interessi e spiarsi l'una con l'altra. Una volta che debba essere stabilito un certo grado di controllo sull'Italia, la questione degli scopi e metodi diventa un problema di analisi politica, piuttosto che di controspionaggio e non c'è alcun dubbio che tale controllo, se controllo deve essere, sarà più saldo nelle mani degli Stati Uniti che non tirano acqua al loro mulino e rivestono il più ampio ruolo nella tutela della pace mondiale" <87.
Si consigliava, dunque, di approfondire l'indagine sui servizi segreti stranieri nel nord dell'Italia, soprattutto quelli russi e slavi, in collegamento con i comunisti italiani, indagine da condursi con alta priorità, da parte dei servizi di controspionaggio dell'OSS, non solo perché si trattava di una sfida per gli Stati Uniti in Europa da non declinare, ma anche perché offriva una splendida opportunità, favorita dalla "confusione del momento", la volatilità delle alleanze che "cambiano di giorno in giorno e si vendono al migliore offerente (se offerenti vi sono)", l'ambiguità e, infine, la mancanza di lealtà, per infiltrare su larga scala agenti americani in Italia <88.
In sintesi, l'intelligence americana evidenziava che una penetrazione su larga scala dell'Italia, non solo del paese, in quanto tale, e dei suoi servizi segreti, ma anche dei servizi segreti stranieri, ivi operanti, era viepiù necessaria, giacché molti paesi erano interessati all'Italia e molti lo sarebbero diventati, per le ragioni di cui sopra, mentre per gli Stati Uniti essa si presentava non solo possibile, ma anche favorita dalle seguenti condizioni: -l'ampia copertura, nel senso che l'Italia, più di ogni altro paese europeo, eccettuata la Germania, era stata messa in ginocchio dalla guerra e gli Stati Uniti, mostratisi più affidabili e meglio equipaggiati di ogni altra nazione, avrebbero potuto giocare un ruolo di prim'ordine nella ricostruzione economica italiana; - il favorevole atteggiamento nei confronti degli Stati Uniti sia della polizia di Stato che dei servizi segreti italiani, con i quali l'OSS, come sopra visto, aveva nel corso della sua campagna d'Italia, instaurato ottime relazioni. Era, dunque, necessario che gli Stati Uniti si dotassero di un servizio permanente d'intelligence e, in particolare, di un potente e ramificato servizio di controspionaggio, al fine sia di garantire la sicurezza dello spionaggio 'positivo' sia di neutralizzare lo spionaggio da parte degli altri paesi stranieri in Italia e, così, controllare, anche indirettamente, l'intelligence di ogni potenziale nemico degli Stati Uniti in Europa.
Secondo le linee fondamentali della strategia d'intelligence postbellica dell'OSS nel Teatro del Mediterraneo, quindi, le operazioni speciali si sarebbero dipartite dall'Italia, quale centro strategico del Teatro del Mediterraneo e dalle sue stazioni sarebbero state dirette e coordinate e, in particolare:
- il servizio d'intelligence, di competenza del SI, avrebbe continuato a svilupparsi in e dai paesi del Teatro, sia neutrali sia occupati ovvero liberati, sotto la direzione dei comandi militari nei paesi, ove fosse costituito un Governo Militare Alleato con un comandante americano, ovvero di un rappresentante militare dell'OSS presso le competenti commissioni dell'ACC in quelli, dove si fosse insediata la Commissione Alleata di Controllo;
- le attività di competenza del SO sarebbero state, poi, circoscritte alle aree soggette all'occupazione e controllo militari e sarebbero state condotte secondo le direttive dei comandanti militari;
- la Research & Analysis (R & A) avrebbe proseguito la sua fondamentale attività di raccolta, analisi e studio d'intelligenze per conto dell'OSS e le altre agenzie militari americane.
"Le attività dell'OSS nel Teatro del Mediterraneo durante questo periodo saranno condotte in conformità della seguente politica:
1. Inizialmente le attività dell'OSS prescritte da questo programma saranno controllate e coordinate dalle stazioni in Italia. (…) Appena sarà cessato il bisogno di basi nel Mediterraneo (…) il personale dovrà essere trasferito o rilasciato appena possibile;
2. L'attività d'intelligence continuerà a svilupparsi in e da tutti i paesi occupati, liberati e neutrali del Teatro del Mediterraneo e si diffonderà in conformità alle previsioni del presente programma;
3. Nelle aree dove si sia insediato un governo militare alleato con a capo un comandante americano, l'attività d'intelligence dell'OSS sarà diretta da quest'ultimo;
4. La R & A continuerà a svolgere nel Teatro del Mediterraneo la sua funzione di raccolta e analisi delle intelligenze segrete per l'OSS, l'Esercito, la Marina, le Commissioni Alleate Centrali e i Capi delle Missioni Diplomatiche degli Stati Uniti(…);
5. Le attività del SO saranno limitate alle aree soggette all'occupazione e controllo militari e saranno condotte secondo le volontà dei comandanti militari (…);
6. Le unità dell'OSS dovranno essere assegnate al rappresentante militare anziano dell'OSS presso le competenti commissioni dell'ACC e assoggettate alla supervisione e controllo di quest'ultimo in quei paesi, ove tali commissioni si sono insediate;
7. Nel Teatro saranno sviluppati le comunicazioni e i relativi servizi, nei limiti in cui siano necessari allo svolgimento delle attività avanti delineate;
8. Richieste per un aumento dei fondi in vista dell'incremento di tali programmi saranno inoltrate nel rispetto delle regole in vigore a Washington e sul campo" <89.
Poste queste linee programmatiche complessive, gli obiettivi che l'OSS si prefisse di conseguire nel Teatro del Mediterraneo, nel periodo in esame, si concentrarono, primariamente, nello sviluppo e implementazione di una rete d'intelligence in e dall'Italia, compresa la Sicilia, da un lato, e nella conduzione di operazioni speciali a diretto supporto delle Forze militari nelle aree liberate e soggette all'AMG nonché in quelle ancora occupate dal nemico, dall'altro. Con riguardo particolare al primo obiettivo, il programma prescrisse che il SI dell'OSS del Mediterranean Theatre of Operations (OSS/MTO) si sarebbe avvalso delle fonti già acquisite e consolidate in Italia per l'acquisizione d'informazioni segrete ritenute importanti per l'esercito, la marina, l'OSS, l'AC e gli altri dipartimenti e agenzie governative statunitensi, mantenendo, così, le proprie basi in Italia, sempre nel rispetto delle direttive del Comando Militare Americano del MTO, l'AC, l'OSS dell'European Theatre of Operations (ETO) e l'OSS di Washington e, altresì, conservando stretti contatti con le altre basi del SI in Europa e coordinandosi con gli altri servizi segreti alleati. Per il conseguimento dei suddetti obiettivi furono pianificate le seguenti missioni:
a) raccogliere dalle fonti segrete informazioni militari, politiche, economiche, sociologiche, psicologiche e tutte quelle che fossero state richieste dalle agenzie competenti sopra citate;
b) elaborare e valutare le informazioni raccolte e trasmettere rapporti segreti al Comando Militare Americano del Teatro del Mediterraneo, all'AC, all'OSS del Teatro Operativo Europeo, all'OSS di Washington e al Capo delle Missioni Diplomatiche degli Stati Uniti <90;
c) classificare le informazioni raccolte secondo le seguenti categorie: -militari (concernenti "la posizione e la forza di bande di guerriglieri nemici ovvero gruppi di opposizione e sovversivi operanti in o dall'Italia, con particolare attenzione alle organizzazioni sviluppatesi di recente"; "attività di opposizione al controllo o al governo civile alleato"; "armi e dispositivi segreti, con particolare riguardo alle armi … non usate durante la guerra", "sviluppi scientifici segreti"; "metodi di comunicazione segreti"; "basi militari, stazioni radio e arsenali segreti in Italia e altrove"; piani di fuga clandestina di personale militare nazista e/o fascista in Italia o altrove; "tecniche di difesa segreta contro incursioni aeree o altre attività militari", etc.); -politiche (concernenti eventuali attività di contrasto al controllo o al governo civile alleato in Italia in violazione dei termini dell'armistizio; il Governo italiano, la sua composizione, le sue politiche sia interne sia internazionali e i rapporti con gli altri Poteri; partiti e gruppi politici; le attitudini politiche del popolo italiano, con particolare riguardo alle "reazioni alle politiche delle Nazioni Unite"; tendenze separatiste di alcuni elementi della popolazione; posizioni politiche della Chiesa; etc.); -psicologiche e sociali (concernenti la posizione e condizione dei prigionieri di guerra alleati in Italia); "il morale della popolazione italiana e gli effetti degli stenti vissuti in tempo di guerra"; "l'attitudine della popolazione italiana verso le Nazioni Unite"; effetti dei mutamenti demografici, etc.); -economiche e finanziarie (aventi a oggetto attività poste in violazione dei termini economici e finanziari degli accordi post-bellici); accordi commerciali, industriali o finanziari segretamente stipulati tra l'Italia e gli altri Stati; cartelli e affari che vedevano coinvolti anche gli interessi economici di Tedeschi e Fascisti; prove della continuità della partecipazione tedesca alla gestione delle industrie italiane e in particolare nel nord dell'Italia) <91;
d) provvedere, in collaborazione con l'OSS di Washington, ai necessari adattamenti dell'organico rispetto alle esigenze di implementazione del programma in esame.
Complementare fu, poi, uno speciale programma d'intelligence postbellico di competenza di un'altra fondamentale Divisione dell'OSS in Italia, lo X-2, titolare del servizio di controspionaggio dell'OSS, che, in una situazione che si prospettava pullulante di organizzazioni avverse di spionaggio, controspionaggio e sovversive operanti in e attraverso la penisola, anche dopo la cessazione delle ostilità, avrebbe dovuto non solo mantenere, ma anche estendere il suo servizio per l'Italia per tutto il periodo postbellico e, altresì, reclutare e addestrare personale aggiuntivo, ove richiesto dall'OSS per il Teatro del Mediterraneo, al fine di implementare il programma sopra enunciato.
[NOTE]
84 Si consultino i documenti finali delle conferenze di Yalta del febbraio 1945 e Potsdam del luglio 1945 che statuirono rispettivamente la ripartizione delle rispettive sfere d'influenza sull'Europa tra le potenze vincitrici e dopo la resa ufficiale della Germania, la definizione degli equilibri europei. Reperibili on line in www.lasecondaguerramondiale.it.
85 Si fa riferimento a un dettagliato studio, recante una data parzialmente illeggibile e annotata a mano probabilmente del 6 novembre 1945, sulle condizioni dell'Italia nel periodo postbellico e al ruolo dell'intelligence americana in Italia. L'autore è il capitano italo-americano Roberto Bellini, il quale antepose al proprio rapporto dattiloscritto alcuni commenti autografi di esemplare chiarezza. "Una stretta alleanza con l'Italia dipende dall'esito delle libere elezioni. Il pericolo dell'attuale collaborazione con l'Italia è di perdere la confidenza della Gran Bretagna che non scambierà rapporti con gli italiani. Inoltre, le difficoltà interne ai servizi italiani e i loro continui cambiamenti di personale rendono pericoloso mostrare le nostre carte ovvero puntare tutto su una sola cosa, pena il rischio di perdere. Per questa ragione [incomprensibile], dobbiamo lavorare pazientemente dietro le quinte sino a quando non saremo certi della scena politica italiana e non avremo una linea politica ben determinata da parte del nostro governo." A study of conditions in Italy and of their relation to American intelligence, in NARA, R.G. 226, E. 210, B. 396.
86 "Vent'anni anni di vita sotto un governo dittatoriale con la filosofia del 'diventa ricco senza lavorare', ha defraudato il popolo della sua iniziativa e aggravato la già esistente e universalmente nota allergia al lavoro onesto" A study of conditions in Italy cit., p. 3.
87 "However, to suppose that such establishment of status would prevent other countries from showing interest in Italy would be unwise. Although Italy will retain its sovereignty and will not become the physical property of any other country, varying degrees of interest will become manifest. The city of Rome, from the moment of its liberation, has been a center of intrigue, with representatives of Italian factions, the Vatican, the Balkan countries, the Allies and former Axis members and satellites - all forming alliances, advancing interests and spying on each other. Once a certain degree of control should be established over Italy, the methods and aims of its exploitation become the problems of the political analyst rather than of the counterintelligence operative, yet there is no doubt that such control, if control there must be, would be safest in the hands of the United States , which has non imperial axe to grind and which has the largest stake in world peace." A study of conditions in Italy cit., p. 1
88 Ivi, p. 2
89 Il rapporto Over-All and Special Programs for Strategic Services Activities in the Mediterranean Theater (Post-Hostilities), redatto dall'OSS -Planning Group Office- l'11 dicembre 1944, fu inviato al JCS a Washington per l'informazione, dopo aver ricevuto l'approvazione di Donovan. A esso sono allegati due speciali programmi concernenti l'uno, le attività d'intelligence di competenza del SI e l'altro, quelle di competenza dello X-2, denominati rispettivamente Special Program No. 1, MTO. Intelligence Program -SI (Post-Hostilities) e Special Program No. 1, MTO. Intelligence Program - X-2 (Post-Hostilities). Una copia fu inviata, per conoscenza, il 2 gennaio 1945 al Quartier Generale dell'OSS di Caserta e di questa è conservata traccia nei NARA, R.G. 226, E. 210, B. 396.
90 "MISSIONS: a. Collect military, political, economic, sociological, psychological, and such other information as may be required. b. Process and evaluate the information collected by SI and disseminate secret intelligence to the U.S. Military Commander/MTO, to the Allied Commission, to OSS/ ETO, to OSS/Washington, and to the Chief of the Diplomatic Mission of the United States." Over-All and Special Programs for Strategic Services Activities in the Mediterranean Theater (Post-Hostilities) cit., Special Program No. 1, MTO. Intelligence Program - SI (Post Hostilities), p. 3
91 "Operatives will be briefed to collect primarily from secret sources specific information of which the following classes are typical: (1) Military [sic] (a) Location and strength of any enemy guerrillas and other opposition and subversive groups operating in or from Italian territory with particular attention to newly developing organization. (b) Activities opposed to Allied control or civil government. (c) Secret weapons and devices, especially weapons or plans for weapons which were not used during hostilities. (d) Secret scientific developments. (e) Secret communications methods. (f) Secret military bases, radio stations, ad supply arsenals in Italy and elsewhere. (…) (h) Plans of German and Fascist military personnel to go underground in Italy and elsewhere. (i) Undisclosed techniques or defenses against air raids or other military activity. (2) Political [sic] (a) Activities in violation of the political terms of Allied control or civil government; (b) Composition of the Italian regime, attitudes and policies in domestic and foreign affairs, and relations with other powers. (c) Strenght, composition, intentions and motives or political factions and parties. (d) Political inclinations of all groups of the population; local feeling on political questions; reactions to United Nations policies. (e) Separatist tendencies of various elements of the population. (f) Political policies of church groups, and their activities. (g) Reactions to Allied control policies (…) 3) Psychological and Social [sic] (a) Location and condition of Allied prisoners of war and foreign labor groups. (b) Morale of the Italian people - effects of war time privations. (c) Attitude of the people toward United Nations. (d) Effects of shifts of population. (4) Economic and Financial [sic] (a) Activities in violation of the economic and financial terms of post - hostilities agreements. (b) Existence and terms of secret commercial industrial or financial agreements between the Italian government and other states. (c) Present status of cartel arrangements in which Nazi or Fascist business interests participated. (d) Evidences of continued German participation in Italian baking and industry, particularly in Northern Italy." Over-All and Special Programs for Strategic Services Activities in the Mediterranean Theater (Post-Hostilities) cit., Special Program No. 1, MTO. Intelligence Program - SI (Post Hostilities), pp. 4 e 5.

Michaela Sapio, Servizi e segreti in Italia (1943-1945). Lo spionaggio americano dalla caduta di Mussolini alla liberazione, Tesi di Dottorato, Università degli Studi del Molise, 2012 

L’OWI, dal canto suo, aprì la propria sede centrale in Italia a Roma, nell’estate del 1944. In teoria, il suo ruolo era quello di ufficio stampa, per la diffusione delle informazioni sulle attività belliche dell’esercito americano, ma la Commissione alleata di controllo lo trasformò in uno strumento più potente: non solo il bollettino curato dall’ufficio divenne l’unico strumento per conoscere le notizie di agenzia (e tale sarebbe rimasto fino al gennaio 1945, quando iniziò la sua attività l’ANSA), ma l’OWI divenne il fornitore di carta per i giornali, ed un bene così prezioso per l’informazione in tempo di guerra fu gestito per influenzare la linea editoriale delle redazioni della capitale <124.
Con la fine del conflitto, le strutture create dall’OWI e dal PWB non furono immediatamente smantellate, e la loro attività divenne un punto di riferimento per le azioni successive. In particolare, la propaganda organizzata favorevole agli Stati Uniti rimase attiva, tramite gli uffici USIS (United States Information Service), che già l’OWI aveva istituito in oltre quaranta ambasciate <125. Formalmente, il ruolo di tali agenzie era quello di curare i rapporti tra le rappresentanze ufficiali del governo americano e i mezzi di informazione dei paesi ospitanti, fornendo notizie ed informazioni di carattere ufficiale sugli Stati Uniti; negli anni della guerra fredda esse agivano da centrali di controllo dell’opinione pubblica dei paesi ospitanti, e cercavano di orientarla in senso favorevole agli USA <126. L’OWI fu poi soppresso nell’estate del 1945, ma con l’irrigidimento delle tensioni internazionali a partire dal 1947, si ebbe una riorganizzazione delle strutture di definizione della strategia propagandistica internazionale: a novembre il National Security Act istituì il National Security Council, destinato all’elaborazione della politica internazionale americana <127. Il progetto era di riproporre in tempo di pace, e in chiave marcatamente antisovietica, alcune delle attività propagandistiche sperimentate nel conflitto, a imitazione di quanto andava tentando di organizzare la Gran Bretagna <128, ma su una scala assai più vasta.
[NOTE]
124 Cfr. R. Faenza, M. Fini, Gli americani in Italia cit., pp. 57-58 e 102. Utili riferimenti comparativi con le strutture che agivano in altri paesi, occupati per un periodo più lungo sono N. Pronay, K. Wilson (eds.), The Political Re-Education of Germany and her Allies after World War II, London-Sidney, Croom Helm, 2001, e R. Wangneitner, Coca-Colonization and the Cold War. The Cultural Mission of the United States in Austria after the Second World War, Chapel Hill-London, The University of North Carolina Press, 1994, pp. 84-107.
125 Per un’idea del lavoro svolto nel corso del tempo dagli uffici USIS, una descrizione interessante è ancora quella di J.W. Henderson, The United States Information Agency, New York, Praeger, 1969, spec. pp. 128-162.
126 Walter L. Hixson, Parting the Curtain. Propaganda, Culture and the Cold War, Bakingstoke-London, Macmillan, 1998, pp. 2-4.
127 Sul ruolo del NSC nel mondo della propaganda, cfr. W. P. Dizard, Inventing Public Diplomacy cit., pp. 38-39 e ss.
128 Cfr. A Defty, Britain, America and Anti-Communist Propaganda. 1945-1953. The Information Research Department, London-New York, Routeledge, 2004, pp. XVIII-281.

Andrea Mariuzzo, Comunismo e anticomunismo in Italia (1945-1953): strategie comunicative e conflitto politico, Tesi di perfezionamento in discipline storiche, Scuola Normale Superiore di Pisa, 2006

sabato 4 febbraio 2023

I militi fascisti giunsero a Poggiolo, attraverso i boschi, senza essere avvistati

Castelletto Uzzone (CN). Fonte: Langhe.net

Ma l’episodio più tragico avvenne proprio negli ultimi giorni, il 20 aprile, quando gli arditi del III° Gruppo Esplorante della “San Marco”, travestiti da partigiani, colsero di sorpresa tra Castelletto Uzzone (CN) e Monesiglio (CN) le difese autonome. Molti uomini caddero in combattimento: i prigionieri furono torturati e uccisi. Alla fine della giornata la brigata aveva perso qualcosa come 24 volontari, ma ciò non provocò sbandamenti di sorta e l’unità poté prendere parte alla liberazione della Val Bormida, come vedremo più avanti.
Stefano d’Adamo, Savona Bandengebiet - La rivolta di una provincia ligure ('43-'45), Tesi di Laurea, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 1999/2000



Siamo al 20 aprile 1945, cinque giorni prima della Liberazione. La fine della guerra era nell’aria. Radio Londra aveva trasmesso la notizia della ripresa delle attività alleate sul fronte italiano e informava regolarmente sulla loro rapida avanzata.
La guerra, per noi, stava veramente per finire. Tutti ne eravamo a conoscenza.
Proprio a quattro passi da casa nostra, lungo la Strada Cairo-Cortemilia, a Castelletto Uzzone, e per l’esattezza nei pressi della frazione di Poggiolo, era stanziato un distaccamento partigiano appartenente alla Brigata Savona. Meno di quaranta uomini.
Sapevano che gli avversari stavano ormai capitolando. Con tutta probabilità, sentendosi ormai al sicuro e ritenendo che i loro avversari non avessero più intenzione di fare attacchi a sorpresa, avevano anche allentato le misure di sicurezza.
Invece, proprio nel pieno della notte del 20 aprile, cinquanta italiani della GNR, comandati dal capitano Giovanni Ferraris, assieme ad altri cinquanta del 3° Gruppo Esplorante della Divisione San Marco, comandati dal tenente colonnello Vito Marcianò, partendo da Monesiglio, nell’altra valle, dove erano stanziati, giunsero a Poggiolo, attraverso i boschi, senza essere avvistati. Si appostarono strategicamente e, fatto giorno, attaccarono incominciando a sparare dal basso. Presi alla sprovvista i partigiani tentarono lo sganciamento verso l’alto, ma finirono sotto i colpi di quelli che si erano appostati al di sopra. Risposero al fuoco, ma dovettero soccombere.
Molti caddero feriti e, come dimostra il referto medico legale, furono uccisi e sfigurati da violenti colpi inferti sulla testa con scarpate e con il calcio dei fucili. Fu un’orrenda carneficina.
Le vittime furono:
Remo Briata, di Cairo Montenotte
Aldo Coccoli, da Brescia
Alessandro Caroli, da Rimini
Silvio Catellani, da Reggio Emilia
Pietro Guarriento, da Agna PD
Leonardo Nobili, da Gorgonzola
Salvatore Michele, da Lavello PT
Giuseppe Schipani, da Crotone
Vincenzo Verrando, da Bordighera.
Si salvarono soltanto quei partigiani che tentarono la fuga verso Cortemilia.  Undici di quelli che si avviarono verso l’alto, rimasti senza munizioni, dovettero arrendersi.
Fatti prigionieri, per loro iniziarono subito feroci sevizie. Portati a Monesiglio, il giorno dopo sono stati fucilati uno per volta e seppelliti in una fossa comune. Soltanto uno di loro, riconosciuto come un ex milite della San Marco, fu impiccato al ponte di Monesiglio.
Questi i loro nomi:
Guido Ferraro, da Cairo Montenotte
Francesco Arcidiacono, da Palermo
Luciano Caponi, da Milano
Osvaldo Cigliuti, da Savona
Nicola De Palma, da Bari
Anselmo Dodi, da Reggio Calabria
Luigi Gibia, da Vercelli
Bruno Manzini, da Reggio Emilia
Nino Mezzadra, da Pavia
Arturo Saetti, da Rovigo
Salvatore Impellizzeri, da Enna
Cinque giorni dopo finiva la guerra. Qualcuno di loro la fece franca. Altri furono catturati e processati dalla Corte d’Assise di Cuneo, accusati di una lunga lista di delitti. Alcuni furono condannati a morte, altri all’ergastolo. Poi intervennero gli atti di clemenza e tornarono tutti liberi.
Gianfranco Sangalli, I ricordi di un vecchio bacucco, Le Rive della Bormida (immagini di Cairo e dintorni), 9 dicembre 2019

Nella giornata di ieri sabato 4 giugno si è svolta nel paese di Castelletto Uzzone la Cerimonia in ricordo dell'eccidio nazifascista, avvenuto il 20 aprile 1945 e dove caddero dieci partigiani combattenti.
La Cerimonia è iniziata  con la deposizione di una corona di alloro da parte del Sindaco di Castelletto Annamaria Molinari e con l'onore ai caduti alla presenza di un picchetto del Corpo Militare della Croce Rossa e la benedizione del cippo partigiano.
La seconda parte della Cerimonia si è svolta nella Sala Consigliare, dopo i saluti Istituzionali da parte del Sindaco di Castelletto Uzzone e dei rappresentanti dei Comuni di Cairo Montenotte con l'Assessore Alberto Poggio e del Consigliere Comunale in rappresentanza del Comune di Vado Ligure Sergio Verdino, si sono succeduti gli interventi delle Sezioni Anpi di Cairo Montenotte e Vado Ligure, dove è stato ricordato il partigiano Schipani Giuseppe "audace"e il partigiano Dario Ferrando "Aldo", ancora vivente.
Al termine della Cerimonia sono stati consegnati alcuni riconoscimenti da parte dell'Amministrazione Comunale e dell'Anpi ai famigliari del partigiano Schipani Giuseppe e degli altri sopravvissuti a quel barbaro eccidio avvenuto a pochi giorni della Liberazione.
Redazione, Vado Ligure: Cerimonia in ricordo dell'eccidio partigiano di Castelletto Uzzone, Savona news.it, 5 giugno 2016

Monesiglio (CN). Fonte: mapio.net

Lanfrit Gioacchino, milite della Compagnia OP di Imperia.
Deposizione di Lanfrit Gioacchino del 20.3.1946: Un giorno siamo partiti per un’azione di rastrellamento nella zona di Castelletto Uzzone. Giunti nei pressi di Pruneto, il comandante della compagnia, Capitano Ferraris, divise la compagnia in due gruppi, del primo, comandato dallo stesso Ferraris, facevo parte anch’io. Il gruppo si portò su una altura, vicino ad una casa. In questa operazione il Ferraris, traendo in inganno i partigiani, li aggirò alle spalle, facendo capire loro che eravamo anche noi partigiani. Quando i partigiani si sono accorti del trucco hanno ingaggiato battaglia ma ormai era troppo tardi. Nel combattimento trovava la morte il milite Zappella Pietro e rimaneva ferito il milite Agnello Giuseppe. Da parte partigiana rimaneva una decina di morti mentre altri 11 vennero catturati e accompagnati a Monesiglio, ove vennero rinchiusi in una stanza. Io mi recai a vedere i catturati e vidi che Zappella Lorenzo, fratello del nostro caduto, con il milite Agnello li picchiavano barbaramente. Il Ferraris interrogò quindi i prigionieri ed uno di questi fu accompagnato sul ponte di Monesilio ove venne impiccato e ricordo che gli esecutori furono i militi Zappella, Bardelloni Primo e Agnesi Luigi. Gli altri dieci prigionieri vennero fucilati a gruppi di cinque nei pressi del cimitero di Monesilio e messi poi in due fosse comuni.
Leonardo Sandri, Processo ai fascisti: una documentazione, Vol. 9 - Liguria: Imperia - Savona - La Spezia, StreetLib, Milano, 2019 
 
Nel 1943 il Tenente Giovanni Ferraris, nato nel dicembre del 1916, si trovava ad Imperia nel 41° Reggimento di Fanteria. Dopo gli avvenimenti dell'8 settembre fu fra i primi e più convinti ad aderire alla R.S.I. - Il ricostruendo partito fascista provvide subito a nominare il tenente colonello Bussi comandante della G.N.R. di Imperia e questi affidò al tenente Ferraris il comando di una costituenda Compagnia di Ordine Pubblico.
La C.O.P. aveva il compito primario di dare la caccia ai partigiani e di scovare i renitenti alla leva che si tenevano nascosti.
La compagnia raggiunse ben presto un organico di 150 unità, ma gli elementi su cui il Ferraris poteva realmente fare pieno affidamento non superarono mai le trenta unità.
Questi erano veramente militi fedelissimi ed a loro vennero imputate le maggiori nefandezze compiute nel prosieguo delle loro attività.
Pur dipendendo gerarchicamente dal Capo della Provincia, la C.O.P. godeva della più ampia autonomia decisionale ed ebbe modo di dimostrarlo molto presto, distinguendosi nella lotta contro i partigiani. Questo valse al Ferraris la promozione a Capitano. Gli stessi tedeschi, ammirati dalla sua audacia, gli conferirono più di una onoreficenza.
Il reparto O.P. aveva stanza a Chiusavecchia, dove rimase per lunghi mesi. Era però dotato di una grande mobilità e per lunghi mesi creò il terrore nella zona, massacrando, impiccando e uccidendo nel modo più truce i partigiani che catturava.
Su ordine del comando tedesco la maggior parte Compagnia O.P. nel gennaio del 1945 viene trasferita a Monesiglio per combattere i partigiani delle Langhe. Anche in questa zona instaurano il terrore fra la popolazione civile, bruciando case isolate e intere borgate, uccidendo partigiani. La loro ultima impresa a Poggiolo di Castelletto Uzzone dove sorprendono un gruppo di partigiani, ne massacrano subito dieci, altri undici vengono catturati e giustiziati il giorno dopo a Monesiglio. Uno di loro, riconosciuto come ex commilitone, viene impiccato al ponte del paese. Dopo cinque giorni era il 25 aprile!
ghirghi, La banda Ferraris, La Resistenza in provincia di Savona e zone limitrofe, 5 ottobre 2009

venerdì 16 dicembre 2022

Romita e soprattutto De Gasperi iniziano quella riconversione in senso democratico dell’immagine pubblica del prefetto come pilastro dell’unità statale e del ripristino della legalità


Luigi Einaudi fin dal 1944 aveva lanciato il suo durissimo atto d’accusa verso il prefetto, con il celebre grido: "Il delenda Carthago della democrazia liberale è: Via il prefetto! Via con tutti i suoi uffici e le sue dipendenze!" <619
Aggiungendo la sua visione (condivisa da antifascisti di diverso orientamento) di radicale antitesi tra figura prefettizia e democrazia: "Finché esisterà in Italia il prefetto, la deliberazione e l’attuazione non spetteranno al consiglio municipale ed al sindaco, al consiglio provinciale ed al presidente; ma sempre e soltanto al governo centrale, a Roma; o, per parlar più concretamente, al ministro dell’interno. […] Democrazia e prefetto ripugnano profondamente l’una all’altro". <620
L’identificazione tra prefetto e fascismo è profonda, soprattutto per il movimento partigiano del centro-nord e in particolare per i gappisti impegnati nella resistenza urbana; mentre il dibattito politico, che vede contrapporsi per i primi mesi [del secondo dopoguerra] un’opzione più sensibile alle autonomie locali, anticentralista, alla centralizzazione dello Stato post-fascista, ha tra i suoi temi principali proprio il ruolo prefettizio. Questo è dunque antitetico alla democrazia, rappresenta il pericolo permanente della degenerazione se non in dittatura, quanto meno in uno stato di polizia. Tuttavia, per i medesimi motivi per cui il governo Parri non sceglie la strada della rottura, optando invece per la continuità attraverso la depoliticizzazione, allo stesso modo il prefetto è visto come uno strumento di garanzia e tutela: di fronte a una situazione di emergenza sociale, debolezza statale, scarso controllo dell’ordine pubblico, Romita e soprattutto De Gasperi iniziano quella riconversione in senso democratico dell’immagine pubblica del prefetto come pilastro dell’unità statale e del ripristino della legalità: "Percepito solo come strumento della politica di controllo e di repressione dello Stato fascista, non ha possibilità di ottenere la riconferma. Invece, man mano che passa il tempo, questa rappresentazione si trasforma e il prefetto appare, a una parte della classe politica, come un mezzo importante di garanzia dell’ordine pubblico ma anche come organo fondamentale nell’opera di ricostruzione, sia del paese concreto che della legalità". <621
Nei mesi che precedono le elezioni per la costituente, il fronte abolizionista perde progressivamente forza e iniziativa, mentre la riconversione democratica dell’immagine prefettizia si impone; la democrazia cui si fa riferimento è quella che emerge dall’egemonia del partito moderato, di cui si fanno interpreti i liberali (che infatti causano la caduta del governo Parri) e il nuovo presidente del consiglio democristiano. Per i primi, che presentano un decalogo programmatico durante la crisi di governo, "la revoca dei prefetti e dei questori dei CLN figurava tra i punti più insistiti (insieme allo svuotamento totale dei CLN e alla fine dell’epurazione). Così, mentre un autorevolissimo liberale come Einaudi aveva lanciato il grido di battaglia 'via il prefetto!', grido tutt’altro che privo di eco fra le stesse file liberali, nel governo di cui era stato la mosca cocchiera il PLI avrebbe interpretato quel grido quale 'via i prefetti della Liberazione!" <622
De Gasperi invece, prima ancora di prendere in mano il Viminale, con l’appoggio di Romita, avrebbe avviato l’allontanamento di tutti i prefetti CLN dai loro incarichi (uno dei punti chiave del piano rivendicativo del ciclo conflittuale in questo periodo, fino al suo momento più importante rappresentato dal caso Troilo), avvalendosi tra l’altro del decreto fascista del 1937 ancora in vigore, relativo al ripristino dei funzionari di carriera. In piena discussione sulla redazione della Carta, di fronte a tutti i prefetti riuniti a Roma nel novembre ’46, dirà "Dalla Costituente molti organismi potranno uscire trasformati, ma oggidì ancora i prefetti sono gli organi più immediati del governo, i responsabili più diretti dell’amministrazione; e, in ogni caso, i criteri fondamentali ch’essi devono seguire, frutto dell’esperienza ed emanazione d’immutabili norme di diritto ravvivato dallo spirito democratico, potranno essere rifusi in altre forme, ma non essere distorti o rinnegati, a scanso di portare lo Stato alla dissoluzione o all’assorbimento nella dittatura di parte". <623
Da strumento della possibile distorsione autoritaria a garanzia invalicabile dell’ordinamento democratico repubblicano: la metamorfosi così realizzata a livello culturale e di immagine pubblica permette anche di giustificare il permanere delle prerogative forti del prefetto, proprio partendo dal presupposto che la democrazia e lo Stato devono dimostrare la propria forza e capacità di controllo.
La prima legge post-fascista relativa ai poteri prefettizi (9 giugno 1947) conferma il cosiddetto 'controllo di legittimità', ovvero la prerogativa di controllo sul rispetto del principio di legalità da parte degli enti locali. La fine del dibattito costituzionale conferma di fatto lo status quo.
In secondo luogo, il mantenimento del TULPS comporta anche la sopravvivenza di quelle norme sui poteri speciali del ministro degli Interni e dei prefetti in caso di 'pericolo pubblico'; paradossalmente proprio Scelba aveva proposto in un primo momento, nel ’48-’49, di abolire quelle norme considerate di netto marchio autoritario, ovvero "per quanto riguarda il prefetto, si tratta di sopprimere l’articolo 2 che gli consente, in caso di urgenza, di emettere ordinanze normative e soprattutto il titolo IX che dà la facoltà, negli articoli 214 e 215, al ministro dell’Interno e ai prefetti di istituire lo stato di pericolo pubblico. In questo caso, 'durante lo stato di pericolo pubblico il Prefetto può ordinare l’arresto o la detenzione di qualsiasi persona, qualora ciò ritenga necessario per ristabilire o per conservare l’ordine pubblico', secondo la legge del 1926". <624
È poi lo stesso Scelba che, poco tempo dopo, nel corso del dibattito parlamentare del marzo ’50, propone di ristabilire il titolo IX, coerentemente con il proprio progetto di legislazione speciale, dove la figura teorizzata del 'superprefetto', di cui parlerà sempre nella famosa intervista del 1988, si avvicinava molto a quanto previsto dalla legge fascista del ’26: "Già nei primi tre mesi del 1948 era stata messa a punto un’infrastruttura capace di far fronte ad un tentativo insurrezionale comunista. L’intero Paese era stato diviso in una serie di grosse circoscrizioni e alla loro testa era stato designato in maniera riservata, per un eventuale momento di emergenza, una specie di prefetto regionale […], un uomo di sicura energia e di assoluta fiducia. L’entrata in vigore di queste prefetture allargate sarebbe stata automatica nel momento in cui le comunicazioni con Roma fossero state, a causa di una sollevazione, interrotte: allora i superprefetti da me designati avrebbero assunto gli interi poteri dello Stato sapendo esattamente, in base ad un piano preordinato, che cosa fare". <625
L’idea dello Stato propria del clerico-moderatismo, di cui fu espressione il ministro degli Interni poi presidente del consiglio, era legata a una 'ideologia' neutralista e impolitica della macchina statale per cui l’intervento governativo poteva, anzi doveva essere per l’interesse generale; un altro paradosso dello scelbismo fu dunque la piena trasformazione degli strumenti di controllo e governo al servizio di una parte (l’anticomunismo e la DC in particolare) in nome dell’imparzialità.
"La sua concezione della statualità, infatti, coniugava i valori definiti dalla tradizione della borghesia liberale con la dottrina ecclesiologica del potere come servizio da rendere alla società con umile e ferma dedizione. Ne conseguiva un’interessante simbiosi tra i princìpi di autorità riconfermati a tutela dell’ordine ('perché la vita sociale è fatta di gerarchie') e i compiti paternalistici e filantropici ancora attribuiti allo Stato da un certo pensiero cattolico, dal fondo tradizionalista, convertitosi di recente alla fede nella democrazia. […] Il suo proposito ideologico […] si richiamava alla forma classica della statualità borghese per piegarla ai contenuti del suo pensiero di cattolico-popolare: in particolare, all’idea di un bene pubblico e di una verità politica (il 'sano' e 'giusto' ordine sociale, la 'vera' democrazia) di cui le funzioni statali avrebbero dovuto farsi interpreti e difensori inflessibili". <626
[NOTE]
619 L. Einaudi, Il buongoverno. Saggi di economia politica (1897-1954), p. 59, Laterza 1973, cit. in Virgile Cirefice, Prefetti e dottrina dello Stato di diritto nei dibattiti, p. 9, in P. Dogliani, M.A. Matard-Bonucci (a cura di), Democrazia insicura, Donzelli editore 2017, p. 5
620 Ivi
621 Virgile Cirefice, op. cit., p. 7
622 C. Pavone, op. cit., p. 154
623 Dichiarazione del presidente del consiglio ministro dell’Interno ai prefetti del Piemonte, della Lombardia, del Veneto e della Liguria, 19 novembre 1946 in Archivio centrale dello Stato, Presidenza del Consiglio, Gabinetto, 1944-1947, cit. in V. Cirefice, op. cit., p. 8
624 V. Cirefice, op. cit., pp. 13-14
625 M. Scelba, cit. in G. De Lutiis, op. cit., p. 153
626 G.C. Marino, op. cit., pp. 221-22

Elio Catania, Il conflitto sociale: “motore della Storia” o “tabù” storico-politico. Il caso di Milano nel secondo dopoguerra, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2016-2017

domenica 6 novembre 2022

Il 5 giugno 1945 si riuniscono a Reggio Emilia i rappresentanti di tutte le federazioni provinciali del Partito comunista


Il Partito comunista italiano fu interprete di un originale esperimento di comunismo nazionale che si caratterizzò per un singolare intreccio, difficilmente dipanabile, di riformismo e ideologia rivoluzionaria, di senso delle istituzioni e anticapitalismo, di ricerca di autonomia politica e culturale e di persistenza di un solido legame con l’Unione Sovietica. Ciò gli consentì di raggiungere un grado di radicamento sociale e di consenso elettorale non molto dissimile da quello dei grandi partiti del socialismo democratico europeo ma al tempo stesso, dopo lo scoppio della guerra fredda, gli precluse la legittimazione a governare. <1
Se il quadro di riferimento è quello nazionale tale constatazione è senza dubbio condivisibile; calandosi a livello regionale, in particolar modo per l’area che qui ci interessa, l’Emilia-Romagna, occorre puntualizzare: il Pci, sostanzialmente, esercitò una profonda egemonia. Infatti, senza soluzione di continuità, dal 1945 fino alla propria dissoluzione e pure nelle realtà in cui non rappresentava la maggioranza assoluta, imprescindibile era confrontarsi con esso, con le sue ramificazioni, con la sua influenza politica e sociale.
Indubbiamente qui più che altrove il partito era cresciuto in corrispondenza con l’estendersi della lotta partigiana. Nel periodo immediatamente precedente la caduta del fascismo, la forza più decisa e combattiva, ed in Emilia-Romagna l’unica a disporre di un certo apparato organizzativo, restava il Pci. <2  Alla sua nascita, qui, contava 7.850 iscritti, pari a oltre il 18% del totale nazionale. Nell’estate 1944 nell’Italia occupata erano già arrivati a 70.000, di cui circa 18.000 nella sola Emilia-Romagna, dove la componente contadina - mezzadri, braccianti ecc. - era molto forte, e dove pure tra Bologna e provincia si contavano 32 cellule di fabbrica; è la stessa regione dello sciopero generale delle mondine, mentre iniziano le azioni dei fratelli Cervi e di Arrigo Boldrini, il comandante Bulow. <3
Qui, come scrive Giorgio Amendola nella stessa estate del 1944, «le difficoltà sono certo grandi»: «ci troviamo sulle immediate retrovie e sulla stessa linea del fronte» e «la densità di occupazione è assai forte». <4 Tuttavia, se fin dalla presa del potere da parte del fascismo si era verificato un calo numerico, durante i lunghi anni di leggi eccezionali, stando alle parole di Pietro Secchia, il lavoro organizzativo si era sviluppato con poche interruzioni e nell’immediato dopoguerra la forza numerica dei comunisti era aumentata notevolmente: nel dicembre 1945 si contavano 345.171 iscritti, pari a quasi il 20% del totale nazionale. <5
L’egemonia del Pci in Emilia-Romagna non può non essere, dunque, ricondotta al lungo lavoro di radicamento, alla costante tessitura e ritessitura di una seppur esile rete organizzativa corrispondente al mantenimento in vita di un minimo di legame sociale che instancabilmente migliaia di militanti e quadri avevano portato avanti durante il regime e nella clandestinità. Un paziente e oscuro lavorio che aveva consentito di predisporre quella trama che entrerà in azione nella Resistenza.
È la terra, questa, che, come scrive nel 1949 un anonimo liberale al segretario regionale della Democrazia cristiana Bruno Rossi, «quando fosse giuridicamente riconosciuta, diventerebbe la prima repubblica sovietica d’Italia e potrebbe ben servire a modello per le altre». <6 È la terra, secondo il vescovo di Reggio Emilia Beniamino Socche, macchiata di «sangue per l’odio implacabile dei senza Dio». <7 Ancora nel 1951, un militante democristiano romagnolo scrive a Rossi che l’incontro con i comunisti è un’esperienza «da evitare tutte le volte che si può»; «il comunista mi disse che loro avrebbero trattato quelli là fuori (indicando me) come li hanno sempre trattati (alludendo maniere forti)». <8
Nella «lunga liberazione italiana» <9 come si muoveva dunque il Pci emiliano-romagnolo con «quelli là fuori», con chi in tasca non aveva la tessera del partito? Come veniva rappresentato? E «quelli là fuori» come interpretarono, politicamente, la storia così ricca e complessa dei comunisti, la conflittualità, ampliata e deformata dal ruolo schiacciante del Pci in molte aree della regione?
Una serie di temi e problemi, piuttosto che un profilo - meno che mai un profilo unitario - è quanto si tenterà di mettere in luce, seguendo una linea descrittiva piuttosto che interpretativa.
1. La «diabolica organizzazione». Fra Resistenza e Repubblica
Il 5 giugno 1945 si riuniscono a Reggio Emilia i rappresentanti di tutte le federazioni provinciali, alla presenza di Luigi Longo per la Direzione nazionale. L’ordine del giorno è assai amplio ma numerosi interventi si concentrano sui rapporti con gli altri partiti. Nello specifico, a Ferrara questi sono descritti come «abbastanza buoni»; a Parma non viene taciuta «qualche difficoltà» dopo la smobilitazione; a Modena «hanno le stesse caratteristiche che si riscontrano nel campo nazionale»; a Forlì «i rapporti con i socialisti sono buoni e così pure con i democristiani: quelli con i carabinieri ed il prefetto ottimi»; a Piacenza «la situazione della provincia non può essere definita brillante» ma «è stato elaborato un accurato piano di lavoro diretto a stringere sempre più i rapporti». È Longo a trarre le conclusioni, assunto il presupposto che «vi sono stati anche dei lati negativi», e a indicare la linea per il futuro. Si chiede «se in tutti i compagni vi sia una esatta, profonda convinta persuasione della linea politica del partito o se non ci sia qualche atteggiamento, non ancora errore o deviazione ma qualche germe che potrebbe svilupparsi poi in qualche deformazione della linea politica». Nei confronti degli altri partiti, in un momento delicato come quello del «passaggio dallo stato di guerra a quello di pace», «è necessario sforzarsi di ottenere l’unità anche con quegli elementi che tendono a staccarsi», però «non confondendo le forze sane con quelle reazionarie». Con gli Alleati occorre «manifestare loro i nostri sentimenti di riconoscenza per quanto hanno fatto per noi; però non è detto che dobbiamo accettare supinamente e senza resistenza qualsiasi loro decisione»; nei confronti dei democristiani «non si deve tenere un atteggiamento di ostilità, ma di persuasione»; per quanto riguarda gli azionisti «si deve tendere verso la parte più progressiva di loro»; il lavoro, insomma, è «enorme». <10
In Emilia-Romagna il Pci non aveva mai cessato di sostenere che l’unità della Resistenza aveva un valore storico assoluto, che però poteva esistere solo mantenendo in essa la loro presenza attiva, persino la loro egemonia ideologica. <11 I comunisti, qui, si considerano - e comunicano con forza di essere - «l’anima e la guida, la pattuglia più avanzata di questa battaglia»; <12 «oggi, come sempre», i «primi all’attacco per guidare il popolo tutto al combattimento»; <13 «forgiati dal leninismo e dallo stalinismo», è stato creato «un uomo di tipo nuovo, provato ad ogni lotta e ad ogni avversità che ha dato i quadri migliori della battaglia partigiana» e che, «spoglio da ogni romanticheria, semplice, umano, legato al popolo, uomo fra gli uomini», è e sarà «una delle principali forze della ricostruzione». <14 I comunisti piacentini raccontano di nazifascisti «terrorizzati» dalle loro «leggendarie gesta», descrivendone i protagonisti come «eroi», «martiri», «sempre vivi», persino «immortali»; <15 a Ferrara il partito ricorda di essere «punto d’appoggio», in grado di indicare la «strada giusta», «fiero di essere in prima linea»; <16 a Reggio Emilia, pur sottolineando che «nessuna distinzione di fede politica o religione dovrà ostacolare in questo momento lo sforzo comune», i comunisti mettono in chiaro che «la salvezza, la resurrezione dell’Italia non è possibile se non interviene nella vita politica italiana, come elemento di direzione di tutta la nazione» il partito guida della classe operaia; <17 a Forlì si scrive che il Pci «è all’avanguardia dell’insurrezione popolare perché questa è la sua missione storica»; <18 a Cesena, il 31 dicembre 1944, Giovanni Zanelli, partigiano e segretario della Federazione provinciale di Forlì, sostiene che «nessun partito conosce le sofferenze delle masse popolari così come le conosce il nostro partito che vive in mezzo alle masse e ne è l’espressione e la guida» e che «non vi sarà nessuna democrazia vera e popolare se la classe operaia ed il suo partito, il Partito comunista, ne sarà esclusa». <19
Nella stampa comunista dell’epoca è forte il richiamo all’Unione Sovietica. <20  Nella difficoltà di dare un contenuto preciso al desiderio generico di un mutamento radicale e nella parsimonia delle indicazioni sul futuro fornite dal partito, il mito dell’Urss e di Stalin si presentava infatti come particolarmente atto a riempire il vuoto. <21 Della terra dei soviet si celebrano, ad esempio, i successi economici: per «La lotta», organo delle federazioni comuniste romagnole, «lo sviluppo economico e politico europeo riafferma la giustezza delle previsioni del marxismo-leninismo». Ricordando Lenin a 20 anni dalla morte, il giornale clandestino ricorda che «gloriosamente e con sicurezza» proseguono la propria lotta «la Russia sovietica e le sue potenti armate» e «i partiti comunisti saldamente costituiti alla testa della classe operaia lavoratrice», <22 sospingendo l’Armata rossa «con impeto inusitato». <23 A Parma, la «Voce del partigiano» nel gennaio del 1945 scrive che «in Urss non vi sono più classi sfruttatrici, che abbiano interessi distinti e contrastanti con quelli di tutto il popolo»: le vittorie dei popoli dell’Unione Sovietica sono «le vittorie della democrazia. L’Urss ha vinto e vince le sue battaglie perché, sotto la guida della classe operaia, i popoli dell’unione sovietica hanno realizzato una forma superiore di democrazia». <24
Di pari passo con il ribadire la correttezza della dottrina va da un lato la celebrazione di Stalin - simbolo riassuntivo del mito sovietico - definito nel luglio 1944 dall’edizione regionale de «l’Unità» come «il più grande stratega di questa guerra», <25 e dall’altro dello «sforzo glorioso dell’Armata rossa» che dimostra come «l’ordinamento economico-politico instaurato con la Rivoluzione abbia dato vita all’eroismo di massa ed alla storica vittoria delle forze e dell’ideologia proletaria». <26 «Perfettamente e potentemente armata», «la gloriosa Armata rossa avanza con la forza e la velocità di una valanga che tutto travolge», scatenando «la più grande offensiva che la storia ricordi»: così l’Unione Sovietica, «dopo aver salvato l’umanità dallo schiavismo hitleriano dilagante, prosegue e sviluppa con eroismo la sua missione liberatrice e progressista», così, «dopo averli liberati, essa unifica i popoli, ne favorisce e potenzia il contributo alla lotta al nazi-fascismo, la rapida e larga democratizzazione, la rinascita e la libera espressione». <27
Al di là della retorica, tali affermazioni potevano alimentare i sospetti che le direttive togliattiane della svolta di Salerno non fossero altro che una battuta d’arresto momentanea, in attesa di una futura fase. Nella riunione di Bologna del Comitato di liberazione nazionale regionale dell’11 maggio 1945, ad esempio, il colonnello americano Floyd J. Thomas, commissario dell’Allied Military Government, mette in guardia i presenti nei confronti di coloro i quali «desiderino accelerare le cose»: gli alleati «hanno dato il loro impegno di aiutare come è stato fatto per il passato e come sarà per il futuro» ma ciò sarà possibile esclusivamente in «una atmosfera di legge e di ordine nella quale si possa lavorare in cooperazione al massimo grado». Per Thomas «le discussioni politiche devono essere svolte a tempo e luogo debito» e se «ci sono molte cose che possono essere fatte dai partiti», queste non interferiscano «con le funzioni di governo oppure con la legge e con l’ordine». «Nei comuni la responsabilità della cosa comune è nelle mani dei sindaci», prosegue il colonnello, e i Cln «hanno il privilegio di dare consigli e di assistere i pubblici funzionari» ma «non hanno potere per conto loro e si devono assolutamente astenere dall’emettere ordini».
Il comunista ed ex partigiano Paolo Betti puntualizza in risposta l’intenzione del partito di «entrare nella legalità, di rompere tutte quelle che sono le azioni incontrollate» ma «per tale riteniamo anche la mutua collaborazione degli alleati verso di noi»; chiede che sia sanato tutto quello che è stato fatto «di giusto e di logico» dai Cln, «che non sia gettato tutto per aria tutto quello che di buono è stato fatto» e che «gli alleati non usino indulgenze verso gli industriali che hanno stroncato gli scioperai durante la guerra di liberazione». Tocca allora a Giuseppe Dozza, che da soli quattro giorni era stato legittimato sindaco della città dallo stesso governo alleato: «l’appello per la normalizzazione deve essere accolto da tutti e non soltanto da noi». Dozza «non ha l’impressione che ciò avvenga» e che «dinanzi agli alleati non dobbiamo mai dimenticare la nostra dignità di uomini e di italiani», rilevando «qualche episodio di incomprensione assoluta». <28
Da tempo si credeva di intuire, fra sospetto e preoccupazione, che «da parte comunista esisteva già un disegno preordinato». È questa la sensazione che Vittorio Pellizzi, azionista e tra i primi a promuovere e a costruire nel reggiano gli organi politici della Resistenza, sostiene di aver provato durante un incontro del 26 luglio 1943 con il dirigente del Pci Aldo Magnani. Pellizzi aggiunge che quell’occasione gli rivelò che «l’organizzazione comunista clandestina - di cui sapevo l’esistenza, ma di cui ignoravo l’efficienza e l’importanza - veniva ora alla ribalta con i suoi uomini, i quali dimostravano di possedere una grande maturità politica»; sempre Pellizzi constatò come Magnani fosse «preparato e già in possesso di un disegno strategico» e «anche dei mezzi tattici per attuarlo».
«Ad eccezione dei comunisti, noi come cospiratori si era dei novellini», ricorda emblematicamente un altro protagonista della Resistenza reggiana, il democristiano Pasquale Marconi. <29 Gli azionisti emiliani si rivolgono ai comunisti nel marzo del 1944 per sottolineare che «questo tesoro vivo di esperienze altrove maturate» è di certo apprezzato ma guai a utilizzarlo «con intenti servili o peggio ancora con l’idea di applicarle ipso facto al nostro paese». Si pone dunque un problema di libertà, «conditio sine qua non anche per la libertà degli altri paesi europei». <30 È la questione della libertà a scavare un solco ideologico anche con i repubblicani; i comunisti «si fermano all’eguaglianza, e per l’eguaglianza sono disposti a rinunciare alla libertà, accettando la dittatura»; <31 i repubblicani intendono escludere categoricamente che «la nazione abbia per una seconda volta a soggiacere schiava di una dittatura, sia essa della minoranza sulla maggioranza (esempio tipico il fascismo) o della massa sulla minoranza dei cittadini come vorrebbe il comunismo». <32
Dal giogo di una dittatura a quello di un’altra: è ciò che teme anche un antico liberale cattolico come il conte Malvezzi Campeggi scrivendo una lettera a Tommaso Gallarati Scotti, poi reindirizzata al rappresentante del Partito liberale nel Comitato di liberazione nazionale Alessandro Casati, all’indomani della Liberazione. Nel bolognese, secondo il conte, «la situazione è preoccupante: tirate le somme ci accorgiamo di essere passati senza transizioni dal fascismo nero a quello rosso. Medesima mentalità. Medesimi sistemi di violenza, prepotenza, intimidazione, minacce. Tutti i posti di potere sono in mano ai comunisti». Nelle campagne «i contadini vietano ai proprietari di mostrarsi nelle loro proprietà ed impongono taglie», ma la cosa più preoccupante è che «seguitano a scomparire misteriosamente persone, anche notissime, senza che se ne abbiamo più notizie». Due inchieste di «Risorgimento liberale», intitolate rispettivamente 'Il borghese emiliano vive fra queste paure' del gennaio 1946 e 'La psicosi del mitra nell’Emilia rossa' del settembre 1946, trasmettono in controluce la sensazione della circolazione della leggenda dell’invincibilità del Pci e della «diabolica organizzazione comunista diretta da uomini formati nelle scuole di partito sovietiche e che avevano partecipato alle guerre civili europee», evocando il problema del disarmo delle bande partigiane sostenendo che alle loro spalle vi fosse una precisa «organizzazione politica». <33
Nel «magma dell’illegalità del dopoguerra», <34 sempre a Bologna all’inizio del 1946 il liberale Antonio Zoccoli, presidente del Cln, ribadisce che l’organismo da lui presieduto «ha cercato con tutti i suoi mezzi, qualche volta inadeguati, ma sempre spontaneamente generosi, di curare le ferite, ha cercato e cerca di riportare negli animi la calma, la tranquillità, la concordia». Nella medesima riunione, alla presenza di prefetto e questore, il segretario della Camera del lavoro Onorato Malaguti avverte però che ci si trova tutti, ora, «in una delle situazioni più critiche, più critiche di alcuni mesi fa». È evidente, a suo avviso, che «vi è una compressione nella massa operaia» ma anche alla compressione «vi è un limite». Betti esprime ai presenti la propria sensazione che a Bologna si muovano «delle squadre armate per colpire degli uomini politici dei partiti che hanno fatto parte della lotta di liberazione»; il democristiano Angelo Salizzoni, in risposta, non ha timore allora di parlare specificatamente di «delitto»: è «interesse della democrazia» che venga spezzata la catena del delitto, alimentata dal fatto che, a quasi un anno dalla fine del conflitto, «ci sono troppe armi in giro». <35
È presente, certo, un problema pressante di «attività criminosa comune» che, come scrive il questore di Forlì al prefetto e al maggiore Baldwin della polizia alleata, tracciando un quadro della situazione della sua provincia ma descrivendo anche quella di Cesena e Rimini, «ha subito una certa recrudescenza». «I partiti estremisti», i quali «contano il maggior numero di aderenti, si mostrano malcontenti per la lentezza con la quale viene effettuata l'epurazione»: il malcontento, conclude il questore, sfocia «di tanto in tanto con bastonature», a cui è difficile opporsi visto un personale di polizia «tuttora insufficiente armato, disponendo di un numero irrisorio di moschetti e di pistole» e che «scarsi e scadenti sono i mezzi di comunicazione di cui dispone la Questura». <36
L’assimilazione non argomentata e quasi istintiva tra il regime fascista e quello comunista si era verificata, come si diceva, in Emilia-Romagna già nei mesi immediatamente successivi alla Liberazione, coi primi tentativi di produzione propagandistica da parte di gruppi ostili al Pci, alcuni senza filiazione chiara. A Bologna, a fine 1945, erano apparsi slogan come «ieri in camicia nera, oggi in camicia rossa», o «che cos’era il fascismo? Niente altro che il comunismo interpretato da Mussolini», mentre si inveiva contro il «fascismo rosso». Giuseppe Dozza, che aveva intercettato i volantini e li aveva spediti a Togliatti, si dichiarava preoccupato, perché a suo dire essi erano indizi di un clima piuttosto diffuso. <37 In alcuni volantini diffusi in regione da ambienti che confluiranno nella Democrazia cristiana si scrive che il bolscevismo, «con tutti i suoi inimmaginabili terrori, distende avidamente la mano verso la patria»; <38 «la rivoluzione e i rapporti di violenza tra i Partiti non fanno che accrescere malanni e distruzione agli uomini e alle cose» e che «la rivoluzione non sarebbe che la continuazione della lotta fratricida iniziata dal fascismo»: «Guai», allora, «se avesse la maggioranza un partito totalitario, sia di destra che di sinistra: diventeremmo nuovamente schiavi di un dittatore e i nostri fratelli che sono morti per la libertà ci griderebbero dalla tomba tutto il loro sdegno». <39 L’anno successivo, ancora attraverso un volantino, la Dc regionale mette in guardia i lavoratori dal non farsi «abbagliare dalle illusioni, dalle parole grosse e dalle promesse di mari e monti alle quali seguono le più amare delusioni»; infatti, «altrove», nei paesi in cui è stata portata a termine la «rivoluzione, con le fucilazioni e con le deportazioni», «praticamente non sono riusciti ad abolire le disuguaglianze», «si sono tolti di mezzo i vecchi ricchi e ne sono sorti altri, non meno sfruttatori». <40
I comunisti in Emilia, scrive un anonimo militante democristiano modenese, «rubano cibo e vestiti per l’inverno» poi «li rivendono o li regalano a chi pare loro, agli altri comunisti». <41 I comunisti, in Romagna, secondo i repubblicani riminesi, sono i responsabili della partenza di «navi cariche di grano», «in segreto», «dall’Italia affamata verso porti stranieri a est» e «questo traffico frutta del denaro a coloro che lo esercitano, e delle armi ad un movimento… “progressivo” che per ciò proteggerebbe col grande bandierone della propria incosciente omertà la losca opera di questi affamatori del popolo». <42
 


[NOTE]
1 Roberto Gualtieri, L’Italia dal 1943 al 1992. Dc e Pci nella storia della Repubblica, Roma, Carocci, 2006, p. 21.
2 Pietro Alberghi, Partiti politici e Cln, Bari, De Donato, 1975, p. 49.
3 Antonio Gibelli, Flaviano Schenone, L’organizzazione nell’Italia occupata, in Il Partito comunista italiano. Struttura e storia dell’organizzazione, 1921/1979, Milano, Feltrinelli, 1982, pp. 1048-1049.
4 Giorgio Amendola, Lettere a Milano, Roma, Editori Riuniti, 1973, p. 390.
5 Luciano Casali, Dianella Gagliani, Movimento operaio e organizzazione di massa. Il partito comunista in Emilia-Romagna (1945-1954), in La ricostruzione in Emilia-Romagna, a cura di Pier Paolo D’Attorre, Parma, Pratiche Editore, 1980, p. 255.
6 Archivio di Stato di Bologna (d’ora in poi Asbo), Archivio Democrazia cristiana - Comitato regionale Emilia-Romagna (d’ora in poi Adcer), fasc. 1, Carteggio e atti 1943-1948, lettera al segretario regionale Bruno Rossi, 13 ottobre 1949.
7 Triangolo della morte, in «La Libertà», 3 aprile 1955.
8 Asbo, Adcer, fasc. 1, Carteggio e atti 1943-1948, lettera al segretario regionale Bruno Rossi, 27 gennaio 1951.
9 Così Inge Botteri, Dopo la liberazione. L’Italia nella transizione tra la guerra e la pace: temi, casi, storiografia, Brescia, Grafo, 2008, p. IX.
10 I comunisti in Emilia-Romagna. Documenti e materiali, a cura di Pier Paolo D’Attorre, Bologna, Istituto Gramsci Emilia-Romagna, 1981, pp. 41-46.
11 Paolo Pombeni, La ricostruzione politica in Emilia-Romagna nel quadro del contesto nazionale. Una rilettura, in Angelo Varni, La ricostruzione di una cultura politica: i gruppi dirigenti dell’Emilia-Romagna di fronte alle scelte del dopoguerra, Bologna, Il Nove, 1997, p. XXXI.
12 Comunisti, in «l’Unità. Edizione dell’Emilia e Romagna», n. 5, settembre 1944.
13 L’ora dell’Emilia, in «l’Unità. Edizione dell’Emilia e Romagna», n. 12, agosto 1944.
14 Lenin è morto: il leninismo vive!, in «l’Unità. Edizione dell’Emilia e Romagna», n. 1, 21 gennaio 1945.
15 Le Sap, in «La Falce. Organo dei contadini e salariati agricoli di Piacenza», 10 giugno 1944.
16 Rinascita, in «La nuova scintilla», 15 gennaio 1945.
17 Il compito e la funzione del Cln e il «Partito nuovo», in «La stampa libera. Bollettino della federazione comunista reggiana, zona montana», 1 aprile 1945.
18 Fuori dalle fabbriche, in «La nostra fabbrica», 25 luglio 1944.
19 Istituto storico di Forlì-Cesena (d’ora in poi Isfc), Archivio Comitato di liberazione nazionale, b. 3, Partiti e pubblicazioni, Conferenza dei rappresentanti comunisti nelle giunte municipali della provincia di Forlì, 31 dicembre 1944.
20 L’elemento della disciplina internazionale, occorre ricordarlo, giocò un ruolo essenziale nella condotta di tutti i partiti comunisti anche nel secondo dopoguerra tenendo pur sempre presente che né la tesi dell’autonomia, né quella della catena di comando appaiono adeguate a una ricostruzione storica. Cfr. Silvio Pons, L’impossibile egemonia. L’Urss, il Pci e le origini della Guerra fredda (1943-1948), Roma, Carocci, 1999, p. 19.
21 Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio sulla moralità della Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1994, p. 404.
22 21 gennaio 1924. Morte del compagno Lenin, in «La lotta. Organo delle federazioni comuniste romagnole», 15-31 gennaio 1944.
23 Per l’insurrezione, in «La lotta. Organo delle federazioni comuniste romagnole», 30 giugno 1944.
24 Cosa ci insegnano le vittorie dell’Unione Sovietica?, in «La voce del partigiano», a. I, n. II, 25 gennaio 1945.
25 L’Esercito rosso ai confini della Germania, in «l’Unità. Edizione dell’Emilia e Romagna», n. 11, 20 luglio 1944.
26 Evviva il glorioso Esercito rosso! Evviva Stalin!, in «l’Unità. Edizione dell’Emilia e Romagna», n. 14, 8 novembre 1944.
27 L’Armata rossa, in «l’Unità. Edizione dell’Emilia e Romagna», n. 2, 22 gennaio 1945.
28 Fondazione Gramsci Emilia-Romagna (d’ora in poi Fger), Archivio Comitato di liberazione nazionale Emilia-Romagna, b. 1, fasc. 1, Verbale riunione Cln e sindaci provincia dell’11-5-1945. Il comunista Decio Mercanti, per citare un altro esempio, ricorda che a Rimini nell’immediato dopoguerra «l’attività politica dei partiti era seguita attentamente dalle forze alleate, in particolare veniva seguita l’attività del Pci e quella del Psi anche attraverso la corrispondenza. Ci furono multe e processi a danno dei dirigenti di questi due partiti. Gli alleati, possiamo affermarlo, non agirono con la stessa imparzialità nei confronti dei diversi partiti»; cfr. Decio Mercanti, Attività del Comitato di liberazione di Rimini dalla Liberazione al suo scioglimento, in «Storie e Storia», 13 (1985), pp. 95-96. È da segnalare che, almeno per quanto riguarda il periodo resistenziale in Emilia, le carte dell’intelligence inglese ci conducono a osservazioni più sfumate; cfr. Messaggi dall’Emilia. Le missioni n. 1 Special Force e l’attività di intelligence in Emilia 1944-1945, a cura di Marco Minardi e Massimo Storchi, Parma, Edizioni dell’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Parma, 2003, pp. 37-39. Per quanto riguarda, infine, i Cln, è ben noto ormai che a prescindere dall’unità di lotta e dallo sforzo bellico unitario, il dibattito al loro interno è caratterizzato, fin dai primi mesi, dai contrasti e dalle divergenze di natura politica fra chi era favorevole a una loro più puntuale valorizzazione e al loro inserimento in una struttura statuale di tipo nuovo e chi era, invece, propenso a sostenere il carattere provvisorio e straordinario, limitato ai soli compiti di direzione politica del movimento di liberazione; cfr. Pierangelo Lombardi, L’illusione al potere. Democrazia, autogoverno regionale e decentramento amministrativo nell’esperienza dei Cln (1944-45), Milano, Franco Angeli, 2003, p. 50.
29 Origini e primi atti del Cln provinciale di Reggio Emilia, Reggio Emilia, Cooperativa operai tipografi, 1974, p. 28 e p. 67.
30 Propositi nostri, in «Orizzonti di libertà. Periodico emiliano del Partito d’Azione», n. 1, marzo 1944.
31 Libertà ed eguaglianza, in «La Voce repubblicana. Organo dei repubblicani dell’Emilia e Romagna», n. 3, luglio 1944.
32 Libera associazione, in «La Voce repubblicana. Organo dei repubblicani dell’Emilia e Romagna», n. 4, agosto 1944.
33 Fabio Grassi Orsini, Guerra di classe e violenza politica in Italia. Dalla Liberazione alla svolta centrista (1945-1947), in «Ventunesimo Secolo», 12 (2007), pp. 79-80.
34 Mirco Dondi, La lunga liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, Roma, Editori Riuniti, 1999, p. 77. Zone calde come l’Emilia, dove il protrarsi di azioni violente ebbe proporzioni allarmanti nel cosiddetto «triangolo rosso», furono oggetto di un particolare monitoraggio da parte dello stesso Togliatti. Proprio a Reggio Emilia, com’è noto, nel settembre 1946, il segretario tenne un discorso molto netto sul rifiuto della violenza e assunse anche una posizione autocritica, facendo capire che nelle file del Pci si sarebbe dovuto vigilare di più per estirpare la mentalità illegale; cfr. Gianluca Fiocco, Togliatti, il realismo della politica, Roma, Carocci, 2018, pp. 183-184. Già a fine agosto del 1945 lo stesso Togliatti si lamentava con l’ambasciatore sovietico in Italia per l’allarmante «degenerazione del movimento partigiano al nord»; secondo il segretario molti ex partigiani si davano sempre più spesso a veri e propri episodi di banditismo che rischiavano di screditare il movimento comunista italiano nel suo complesso; cfr. Elena Aga Rossi, Victor Zaslavsky, Togliatti e Stalin. Il Pci e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca, Bologna, Il Mulino, 1997, p. 110.
35 Istituto storico Parri di Bologna (d’ora in poi Isbo), Archivio Comitato di liberazione nazionale Emilia-Romagna, b. 3, fasc. “Ordine pubblico durante il periodo elettorale”, verbale della riunione del Cln regionale del 20 febbraio 1946.
36 Isfc, Archivio Comitato di liberazione nazionale, b. “1945. Questioni economiche, amministrative, situazione comuni post-liberazione, ordine pubblico, epurazione”, Rapporto riservato del questore di Forlì, 25 aprile 1945. È difficile, quando non impossibile, per le forze dell’ordine, distinguere fra atti di violenza politica e di criminalità comune; lo scenario romagnolo di quegli anni è ricostruito in Patrizia Dogliani, Romagna, periferia e crocevia d’Europa, in Carlo De Maria, Patrizia Dogliani, Romagna 1946. Comuni e società alla prova delle urne, Bologna, Clueb, 2007, pp. 36-49.
37 Andrea Mariuzzo, Divergenze parallele. Comunismo e anticomunismo alle origini del linguaggio politico dell’Italia repubblicana (1945-1953), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2010, p. 125.
38 Istituto storico di Parma, Fondo Lotta di Liberazione, b. 2, Volantino a firma Democrazia cristiana, novembre 1945.
39 Asbo, Adcer, fasc. 1, Carteggio e atti 1943-1948, volantino con data 1946.
40 Asbo, Adcer, fasc. 1, Carteggio e atti 1943-1948, volantino dal titolo Lavoratore, tu devi ragionare!.
41 Asbo, Adcer, fasc. 1, Carteggio e atti 1943-1948, lettera anonima datata 28 ottobre 1945.
42 Affamatori del Popolo, in «Il Dovere. Periodico della consociazione circondariale riminese del Partito repubblicano italiano», 10 agosto 1946.
Andrea Montanari, Il Pci e le altre forze politiche: temi e problemi nel lungo dopoguerra in (a cura di) Carlo De Maria, Storia del PCI in Emilia-Romagna. Welfare, lavoro, cultura, autonomie (1945-1991), Collana "OttocentoDuemila", Italia-Europa-Mondo, 9, Bologna, Bologna University Press, 2022, testo qui ripreso da Clionet - Associazione di ricerca storica e promozione culturale  

sabato 22 ottobre 2022

Di tanto in tanto i briganti neri attraversavano Bologna su camioncini

Bologna: Via Malaguti. Fonte: mapio.net

Ai primi del dicembre 1944, le forze tedesche e fasciste di Bologna, riavutesi degli scacchi subiti il 7 ed il 15 novembre dello stesso anno, erano passate decisamente al contrattacco con notevole successo.
Particolarmente attive erano le forze di polizia dirette dal Questore Fabiani, che si era trincerato nel grande palazzo d’angolo fra via Rizzoli e via Castiglione, e da quel suo fortilizio dirigeva un’azione accorta e spietata contro i partigiani.
L’aspetto della città era mutato e si era trasformato in quello di una piazzaforte. Tutte le vie d’accesso al nucleo urbano erano state chiuse da muri e da reticolati; soltanto in corrispondenza delle porte era rimasto un passaggio per il tram e per gli autoveicoli, sorvegliato da soldati tedeschi e da poliziotti italiani. Le caserme delle brigate nere, la casa del fascio, la residenza del Questore e tutti gli uffici pubblici in genere erano cinti di filo spinato, con opere di protezione in muratura fornite di feritoie, con postazioni di mitragliatrici, con riflettori, con cavalli di frisia, che sbarravano tratti di strada.
Di tanto in tanto i briganti neri attraversavano la città su camioncini, tenendo le armi automatiche puntate sui passanti. I tedeschi avevano dichiarata zona proibita, « Sperrzone », per i loro soldati la città vera e propria e così era ben rarò che se ne incontrasse uno; ritenevano molti che il comando germanico avesse voluto chiudere nella «Sperrzone» partigiani e fascisti perchè si distruggessero a vicenda. Si sussurrava anche che Kesserling avesse inviata a Bologna una compagnia di carristi tedeschi per la lotta antipartigiana e che questa compagnia avesse debuttato, in modo veramente non molto felice, nei combattimenti della Bolognina.
Uscendo dalla Città e spingendosi alla periferia, sulle strade principali che conducevano al fronte, distante pochi chilometri dal lato dell’appennino e parecchi da quello della Romagna, passavano spesso isolati di giorno, in colonna di sera, dei militari tedeschi per lo più a piedi, qualche volta in bicicletta. Alla notte transitavano su carrette trainate da cavalli, dando un’impressione di miseria, di sfacelo e di cocciutaggine a chi ricordava le eterne colonne motorizzate, che pochi mesi prima avevano percorso le stesse strade per raggiungere il fronte di Cassino.
Nei quartieri spesso diroccati, posti fra le vie principali, erano sistemati i reparti partigiani, che cercavano faticosamente di riorganizzarsi e di sfuggire al controllo delle varie polizie.
Per poter dirigere la lotta della nostra Brigata (7ª G.A.P.) da un luogo relativamente sicuro, trasportai il comando in via Malaguti N. 31, in un appartamento all’ultimo piano. Avevo scelto quel domicilio perchè si trovava fuori dalla cinta urbana ed in un angolo morto di Bologna; infatti via Malaguti si unisce a via Zanolini e assieme formano un’ansa che congiunge due punti del viale di circonvallazione fra Porta Zamboni e porta San Vitale. La casa scelta era l’ultima di via Malaguti, si trovava proprio all’estremità dell’ansa e, non essendovi quasi mai passaggio di persone per quel punto della strada, si poteva agevolmente controllare la via e, in certo qual modo, prevenire sorprese ed appostamenti polizieschi.
Non appena mi fui trasferito, incominciò il lavoro di riorganizzazione della Brigata che, dal 15 novembre ai primi di dicembre era entrata in crisi. I tedeschi infatti, dopo aver catturato un gruppetto di sappisti, ne uccisero il comandante Mosca ed alcuni componenti, risparmiando coloro che accettarono di entrare al loro servizio, E questi ultimi, scortati da agenti delle SS, presero a pattugliare le vie della città, per far arrestare ogni partigiano che eventualmente incontrassero e riconoscessero. Questo rendeva molto pericoloso ogni spostamento di uomini e poneva in difficoltà anche i collegamenti.
Era in quei giorni ben viva in tutti l’angosciosa impressione suscitata dall’assassinio di quattro notissimi cittadini (prof. Busacchi, avv. Maccaferri, avv. Svampa, industriale Pecori) e già si sussurrava che erano pronte liste di proscrizione per uccidere o deportare in Germania i più eminenti professionisti.
In quest’atmosfera d’incertezza riprendemmo il nostro lavoro; come obbiettivo immediato avevamo la ricerca dei nostri sbandati, il loro inquadramento nei reparti e la sistemazione di questi ultimi in luogo sicuro, perchè potessero riacquistare rapidamente la loro efficeriza combattiva.
Stabilimmo anche un comando accessorio in via Ca’ Selvatica 8/2, da Nazzaro, dove risiedeva l’ufficiale di collegamento Giacomo. Al mattino del 5 dicembre mi recai nella suddetta casa e trovai Giacomo che usciva per recarsi ad un appuntamento con il vice comandante di Brigata, Biondino. Mi promise che sarebbe ritornato alle quattordici, rimasi ad attenderlo, ma all’ora fissata non giunse; il comandante Luigi, arrivato nel frattempo, avanzo l’ipotesi che Giacomo si fosse improvvisamente ammalato ed avesse raggiunta la sua famiglia io invece pensavo al peggio. Aspettammo fino al mattino uccessivo, poi ce ne andammo, ma il dubbio che fosse caduto nelle mani dei nemico era divenuto certezza.
Da via Ca’ Selvatica ci portammo in via Duca D’Aosta, nell’infermeria, dove erano ricoverati 17 feriti dei combattimenti del novemìbre, curati dal capitano medico austriaco Alexander che aveva disertato alcuni mesi prima dall’esercito tedesco ed era passato nelle nostre file. Controllato il buon andamento dell’infermeria, uscimmo ed entrammo in città da porta Sant’Isaia, sorpassando un infinità di carri e carretti tirati da buoi da cavalli da uonuni e carichi di masserizie che affluivano a Bologna dopo lo sfollamento coatto ordinato dai tedeschi nei paesi pedemontani. All’inizio di via Sant’Isaia, presso lo sbocco di via Pietralata proveniente da via Pratelio osservammo che un piccolo gruppo di persone sostava, guardando con curiosità e con timore, ci avvicinammo e vedemmo che via del Pratello era tutta bloccata dalle Brigate Nere. Il nostro pensiero corse subito a Paolo, il vice comandante di Brigata che vi abitava.
Ad un tratto i militi avanzarono verso il gruppo di curiosi, cui ci eravamo mischiati, ed il gruppo si dileguò rapidamente.
Anche Luigi ed io ci salutammo; nel rientrare in via Malaguti, riflettevo sul fatto che in due giorni avevamo perduti i due vice, comandanti di Brigata e l’ufficiale di collegamento. Era pertanto urgente chiudersi nella cospirazione più stretta e passare al contrattacco per generare un po’ d’incertezza nel campo nemico, che, fino a quel momento, dimostrava di esser compatto e ben guidato.
Mentre stavamo prendendo le prime disposizioni per attuare il programma, cominciarono a giungerci cattive notizie da tutti i reparti: ogni giorno qualcuno dei nostri cadeva nelle mani della polizia, diventando una vittima o un provocatore.
Apprendemmo che anche due dei più valorosi gappisti Tempesta e Terremoto erano rimasti nella rete delle SS.
Il 12 dicembre le Brigate Nere piombarono sull’infermeria: personale d’assistenza e feriti arrestati, seviziati e trucidati, tranne il capitano medico austriaco, che si offrì di cercarci, sperando di salvare la propria vita col consegnare la nostra.
In queste condizioni estremamente difficili ricostituimmo i quadri dirigenti, primo passo per arrivare alla riorganizzazione dei reparti ed alla lotta. Libero e Aldo vennero nominati vicecomandanti di Brigata, il posto di ufficiale di collegamento fu assunto dal ravennate Alberto, arrivato in quei giorni da Ferrara, dopo essere sfuggito con audacia alla cattura da parte delle Brigate Nere. Nella casa di via Malaguti, dove tenevo il comando e dove vivevo con la famiglia, tutti i coinquilini, che mi conoscevano con il nome buono e credevano che esercitassi ancora la mia professione di medico, mi creavano attorno una certa atmosfera di sicurezza e di legalità, che, in quei momenti, era preziosa.
Ogni sera la famiglia del piano di sotto, antifascista, saliva da noi ad ascoltare radio Londra e a commentare gli avvenimenti del giorno. Questa condizione di legalità era preziosa e bisognava mantennerla, perciò l’accesso alla casa venne limitato alle persone più fidate, con cui era indispensabile riunirsi per un buon funzionamento del comando.
Venivano: Luigi, che passava per un medico mio amico, il comandante generale Dario, che promovemmo professore, la staffetta Diana, pseudo sarta di mia moglie, Libero, sedicente allievo della facoltà di medicina, e infine Pietro, che, per il suo aspetto dimesso, veniva presentato come l’uomo che porta la spesa ed aiuta nelle faccende di casa.
A mezzo dicembre si seppe che certa Lidia Golinelli (Olga, Vienna), staffetta, era stata catturata assieme al partigiano Formica. Il giovane subito passato per le armi, la ragazza risparmiata ed assunta in servizio dall’ufficio politico investigativo fascista. Lo stesso giorno Alberto dovette fuggire da Bologna perchè individuato da alcuni suoi concittadini fascisti.
Ci chiudemmo in una ancor più stretta cospirazione, mutando anche il nome di battaglia: Luigi divenne Rolando, io Africano, Dario si cambiò in Ciro e Pietro in Rachele. Gli uomini, che da quel momento non ebbero più con noi contatti diretti, ricevettero la comunicazione che i comandanti erano cambiati e che, in considerazione della gravità del momento, era opportuno esercitare l’azione di comando attraverso ordini scritti.
Però, malgrado ogni provvidenza, i compagni continuavano a cadere: uno, due quasi tutti i giorni. Ora era la volta dell’Ada, che uscita per acquistare i viveri ad una squadretta, veniva riconosciuta e prelevata da un reparto di polizia. Ormai sembrava che bastasse affacciarsi all’uscio di casa, per essere impacchettati e portati al fresco.
I piccoli nuclei superstiti ebbero il divieto di uscire dalla base, chè noi avremmo provveduto a tutto. Sostituimmo anche le staffette femminili con elementi nuovi e sconosciuti. Ci occorreva però un uomo che fungesse da tessuto connettivo fra questi vari gruppi, che li vettovagliasse, che trasmettesse gli ordini scritti, che fosse in grado di passare inosservato per ogni via della citià, che potesse entrare in tutte le case senza destar sospetti.
E Pietro incominciò la sua opera di ragno paziente, tessendo solidi fili fra le diverse basi.
Pietro era ricercato dalla polizia con il suo nome vero di Orlandi Diego, non solo, ma molti agenti giravano per la città con la sua fotografia in tasca per riconoscerlo, se per caso lo avessero incontrato, e catturarlo. Pietro però era il miglior cospiratore che io abbia conosciuto. Tutti ignoravano allora il suo nome buono, nessuno sapeva dove dormisse e dove mangiasse. Puntualissimo ai convegni, vi compariva sbucando all’ultimo momento dalla più impensata via d’accesso. Non pronunziava mai una parola più del necessario.
Eravamo d’inverno, la neve, caduta abbondantemente, non era stata rimossa ed aspettava di sciogliersi al sole, e fra la neve, talvolta spingendo un ciclofurgone, tal altra a piedi con una sporta in mano, avvolto nella capparella comune ai nostri contadini, con sul capo un berrettino senza visiera, puntualmente, ogni pomeriggio vedevamo arrivare Pietro, ed il suo arrivo ci dava il senso della continuità e della marcia fatalmente sicura della nostra lotta.
Piuttosto piccolo, dimesso, silenzioso, con un aspetto così umile da non essere notato, Pietro passava dovunque senza incontrare inconvenienti. Del resto aveva ormai una lunga esperienza, tutti i partigiani lo conoscevano di soprannome e di fama, tutti avevano per lui un affettuoso rispetto.
Entrato nella 7ª Brigata G.A.P. poco dopo la costituzione dell’unità, venne destinato, per le sue qualità di ottimo meccanico, alla fabbricazione degli oridigni esplosivi e, accessoriamente, ai servizi di rifornimento in generale. Distese allora una fitta rete di magazzini attraverso tutti i quartieri cittadini, magazzini di cui egli solo conosceva l’ubicazione, destinati a depositi di viveri, di equipaggiamento, di armi, e creò il laboratorio per la fabbricazione degli ordigni esplosivi in via Jacopo della Quercia, laboratorio in cui egli ed i suoi aiutanti confezionavano quegli strumenti di lotta che non servivano soltanto per Bologna, ma per tutta l’Emilia e spesso partivano anche per 1’Italia del Nord.
Quando ci si recava al laboratorio, si vedeva Pietro tranquillo, che lavorava fra casse di tritolo, assistito di solito da Sergio, più raramente da Piccio o da Stefano; lavorava con calma, con pazienza, con metodo, ed esigeva che anche durante i bombardamenti aerei anglosassoni qualcuno rimanesse in laboratorio per impedire che qualche ladro, di quelli che dopo i bombardamenti si abbandonavano al saccheggio, non entrasse nell’appartamento e non scoprisse ciò che era il più geloso segreto della Brigata. I suoi aiutanti arricciavano un poco il naso perchè via Jacopo della Quercia è vicina alla stazione ferroviaria e pertanto al centro di una zona bombardatissima; ma l’esempio del loro capo li costringeva alla disciplina e ve li costrinse anche il giorno in cui una bomba distrusse metà del fabbricato in cui lavoravano. Pietro confezionava ordigni esplosivi di tutti i generi, bombe a miccia, a tempo, a percussione, scatolette per far saltare locomotive in corsa, bottiglie incendiarie da lanciare sugli autocarri; l’arte degli esplosivi non aveva per lui alcun segreto.
Pietro dirigeva anche la riproduzione e la diffusione del materiale di propaganda e dei giornali clandestini, Pietro provvedeva al vettovagliamento della Brigata, Pietro curava che gli uomini avessero le scarpe, i vestiti, le munizioni.
Si diceva che Pietro fosse avaro e i vecchi partigiani giurano ancor oggi che Pietro era avaro, mentre era soltanto un equo e parsimonioso distributore delle nostre magre risorse. Affermavano che si faceva pregare perfino per dare le bombe, mentre voleva essere certo che non andassero sciupate e, prima di mettere in circolazione qualche nuovo tipo, lo collaudava personalmente, di solito contro installazioni ed automezzi tedeschi.
La mattina del 7 novembre Pietro, con un furgoncino carico di bombe, stava dirigendosi verso la base di via del Macello, accerchiata proprio in quel momento dalle Brigate Nere, che lo bloccarono e lo chiusero, assieme al suo accompagnatore Piccio, in un grosso edificio in cui erano raccolti altri rastrellati. Fortunatamente i militi indugiarono prima di verificare il contenuto del furgoncino e Pietro, col suo aiutante e con due partigiane che si trovavano fra rastrellati, scalando muri, calandosi da finestre, entrando in cantine, riuscì a prendere il largo. Il giorno dopo le pattuglie tedesche e fasciste di vigilanza non solo controllarono il contenuto dei furgoncini, ma anche quello delle sporte e perfino delle borsette da donna.
Così Pietro, ricco della passata esperienza, divenne l’assiduo collegamento fra noi e gli uomini immobili nelle basi, mentre Gino, che aveva sostituito Alberto, si occupava di stabilire la rete delle nuove staffette femminili, e Libero preparava al combattimento gli uomini più ardimentosi, che vennero riuniti nella « squadra di polizia ».
Ma i successi nemici continuavano: i gappisti Fulmine e Ciclone; che si erano azzardati ad uscire, vennero attaccati. Fulmine rimase ucciso, Ciclone ferito e prigioniero. Battista, che già aveva abbozzato coi suoi uomini qualche contrattacco ai reparti fascisti, venne incontrato da Olga, che lo fece uccidere dai militi che l’accompagnavano.
La morte di Battista fu 1’ultimo dei colpi avversari perchè ormai i nemici erano stati individuati e gli uomini, squadra di polizia in testa, desideravano il combattimento. Pietro, nel suo continuo peregrinare, era riuscito ad appurare che la cattura di Giacomo e del Biondino era avvenuta in via Sant’Isaia, su indicazione del traditore Giulio Cavicchioli, già appartenente alla squadra Mosca. Mentre i due gappisti venivano tradotti in carcere, Giacomo tentava di fuggire e rimaneva ucciso. La cattura di Paolo restava un mistero, ma non restava un mistero la sua fine eroica. Egli ammise di essere il gappista Paolo, non solo, ma affermò di farsi chiamare anche Luigi, in modo da raccogliere su di sè le responsabilità del comandante di Brigata. Venne fucilato.
Ormai sapevamo che il maggior pericolo era rappresentato dai tre traditori che ci andavano cercando per le vie della città, fortemente scortati da tedeschi e da fascisti: Olga, Cavicchioli e il capitano medico austriaco. Di quest’ultimo si apprese, sui primi di gennaio, che, avendo fatto arrestare soltanto qualche gregario partigiano, non veniva giudicato abbastanza utile dalle SS. le quali lo portarono alla Certosa e lo soppressero.
Muovendoci con molta precauzione, verso il dieci gennaio lanciammo all’attacco la squadra di polizia, comandata da Italiano, che in pochi giorni aprì qualche vuoto nelle file nemiche senza subire perdite.
Incoraggiati, demmo l’ordine di attaccare anche ai distaccamenti di Anzola, Castelmaggiore, Castenaso, Medicina, mentre in città si costituivano altre squadre, che entravano immediatamente in azione.
Allora si vide nettamente quanto fosse effimera la forza tedesca e fascista, che, non avendo capacità di difesa diretta, anticipò per qualche giorno il coprifuoco dalle 20 alle 18, iniziò rastrellamenti in grande di interi quartieri, bloccò strade e piazze per controllare l’identità dei passanti, impose l’affissione davanti alle porte degli appartamenti di un cartello col nome degli occupanti. Ma tutte queste misure valsero soltanto a rendere solidale con noi la popolazione, che sentiva in modo sempre più chiaro il peso dell’occupazione straniera.
La vita di comando, con lo svilupparsi della nostra offensiva, aveva ripreso una sua regolare serenità.
“Jacopo” Aldo Cucchi (Commissario Politico 7ª G.A.P.), Pietro l’artificiere in (a cura di) Antonio Meluschi, Epopea partigiana, ANPI dell’Emilia Romagna, 1947, op. qui ripresa da Istituto Parri