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giovedì 6 maggio 2021

Li scrivevo per necessità economiche


[...] A detta dell’autore le prose da raccogliere sarebbero talmente tante da poter costituire un intero volume, ma il lavoro di revisione, riscrittura e riordino richiederebbe un grande impegno sul quale Caproni stesso, che ha lasciato dispersa sui giornali la maggior parte della sua opera narrativa, mostra molti dubbi:
"Ecco, siccome io li scrivevo, appunto, e li intitolerei “Racconti scritti per forza”, li scrivevo per necessità economiche, non mi curavo se un’immagine, un periodo, che già era nel precedente, entrava nel suo seguente… dico: “intanto il lettore figuriamoci se se lo ricorda”. Non c’è mai stata l’intenzione di raccoglierli. Quindi adesso io dovrei fare questa revisione e proprio non me la sento. A parte, poi, il genere di scrittura: io, essendo appassionato di latino… e si sente in questi racconti… proprio l’uomo abituato ad andare a cavallo che quando cammina a piedi caracolla… almeno, io così sento; e molti invece vedono proprio in questo l’originalità". <27
Il poeta torna più volte a ricordare la necessità economica che lo spinse a scrivere in prosa, quasi giustificando la precarietà di alcuni racconti che, soprattutto stilisticamente, non lo soddisfano per certi errori compiuti con leggerezza, contando sulla disattenzione del suo lettore e sulla libertà di un genere sottoposto a regole meno rigide di quelle che governano il verso. Egli ribadisce anche l’influenza degli autori latini sulla sua scrittura, originale e particolare e dotata di un’individualità che la rende difficile da confrontare con altre. A questo proposito, Adele Dei evidenzia come la prosa dell’autore sembri essersi svolta «soprattutto in solitudine e dall’interno» <28, senza l’aiuto di esempi cui attingere o di suggestioni altrui cui fare riferimento. Riprendendo un’espressione attraverso la quale Pier Vincenzo Mengaldo descrive l’esordio del poeta, si può quindi affermare che anche il Caproni narratore «non somigliava a nessuno» <29 ed era uno scrittore «subacqueo». <30
L’interesse che l’autore rivolge ai propri scritti è piuttosto tardo e solamente a partire dagli anni Settanta egli esprime la volontà di scegliere parte delle sue prose da raccogliere in volume, così il memoriale di guerra Giorni aperti, il racconto lungo Il labirinto e Il gelo della mattina, ultimo capitolo di quel romanzo rimasto incompiuto, entrano a far parte di una piccola raccolta intitolata Il labirinto e pubblicata per Rizzoli nel 1984. Le tre storie, scritte in anni diversi, hanno tutte vicende editoriali differenti, ma sono caratterizzate da un autobiografismo che le accomuna tra loro e dal tema della guerra che, seppur non con la stessa intensità, fa da sfondo a ciascuna trama. Per la loro apparizione in volume, Caproni corregge e rende più moderni i tre racconti scelti, i quali passano attraverso una ferrea revisione che tuttavia non toglie loro «il sapore dei tempi in cui furono scritti». <31
Le altre prose invece, rimaste disperse su riviste e giornali, catturano l’attenzione del loro autore soprattutto grazie al consolidato successo poetico, unito all’incoraggiamento di critici quali Luigi Surdich e Pier Vincenzo Mengaldo che insistono per un’edizione degli scritti narrativi e che spingono Caproni a riconsiderare i propri racconti e a progettarne una raccolta alla quale si dedicherà in maniera intermittente fino agli ultimi anni.
Nell’archivio delle carte del poeta sono conservati due elenchi di racconti, uno intitolato Racconti da me scritti e l’altro Racconti scritti per forza: il primo è a sua volta bipartito in Racconti brevi, circa trentasei prose, e Racconti lunghi tra i quali sono inclusi Il gelo della mattina, Il labirinto e La maliarda; un posto indipendente è riservato invece alle Cronache per il lotto. [...]
27 G. Caproni, “Era così bello parlare”. Conversazioni radiofoniche con Giorgio Caproni. cit. p.179.
28 A. Dei, Introduzione a G. Caproni, Racconti scritti per forza, cit. p.9.
29 P.V. Mengaldo, Per la poesia di Giorgio Caproni, in L’Opera in versi, cit. p.XI.
30 Ivi, p. XI: «Oggi non c’è dubbio per qualunque persona sensata che Caproni sia tra i massimi e piùoriginali poeti del dopo-Montale. Ma a lungo la sua è stata invece una storia subacquea, tanto da non consentirgli neppure l’ingresso nei Lirici nuovi di Anceschi (1943), bibbia poetica dell’epoca, quando già aveva fatto conoscere alcune raccolte più che notevoli».
31 A. Dei, Introduzione a G. Caproni, Racconti scritti per forza, cit. p. 10.
Lucia Pasqualotto, «Del racconto però mi è sempre rimasta la nostalgia»: Giorgio Caproni narratore, Tesi di laurea, Università Ca' Foscari, Venezia, anno accademico 2014-2015
 
Patrizia Traverso e Luigi Surdich
Genova ch’è tutto dire. Immagini per Litania di Giorgio Caproni
Prefazione di Giuseppe Conte
Genova
Il canneto
2012
ISBN: 978-88-9643-031-6

In occasione del centesimo anniversario della nascita di Giorgio Caproni si moltiplicano le iniziative per celebrare degnamente la ricorrenza; tra queste rientra la pubblicazione di un libro davvero originale che, unendo le raffinate qualità fotografiche di Patrizia Traverso e la competenza critica di Luigi Surdich, illustra come meglio non si potrebbe una delle più meritatamente famose poesie di Caproni dedicate a Genova, dove egli, livornese, non era nato ma che di fatto considerava la «mia città intera», interamente sua, quella nella quale si era formato come uomo e come scrittore e della cui nostalgia molto soffrirà quando le scelte della vita lo porteranno a vivere a Roma. Il libro raccoglie un centinaio d’immagini fotografiche, l’una più suggestiva dell’altra, a colori e in bianco e nero, direttamente collegate ai luoghi che di volta in volta sono citati nei novanta distici di Litania; certo, la poesia risale ai primi anni Cinquanta (probabilmente al 1952) e le fotografie sono dei giorni nostri, però è anche vero che non par di riscontrare, tra queste e i versi che le hanno ispirate, oltre mezzo secolo di distanza, nel dubbio che sia stato premonitore il poeta o che la città sia rimasta alquanto immobile.
La struttura del libro (arricchito nelle ultime pagine da un’utile nota bibliografica aggiornata: e non sfugge la ricchezza degli interventi che si sono succeduti negli ultimi anni) è dunque binaria: i distici di Litania di volta in volta riportati sono puntualmente accompagnati da una fotografia del luogo citato e da un commento critico sui versi medesimi. Quella che altrimenti sarebbe una sequenza funzionale per illustrare un testo - già di per sé formato da immagini in forma di versi -, una sequenza essenziale e didatticamente utile, viene dilatata da una parte dalla creatività artistica della fotografa - che in più occasioni va legittimamente oltre i suggerimenti ambientali dell’autore - e dall’altra dagli interventi di Luigi Surdich, certo uno degli studiosi di più lungo corso dell’opera del poeta livornese e autore di quella monografia Giorgio Caproni. Un ritratto (Genova, Costa & Nolan, 1990) che rimane tuttora un punto di riferimento indispensabile per chi vuol conoscere l’opera del Poeta. Surdich, prendendo spunto di volta in volta dalle immagini suggerite da Litania, affronta con chiarezza e competenza non solo il tema del rapporto di Caproni con Genova, che è presenza centrale nella sua vita, tra gli anni livornesi dell’infanzia e quelli romani della maturità, e nella sua opera - la città e la Liguria di fatto sono presenti in quasi tutte le sue raccolte e in particolare nel Passaggio di Enea (1956) -, ma anche estende la sua attenzione all’essenza della sua opera, con opportuni richiami ad altri poeti (inevitabilmente Montale e Sbarbaro su tutti) e con una ricca serie di osservazioni e d’informazioni anche sugli aspetti meno noti della sua attività letteraria, a cominciare da quella di autore di racconti e di prose varie. Insomma Litania e Genova finiscono per essere il punto di partenza per una rilettura di Caproni e il saggio finale di Surdich Genova Genova Genova. L’“infinita litania” di Giorgio Caproni è un nuovo accattivante ritratto di questo poeta che, a ragione, lo studioso definisce in apertura e ribadisce in chiusura come «uno dei maggiori poeti del Novecento» e le sue pagine, ben documentate e anche emotivamente partecipi e partecipabili, che scorrono tra l’inizio e la fine, dimostrano l’assoluta legittimità di questa sua perentoria affermazione.
Maria Teresa Caprile, Patrizia Traverso, Luigi Surdich, Genova ch’è tutto dire. Immagini per Litania di Giorgio Caproni, Prefazione di Giuseppe Conte, Oblio, Osservatorio Bibliografico della Letteratura Italiana Otto-novecentesca, Anno II, numero 6-7, Settembre 2012

giovedì 29 aprile 2021

Antonicelli fu arrestato una seconda volta

Franco Antonicelli e Ferruccio Parri - Fonte: Catalogo cit. infra

[...] «Molti anni fa, prima della seconda guerra mondiale, un’occasione mi portò nell’Italia del Sud, giù dopo Salerno e dopo la bellissima Paestum, e dove comincia il Cilento. L’occasione fu la stessa che in quei giorni condusse i miei amici Carlo Levi e Cesare Pavese press’a poco nei medesimi luoghi, al di là della famosa terra invalicata da Cristo. In quel lontano paese, mai sentito nominare prima, ci andai dunque per obbligo; ci fui mandato quasi come in una prigione, e vi godetti invece, lo dico con gratitudine, tutta la libertà che si può godere al mondo.
... C’è dunque un nome nella mia vita, una memoria breve o lunga secondo la nostalgia del momento, un nome e una stagione che vorrei portarmi dietro fino all’ultimo giorno... Questo nome è Agropoli, quel tempo è l’autunno... Eppure passa il tempo, molto tempo, e nella mia vita avverto quel riferimento, quel punto fermo: io mi muovo e quel punto è là. È tutto quello che mi resta di allora... Penso soltanto con un rammarico che mi brucia, mi umilia ancora, di non aver ricavato nulla da quella mia esperienza, nulla, dico di scritto».
Franco Antonicelli, Il soldato di Lambessa
 

Benedetto Croce e Franco Antonicelli - Fonte: Catalogo cit. infra

[...] Bobbio scrive: «L’autorità di Croce era indiscussa: armati dei suoi concetti, ci sentivamo superiori ai nostri stessi maestri... Croce era la voce del tempo: stare dalla parte di Croce voleva dire essere nella corrente della storia.
Croce era, personalmente, un esempio di libertà intellettuale, di saggezza, di dignità, di operosità, di serietà negli studi: adunava in sé tutte le qualità dell’educatore, che altri autori o maestri possedevano solo parzialmente».
Tra il 1931 e il 1937 il filosofo napoletano si recò spesso nel Biellese.
Antonicelli ebbe modo di frequentarlo e di ospitarlo nella sua villa.
Il suo rapporto con Croce era di rispetto, quasi di timore: «Oh io non starò più davanti a lui con quell’imbarazzo che tanti, credo tutti, anche gli studiosi di valore, avevano come me di non sapere che cosa dire per meritare la sua attenzione, la sua attenzione che si faceva subito prodiga e per questa sua affabilità scoraggiava che si era preparato a qualche vanteria».
Franco Antonicelli, Il soldato di Lambessa

[...] Antonicelli fu arrestato una seconda volta il 15 maggio 1935; fu una retata nella quale vennero coinvolti il gruppo di Giustizia e Libertà e il gruppo einaudiano della rivista La Cultura: Vittorio Foa, Massimo Mila, Carlo Zini, Luigi Salvatorelli, Giulio Einaudi, Cesare Pavese, Norberto Bobbio, Carlo Levi.
 

Un giovane Giulio Einaudi - Fonte: Catalogo cit. infra

Scrive Stajano: «Non c’era nessun complotto, ma preoccupava l’esistenza di un nucleo organizzato e operante contro il regime, in maggior parte giovane, capace di diffondere idee e di creare una rete di propaganda politica per l’azione antifascista in Italia... Antonicelli non aderiva alle idee di Giustizia e Libertà, impedito dalla sua fede liberale priva di correttivi e dalla sua educazione crociana, ma i “GL” erano i suoi amici più cari, visse con loro la giovinezza... li aiutava nel loro lavoro che per lui continuò a essere un lavoro di professore della politica, non certo di uomo d’azione».
Accusato di aver frequentato la casa della professoressa Barbara Allanson dove si radunavano personaggi ritenuti oppositori del regime (Leone Ginzburg, Mario e Alberto Levi), Antonicelli venne condannato a tre anni di confino presso il paesino di Agropoli, in provincia di Salerno.
Vi trascorse l’estate, l’autunno e l’inverno e l’inizio della primavera del 1936; in Il soldato di Lambessa scrive: «È diventato autunno anche l’estate che vi giunsi, l’inverno che vi trascorsi e quell’inizio di primavera che me ne andai». Nel marzo 1936 la pena di tre anni fu sospesa per un condono nazionale.
[...] «L’occasione (del mio confino) fu la stessa che in quei giorni condusse i miei amici Carlo Levi e Cesare Pavese press’a poco nei medesimi luoghi, al di là della famosa terra invalicata da Cristo... I miei due amici portarono, via qualcosa di meglio per sè e per gli altri, cioè due libri che scrissero, l’uno il celebre Cristo si è fermato a Eboli e l’altro il meno noto ma bellissimo racconto Il carcere».
Franco Antonicelli, Il soldato di Lambessa
 

Da Sinistra Carlo Levi e Gaetano Salvemini nel 1947 - Fonte: Catalogo cit. infra

[...] «Voi (portuali di Livorno) sapete chi era Salvemini. Era un grande uomo e affettuosamente, ricordandolo, dico che era politicamente uno sconclusionato, e dico sconclusionato con molto affetto, con l’affetto di chi ama gli uomini sconclusionati, cioé gli uomini che non predicano niente, che non fanno profezie e che sbagliano sempre, ma che hanno un meraviglioso vigore. Hanno un meraviglioso vigore. È stata, questa, la coscienza di italiano di Gaetano Salvemini.
Gaetano Salvemini uomo era così; era un vecchio socialista, poi persino abbandonò il Partito Socialista più che altro per ragioni di indipendenza».
Franco Antonicelli, Le letture tendenziose
 

Mario Fubini - Fonte: Catalogo cit. infra

[...] L’Ovra, la polizia del regime fascista, incominciò a sospettare che il gruppo costituitosi intorno alla casa editrice e alla rivista La Cultura fosse legato al movimento clandestino Giustizia e Libertà: i controlli si fecero più assidui e in un rapporto di polizia del 1935 i collaboratori einaudiani vengono definiti “intellettualoidi con sentimenti di ostilità nascosta o palese nei confronti del regime fascista”. Comune al movimento Giustizia e Libertà e a questi “intellettualoidi” era, secondo le parole di Leo Levi, l’“antitesi spirituale contro il clima storico del fascismo”: da un lato i giellisti con la loro attività cospirativa, dall’altra i liberali crociani fra cui Francesco Ruffini, lo storico Nino Valeri, il critico letterario Mario Fubini, l’avvocato Anton Dante Coda direttore, negli anni venti, de La Tribuna biellese, organo del partito liberale biellese. Molti di essi caddero nella retata del maggio 1935: Giulio Einaudi fu arrestato e dopo qualche giorno, rilasciato, ma la rivista La Cultura fu soppressa.
 

Luigi Salvatorelli - Fonte: Catalogo cit. infra

[...] All’inizio della guerra una bomba francese distrusse il tetto della casa di Salvatorelli a Torino.
Antonicelli, in una minuta di lettera a Mario Vinciguerra, scriveva: «Tutti bene, ma chinando la testa come sotto una minaccia. (I Salvatorelli) stanno bene; la sera vanno a dormire fuori. Dispersi dovunque un po’ tutti... Torino faceva pensare al dopo la peste dei Promessi Sposi... ».
Il 27 novembre del ‘42 c’era chi annotava: «L’esodo dalla città ha assunto proporzioni che superano ogni immaginazione: qualunque mezzo è buono, dall’autocarro al triciclo, dal carro alla bicicletta».
Infatti i Salvatorelli col camioncino di un verduriere si rifugiarono nell’alessandrino presso una cascina di Antonicelli.
[...] Nella Torino di Gobetti e del gruppo Giustizia e Libertà Antonicelli appare come “professore della politica, non certo uomo d’azione”: «Gli azionisti, i liberalsocialisti erano tutti amici miei, però io non ero dentro, cioé non ero militante di quei gruppi». Nel 1973 scriverà: «Ho necessità di vendicarmi della mia giovinezza in fondo pigra e velleitaria... La storia della mia vita è di una lentissima gestazione... Ero maturo in alcune cose, ero sano moralmente, ma non avevo preparato nulla di serio alla mia maturità spirituale e politica. Solo da trent’anni mi sono avviato bene». A trent’anni, ossia nel 1943, si colloca l’anno di svolta: la Resistenza di Antonicelli inizia con la caduta del regime fascista. Il 26 luglio scrive la prima dichiarazione unitaria dei partiti antifascisti ed entra a far parte del Fronte nazionale; dopo la vana difesa di Torino contro i nazisti e il tradimento del generale Adami Rossi che consegna la città al nemico, Antonicelli diventa ‘uomo d’azione’. Lavora al Risorgimento liberale ed è nuovamente arrestato il 6 novembre 1943 e condotto a Regina Coeli dove vede per l’ultima volta l’amico Leone Ginzburg: «Ci scorgemmo appena: egli fece finta di non conoscermi e passò innanzi come chi va cauto nel buio... di giorno eravamo accanto come una volta lo eravamo stati per anni davanti a libri, riviste, a carte bianche o scritte, passando fervidi e ironici da un progetto all’altro... La notte dal 1° al 2 febbraio fui portato via... a Forte Urbano... seppi ch’egli era morto. Mai una morte mi parve meno vera, meno possibile, meno giusta... Egli era uno di quegli uomini nati a guidare: nati col prestigio istintivo, col dominio immediato e incontrastato sugli altri».
Tradotto al carcere di Castelfranco Emilia, vi uscì il 18 aprile 1944 e cominciò l’attività clandestina.
[...]
Catalogo della Mostra Franco Antonicelli. Galleria di simboli, Viscione Editore, II Edizione, 2010

Franco Antonicelli, Federico Ghedini, Bice Bertolotti - Fonte: Catalogo cit. supra

Come ricordare la ricca personalità e biografia di un uomo come Franco Antonicelli? A questo interrogativo risponde un prezioso volume appena pubblicato dalla casa editrice torinese Seb 27 e curato in modo eccellente da Diego Guzzi. Il libro s’intitola In sintonia con il presente. Franco Antonicelli tra politica e cultura. Guzzi, docente e vice-presidente dell’Unione culturale «Franco Antonicelli», ha raccolto sette contributi di studiosi e studiose che permettono di ricostruire le molteplici attività di Antonicelli (vissuto tra il 1902 e il 1974), sempre al confine tra letteratura, politica culturale e impegno politico diretto.
Come ricordarlo dunque? In primo luogo come un raffinato letterato, capace di trasmettere in forme diverse la sua cultura. Supplente al Liceo D’Azeglio di Torino, precettore di Gianni Agnelli, direttore della collana «Biblioteca Europea» dei libri dell’editore Frassinelli attraverso la quale fece conoscere in Italia le opere, tra gli altri, di Franz Kafka, Herman Melville e James Joyce (senza dimenticare il «Topolino» di Walt Disney), fondatore nel 1942 della casa editrice «Francesco da Silva».
In secondo luogo come un combattente per la libertà. Anzi, un capo della lotta per la libertà. Nel 1945, alla vigilia della liberazione, assunse le funzioni di Presidente del Comitato Liberazione Nazionale piemontese, di cui faceva parte come rappresentante del partito Liberale. Proprio a Antonicelli come «oratore della Resistenza» è dedicato nel libro un interessante saggio di Barbara Berruti e Chiara Colombini.
In terzo luogo, finita la guerra, come un instancabile organizzatore di cultura, animatore dei più importanti centri culturali torinesi. Sia per trasmettere la memoria della Resistenza, sia per tenere sempre viva la tensione etica e politica per la piena attuazione della Costituzione e per combattere ogni tentativo di restaurazione autoritaria. Impegno politico e politica culturale, strettamente intrecciati tra di loro, analizzati nel volume dai saggi di Claudio Panella, Pietro Polito e Paola Olivetti (la quale ha studiato più precisamente l’attività di Antonicelli al cinema, alla radio e alla televisione).
Nel 1968 fu eletto senatore nelle liste del Pci, diventando uno dei fondatori della Sinistra Indipendente. La rottura con il partito liberale era avvenuta al tempo del referendum tra Monarchia e Repubblica (1946) e Antonicelli aveva sempre collaborato con gli esponenti della sinistra torinese e in particolare con i comunisti. Il progetto della creazione di un gruppo della «Sinistra Indipendente» avrebbe dovuto realizzarsi già nel 1963, ma il tentativo era fallito. Questa vicenda è importante perché permette di capire una dinamica che era, in effetti, iniziata, un decennio prima. Gli esponenti dell’antifascismo democratico torinese, di area liberale e azionista, avevano reagito con preoccupazione alla sconfitta del movimento sindacale alla Fiat e alle dure repressioni all’interno delle fabbriche che ne erano seguite. A loro giudizio si correva il rischio di rendere più complicato un sano conflitto politico all’interno dela città e in generale in Italia: un conflitto che permetesse di selezionare le energie migliori e quindi di rafforzare uno Stato democratico debole. Per questa ragione alcuni di loro scelsero di collaborare più strettamente con i comunisti, pur preservando la loro indipendenza.
Il volume è inoltre arricchito da un ricordo personale della figlia Patrizia e da un apparato di fotografie ancora inedite. L’attore Marco Gobetti - che ha recitato in diversi licei piemontesi la «Lezione Recitata Franco Antonicelli», anch’essa pubblicata nel libro - nel suo intervento riporta un commento scritto da una studentessa, Giulia Barattini, dopo avere assistito a una recita. Vale la pena leggerne un breve brano:
«In un Paese che sperpera la parola… e spesso vede la cultura unicamente come fonte di guadagno, chi si adopera per per cambiare qualcosa è visto come un salmone che risale il fiume. A lungo termine, però, solo i pesci morti vanno con la corrente, e ci si rende conto che non sono i banchi, o le lavagne multimediali, a garantire ciò di cui abbiamo bisogno, ma le persone in quanto esseri umani, che vivono e sentono davvero ciò che dicono, che se ne appropriano per elargirlo agli altri».
Vivere con passione le cose che si vogliono trasmettere agli altri è un principio che Franco Antonicelli avrebbe sicuramente condiviso e a cui ha effettivamente ispirato gran parte della sua vita e della sua azione.
In sintonia con il presente. Franco Antonicelli tra politica e cultura - Edizioni Seb27
Leonardo Casalino, Antonicelli, da precettore di Agnelli alle battaglie politiche a fianco del Pci, striscia rossa, 5 aprile 2019

Franco Antonicelli, presidente del Cln del Piemonte, comizio in piazza Vittorio Veneto a Torino il 6 maggio 1945 - Fonte: Catalogo cit. supra

La primavera del 1963 fu per Einaudi una stagione di libri straordinari. Nel giro di poche settimane uscirono La cognizione del dolore di Gadda, La giornata di uno scrutatore di Calvino, Lessico famigliare della Ginzburg, il Consiglio d'Egitto di Sciascia, Le memorie di Adriano della Yourcenar, Lo scialle andaluso della Morante, Una giornata di Ivan Denisovic di Solgenitsyn, Franny e Zooey di Salinger, Gli incolpevoli di Broch. Il giovane germanista Claudio Magris pubblicava nei "Saggi" la sua tesi di laurea, Il mito absburgico nella letteratura austriaca moderna. «Il 1° febbraio ero stato assunto    all'ufficio stampa dopo una specie di piccolo concorso. [...] Verso i primi di marzo mi trovai sul tavolo le bozze di un libro di un certo Primo Levi, La tregua. Non sapevo niente dell' autore, e cominciai a leggere. A pagina due, come un rullare di tamburi in un concerto beethoveniano, ecco la scena dell' arrivo nel Lager abbandonato a se stesso dei quattro giovani soldati russi, "sospesi sui loro enormi cavalli", "oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno... Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa"... Restai folgorato. Persino un giovane redattore di nessuna esperienza poteva cogliere la grandezza di quelle pagine, in cui si saldavano la profondità del magistero morale e fermezza classica del dettato. Eccolo lì sul vetrino del microscopio, il male oscuro del Novecento, il virus dell' infezione che ha debilitato il secolo. Nemmeno Montaigne avrebbe potuto dire meglio. Anni dopo, seppi che i primi due capitoli della Tregua erano stati scritti di getto nel 1946-47, coevi dunque della stesura di Se questo è un uomo. Il racconto allora si era fermato lì, perché a Levi premeva soprattutto testimoniare l'incredibile». Allora quel dovere primario era stato assolto, anche se in mezzo alle nebbie di un incubo ricorrente: non essere ascoltati, non essere creduti. Incubo realistico, come sappiamo. Nel 1947 Einaudi si era detto non interessato al libro, e Franco Antonicelli l'aveva pubblicato da De Silva, cambiandogli titolo: da I sommersi e i salvati a Se questo è un uomo, appunto. [...]
Ernesto Ferrero, La tregua, il romanzo degli sconfitti, la Repubblica, 7 febbraio 1997

sabato 24 aprile 2021

Dolce sera: la luna si disfoglia


Maria Luisa Spaziani - Fonte: La Stampa

III
L'esordio poetico: Le acque del Sabato
Sere di inverno
Sere di inverno al mio paese antico,
dove piomba il falchetto dentro i pozzi
d'aria, tra l'uno e l'altro campanile.
Sere rapite a un'onda di sambuchi
invisibili, ai vetri dei muretti
d'ultimo sole accesi, dove indugia
non so che gusto d'embrici e di neve.
Vorrei cogliervi tutte, o mie nel tempo
ebbre, sfogliate voci lungo l'arida
corona dell'inverno,
e ricomporvi in musica, parole
sopra uno stelo eterno
.
- M.L. Spaziani, Le acque del Sabato -
[...] In una intervista del 1977 la Spaziani, ancora in proposito alla scelta del titolo, dice: "Mi aveva colpito l'espressione: il fiume che scorre il sabato non ha lo stesso ritmo morale, per così dire, del fiume che scorre negli altri giorni, perché è un'acqua sacralizzata. L'acqua della poesia è diversa: è l'acqua del sabato: è l'acqua della festa, l'acqua del rito."
Inizialmente vi fu un silenzio totale della critica, finché il 12 ottobre 1954 non uscì sul “Corriere della Sera” un articolo di Emilio Cecchi, il quale definiva la raccolta poetica di Maria Luisa Spaziani come "uno dei libri più magnanimi delle recenti generazioni, dove la cultura si sposa con la natura".
[...] Le acque del Sabato raccoglie componimenti scritti dalla poetessa tra i venticinque e i trent'anni. Questa prima opera è fortemente legata ai luoghi d'infanzia, in particolare alla “villetta dei ciliegi” e alla campagna astigiana (la madre nacque a Mongardino d'Asti) e, non a caso, verrà definita come "il libro della mia preistoria".
Sono anni in cui la Spaziani viaggia molto e nella raccolta si possono scorgere poesie su Venezia, Edimburgo e Parigi, oltre che ai sopracitati luoghi natii ai quali rimase sempre molto legata. La contrapposizione fra la patria e l'estero è quella fra immobilità dell'essere e la mobilità del viaggio, mezzo di conoscenza, punto per una nuova partenza: "Mille strade ci attendono ancora".
In questa prima raccolta vengono anticipati temi che ricorreranno insistentemente nella produzione successiva: la solitudine, la distanza e la rievocazione dei luoghi amati, per quanto riguarda la sfera emozionale, la luna e il mare come elementi della natura che di volta in volta si fanno portatori di significati diversi. Inoltre emerge fin dai primi scritti la centralità della parola, strumento di verità; essa, come si diceva, è esatta ed incisiva, volta a cogliere la concretezza della vita.
[...] Luigi Baldacci definisce la poesia della Spaziani come "una poesia di voce, ricca di quel suono che Leopardi riteneva intrinseco alla funzione della poesia, prima che i moderni ne smarrissero l'eco e i vestigi". Da questa breve affermazione emerge l'idea fondamentale della prima raccolta e di quelle successive, e cioè l'unione fra canto e parola.
La poetessa rivendica una propria autonomia nel quadro letterario a lei contemporaneo, e afferma che la sua poesia ha subito degli influssi shopenaueriani, per quanto riguarda la "radice nera" di sottofondo, e che la sua formazione è avvenuta su autori francesi come Baudelaire e Rimbaud, attraverso la lettura delle emozionati poesie di Anna Achmatova e dalla scrittura etica e spirituale di Rilke. Sicuramente in ambito italiano sono state fondamentali le personalità di Pascoli per quanto riguarda la metrica, d'Annunzio per il panismo, Montale emerge nell'uso aperto del pronome "Tu" e nell'endecasillabo montaliano più volte ricordato, Saba e Quasimodo, poeti a lei contemporanei che pubblicarono le loro prime poesie sulla rivista "Il Dado". Tuttavia, come bene ha osservato Paolo Lagazzi, la Spaziani con la sua originalità ha saputo confondere le acque e nascondere le tracce.
In proposito alla “radice nera” presente nella sua poesia, mi affiora subito alla mente il componimento posto in apertura de Le acque del Sabato:
Non fare che ti tocchi
l'ansito cupo, il battito sulfureo
che dalla terra mascherata,
primavera, si svincola feroce.
Corri, stagione, sul tuo filo azzurro
di polline e di vento.
Cielo per noi sarebbe
fin la maceria sotterranea
se nei meandri sconosciuti, tetri
come le nostre viscere,
il dilagante fiore nero
per noi felici maturasse in segreto
.
[...] Le acque del Sabato rievocano la dimensione del ricordo e della memoria che trasfigurano in un linguaggio poetico che tenta di squarciare il "velo di maya" per penetrare nel profondo e raggiungere il nocciolo della vita.
La Spaziani ricorda che vi è un contrappunto fra la realtà vissuta e la realtà ricordata, tema prettamente proustiano. La poetessa è debitrice della teoria della memoria di Proust, il quale distingueva la memoria volontaria rievocata dall'intelligenza e per questo arida, e la memoria involontaria che riemerge tramite le sensazioni pure.
La reminiscenza quindi affiora dalla memoria involontaria, attraverso essa vi è il recupero del passato che altrimenti cadrebbe nell'oblio. La poesia della Spaziani è fatta di ricordi, di sensazioni e di oggetti concreti, ci ripropone momenti quotidiani in chiave lirica, momenti che talvolta vengono trasfigurati dalla riflessione poetica.
La poesia come contemplazione infatti si riferisce ad oggetti concreti, ma tende a creare intorno a loro un alone di solitudine, questo il motivo principale dei toni malinconici della raccolta.
Ora scende il grigiore
Ora scende il grigiore in mezzo ai vicoli
che un liuto strazia e allarga oltre l'umano
mio tempo, arido ai ricordi.
E mattini ritornano leggeri,
agili sui selciati di rugiada
i nostri passi, i nostri lunghi indugi
sugli eroi dell'Iliade.
O mattini d'estate che memoria
del dolore gelosa in sé contrasta!
Un liuto sospirava una canzone
dietro le canne polverose.
Memoria-autunno-morte, biondo cerchio,
sempre più oscurandoti mi stringi,
feroce amore.

Nel componimento sopracitato è vivo il tema della memoria del passato che ritorna al di fuori del tempo, che sembra essere restio ad accogliere il ricordo.
[...] Ma la luna diventa emblema della solitudine quando la poetessa si trova lontano dalla sua patria, in una città fredda dalle tinte fosche non paragonabili alle luci mattutine italiane.
Edimburgo
Se qui la fredda luce non risveglia
le tinte dei mattini della patria
non chiamarmi, città. Piovono oscure
non so che angosce, o attese, o solitudini.
S'animano le caserme nella sveglia
dell'alba. Ulula un cane da un balcone.
Passa un carretto solitario, un nome
nessuna cosa più scandisce.
Contro il cielo che imbianca,
solo un cipresso e il campanile e un roco
carosello di rondini s'imbruna.
Ma l'Italia è lontana. E questa è valle
e tempo e suono della luna.

La malinconia viene descritta in modo diverso nel componimento Giudecca, la città di Venezia porta con sé un alone di mistero e di attesa e la poetessa osserva i giochi d'acqua della laguna, ascolta il canto lamentoso dei gondolieri che si inabissa nelle acque scure. L'atmosfera è dominata dalla luna, forse il sole splende in un altro luogo rigoglioso e proteso verso la vita. Al v.6 compare la cicogna che nell'immaginario collettivo porta il pargolo e quindi a livello generale annuncia ancora una volta la nascita/rinascita.
Giudecca
Dolce sera: la luna si disfoglia
lenta sulla palude dell'attesa.
Passano i gondolieri, il loro grido
sprofonda, e mai più al mondo tornerà.
Lontanissimo forse il sole splende
su voli in gloria di cicogne, forse
una bionda stagione i ricchi frutti
per te matura, per te s'inghirlanda.
Io qui raccolgo i cerchi che la riva
pigra rimanda. Sono la tua statua
senza occhi né mani.
Quella storia che chiamano la vita
avrà un senso domani
.
Intensa la descrizione della luna, vista come un foglio che si adagia sull'acqua, lì si riflette e sembra “disfogliarsi” perché muta continuamente i suoi contorni incerti sulla laguna mossa dal passaggio di una gondola. I contorni incerti della luna sono gli stessi della vita, che non sempre sembra aver un senso.
Un componimento che, a mio avviso, sintetizza molto bene il concetto della solitudine. Tale sensazione la troviamo soprattutto nella prima quartina, dove si pone l'accento sull'attesa e sul grido dei gondolieri che naufraga nella laguna solitaria. Anche la luna ha una sua importanza nella lirica sopracitata, infatti è descritta come elemento naturale che sottende al ciclo vitale, concetto che nella raccolta La radice del mare (1999) verrà nuovamente ribadito. Le maree vengono qui accostate al pensiero intermittente, che cala e che cresce, che ora è produttivo e ora è spento. La poetessa colloquia con la luna in giorni di triste solitudine e ma anche di felicità.
Nella nebbia dormiamo, eppure la luna c'è,
se ne sta assorta e remota nei suoi feudi lontani.
Non vista comanderà nelle maree,
sui miei pensieri in alto intermittenti?
Con lei ho colloquiato in giorni di solitudine,
quando fra grigio e nero, s'intrecciava il mio tempo.
Nemmeno quand'ero felice l'ho dimenticata,
e nei suoi mari senz'acqua saltavo, delfino in amore
. [...]
Giulia Dell'Anna, L'universo poetico di Maria Luisa Spaziani, Tesi di laurea, Università Ca' Foscari, Venezia, Anno Accademico 2011/2012, pp. 19-34

lunedì 19 aprile 2021

Vi sono anche le bande di Nice, di Finale e di Alassio

Una ormai datata immagine del posto di frontiera, con annessa Dogana, di Ponte San Luigi a Ventimiglia (IM) - Fonte: Alessandra Maini

Il posto di frontiera di Ponte San Luigi visto, nel 1958, dalla parte francese. Fonte: Collezione Sansoni

Quindi tutte insieme le ragazze intonano qualche nota della simpatica vecchia canzonetta che ripete quelle parole:
No, ma cherie no,
ainsi non va
disons adieu à l'amour
si dans l'amour
il n'y à pas... de felicité...

Più tardi, piano piano, Fofò ed il Brigadiere ritornano in Dogana e Gianni dice loro che il Direttore li desidera.
Con un ragionamento molto equilibrato, il Direttore commenta il fatto di poco innanzi e li incita a far meglio nel futuro.
Fofò cerca di scusarsi e fa presente che è stato il Vicedirettore a far partire la macchina senza permettere che lui parlasse.
Il Direttore li assicura di aver telefonato alla Volante di Ventimiglia di fermare la macchina, farsi dare i documenti e portarli in Dogana con una delle loro veloci motociclette per provvedere alla mancata registrazione ed ai dovuti  visti.

Fuori c'è il signor Di Pietra che li attende, ma Fofò, senza dargli tempo di aprir bocca, gli dice che per star bene e far le cose giuste, bisogna essere sempre tranquilli [...]

p. 141

Il Trofeo di Augusto a La Turbie - Fonte: Wikipedia

Davanti a quel monumento [ndr: il Trofeo di Augusto a La Turbie, Costa Azzurra], tutti restano attratti in muta ammirazione. La ciclopica opera d'arte è fatta interamente con enormi massi di pietra, lavorati e squadrati con una perfezione sorprendente, tanto più che in quell'epoca non avevano alcuna macchina di moderna invenzione. Quei pesantisimi massi furono sollevati e messi a posto con grande precisione ad altezze considerevoli.
Un'ampia base quadrata alta una decina di metri; poi un colonnato snello ed alto riunito tutto insieme da un unico gigantesco capitello.
Ena fa notare che un altro monumento dello stesso stile, ma più piccolo, si trova a Pompei, il monumento degli Istacidii.
Fanno delle fotografie e prendono un caffè, una tazza di caffè stile francese, come un decotto diluito ed abbondante.
Ripartono; adesso la macchina discende: si va verso Nizza. In tutta la zona attraversata vi sono ricche e splendide ville che sono dei veri gioielli d'arte incastonati in angoli naturali di incomparabile bellezza.
A Nizza l'autobus sosta per tre ore circa. Ne approfittano per passeggiare un po', pranzano, si fermano negli ampi giardini ove i passerotti rubano ai colombi i pezzetti di pane, che lanciano i bambini.

p. 197

Uno scorcio della Battaglia di Fiori di Ventimiglia (IM), anno 1956 - Fonte: Giuseppe Silingardi

Vi sono anche le bande di Nice, di Finale e di Alassio; quest'ultima è preceduta da un piccolo stuolo di belle ragazze che spargono profumi con appositi spruzzatori.
Sembra di vivere in un mondo irreale.
Il bel sole, caldo e chiaro, avvolge tutto con la sua luce più bella, sembra che anche lui intervenga alla festa ed i suoi raggi danno maggior vita a tutto lo scenario. Ognuno si sente come dominato ed esaltato.
Dopo alcuni giri fatti dai carri, sempre accompagnati da ben meritati applausi, gli altoparlanti danno l'ordine di sostare un po' e di prepararsi per la battaglia; per chi non lo sa, gli altoparlanti precisano che, appena si rimettono in moto i carri, incomincia la Battaglia dei fiori. Una vera battaglia, ove i proiettili sono graziosamente rappresentati da fiori, fiori e fiori.
È assolutamente proibito raccogliere fiori in terra o strapparli dai carri. La maggior parte dei fiori sono applicati ai carri con speciali chiodi sottili e lunghi, il cui lancio è pericoloso.
Per le tribune circolano delle ragazze con i classici e simpatici costumi antichi di Ventimiglia, portano cestini e panieri di fiori, piccoli fasci che offrono gratuitamente agli spettatori, affìnché possano rispondere ai tiri  provenienti dai carri.
La lotta si presenta accanita.  

p. 244

Luigi Nicodemi, Fofò in Dogana, Edizioni Europa, 1957

martedì 13 aprile 2021

La Lima, antico settimanale socialista di Oneglia, in una lettera di Alessandro Natta

 

Fonte: Op. cit. infra




Oneglia, 24 Dicembre 2000

CARO LIBERO,
grazie molto per il dono bello e dolce! Ed io, come ti avevo promesso, trascrivo alcune delle notizie curiose che avevo stralciato da “la Lima”, qualche anno fa quando studiavo le vicende di Giacinto Menotti Serrati.
Non posso naturalmente tracciare tutta la storia, di grande interesse, del settimanale socialista di Oneglia. Voglio solo ricordarti che è nato un anno dopo la fondazione a Genova (1892) del Partito Socialista: il primo numero de “la Lima” porta la data del 4 giugno 1893!
I promotori sono stati quel gruppo di giovani professionisti, per lo più avvocati, di famiglie “risorgimentali”, che allora abbracciarono gli ideali socialisti nel nostro ponente ligure: Canepa, Gandolfo, Rossi, Raimondo, Bruno, ecc. 

Il nostro Giacinto Menotti Serrati - nel '93 era un ventenne alla ricerca di un mestiere perché la morte del padre lo aveva costretto ad abbandonare gli studi - fu tra i primi entusiasti collaboratori e continuò a scrivere su “la Lima” sempre, anche quando divenne direttore (alla fine del 1914) de “l'Avanti”.
[...] 
La prima notizia significativa che ho trovato è sul numero del 21 settembre 1912: una lettera di mio padre, Antonio Natta, sul prezzo delle carni, con una replica de “la Lima”, che naturalmente li riteneva troppo alti!
Mio padre ricompare tra gli abbonati del 1913. (Tra parentesi: negli anni tra la guerra di Libia - 1911 - e la guerra mondiali - 1915 - “la Lima” è di grande interesse per gli articoli di Serrati e di Mussolini, ed anche per la polemica tra i due, e per l'attività politica e giornalistica di nuovi personaggi, come gli avvocati Nino Bruno, Secondo Gissey, ed anche di Orazio Raimondo, che è eletto deputato, il primo deputato socialista della provincia, nel 1913, nel collegio di Sanremo.

Il nome di tuo padre - Nicola Nante - compare nel numero del maggio 1914 nel quale si dà notizia del congresso del Psi (26/28 aprile) in cui si discute il problema della massoneria, e viene espulso, per iniziativa di Mussolini, proprio il famoso deputato di Sanremo Orazio Raimondo. Ecco l'esito della votazione: favorevoli alla espulsione dei massoni 27.398, per la compatibilità 1.819, per non occuparsi del problema 2.485! La sezione di Oneglia aveva dato mandato al delegato Nicola Nante di disinteressarsi alla Ponzio Pilato della questione.
[...] 
Nel numero del 6 febbraio 1915 c'è il resoconto del comizio di Orazio Raimondo (interventista) - con il titolo “Il concerto di lunedì” - in cui si racconta che prima che Raimondo cominciasse a parlare si levò un grido: «La parola a Girella!». Nei racconti che ho sempre sentito, in casa mia, a pronunciare nel teatro quella battuta sarebbe stato proprio Coluccio Nante!
Il numero del 3 luglio 1915, sotto il motto “Frangar non flectar”, cominciano le sottoscrizioni del periodo bellico: nell'elenco ci sono tutti i socialisti onegliesi!
[...]  
Ma riprendiamo con le notizie di cronaca.
Nel 1917 l'abbonamento a “la Lima” costava tre lire; quello sostenitore cinque lire. In questo periodo bellico “la Lima” è spesso vittima della censura; a volte l'intero numero è oscurato. E alla censura si aggiunge la mancanza di carta.
Ma nel numero del 17 marzo un trafiletto in prima pagina porta questa notizia: «Mentre stiamo per andare in macchina i giornali recano che un gran moto rivoluzionario è scoppiato in Russia e che… lo Zar Nicola ha abdicato».
È l'inizio della rivoluzione. 

Anche “la Lima” è costretta, non per la questione della carta, ma per stretta contro i pacifisti, ad interrompere le pubblicazioni, dal 26 maggio 1917 fino a tutto il 1918.
Riprende con il primo gennaio 1919 con un saluto augurale di F. Rossi che tra l'altro scrive: «Non dimenticate... un giusto orgoglio. È quello d'aver avuto tra voi, per molti anni, G. M. Serrati: scrivete nel primo numero, nella prima pagina, nella primissima linea il suo nome e avanti!».
Il motivo di questo così solenne omaggio è che Serrati, direttore de “l'Avanti!”, e in sostanza capo del Partito socialista, è stato arrestato nel 1918 e processato per i moti di Torino - manifestazione nel 1917 per il pane con molti morti - e condannato.
Da molti mesi è in carcere (lui penserà che tutta questa storia sia stata una manovra di V. E. Orlando, capo del governo per colpire l'ala più intransigente del Psi) e dal carcere Serrati uscirà solo ai primi di marzo. Verrà il 13 marzo ad Oneglia, da trionfatore, e sarà accolto da una grande manifestazione popolare sul Rondò, dove parlerà da una vettura l'avvocato Nino Bruno e risponderà il nostro G. M.! “La Lima” farà un resoconto commovente, che io ritengo sia stato scritto da Nanollo Piana.
[...]  
Comincia la stagione accesa della battaglia aperta, del grande successo, nelle elezioni politiche del 1919, del Psi, delle grandi speranze, e anche delle molte illusioni; e prende avvio anche la lotta via via più aspra con i fascisti (è dell'aprile 1919 il primo assalto e la devastazione de “l'Avanti!” a Milano).
Nel numero del primo maggio 1919 “la Lima” pubblica un articolo straordinario di Virgoletta (certamente Nanollo Piana) [...] 
In questo articolo vengono ricordati alcuni compagni: «Gli anziani Agostinetto Berio (ferrea dili- genza) … il serafico Manlio … Narduccio sempre in faccenda … Felicino Musso (il miracolo del primo avanzo di cassa!) Coluccio Nante (disastro) Massobrio (il tipo del miglior amministratore) …».
Li riconosci questi nomi? Berio, detto “u roudon”, era un barbiere, e sarà anche sindaco socialista, dopo Piana, di Oneglia nel 1922; Manlio Serrati, fratello di G. Menotti e padre del medico Bruno; Narduccio è Dulbecco che sarà nel 1921 il capo dei comunisti; Musso, sindaco socialista di Castelvecchio, poi pasticciere sotto i Portici, e infine costretto all'esilio in Francia e in Spagna, con i due figli Ornella e “Sumi” che avrai conosciuto, penso, nella Resistenza; Massobrio il barbiere.
[...] 
Nel numero del 29 giugno vengo immortalato anch'io: «Sottoscrizione pro “Lima”: trovato dal bimbo Alessandro Natta L. 1 (avevo 18 mesi!!). Ora comincia la propaganda per la solidarietà con la Russia e cominciano anche le discussioni e i contrasti dentro il Psi, tra massimalisti e riformisti e tra le diverse tendenze del massimalismo. 

Nel numero del 6 settembre 1919 compare - mi sembra per la prima volta - il termine “fascista” e nella sottoscrizione quello del mio futuro cognato Zanetta Tomaso L. 1 (mia sorella Teresita, invece, sottoscriveva L. 5: ma lei era la figlia di Tugnen il macellaio, e lui un povero operaio, di Renzetti…).
 [...] 
Ma ora siamo ancora al 1919, e alla cronaca onegliese.
A settembre viene fondata la sezione fascista da Agostino Scarpa, un ex sindacalista, passato dall'altra parte.
A ottobre muore Francesco Ughes (“Pacichen”), che era stato al domicilio coatto alle Tremiti e a Porto Ercole, pioniere del socialismo.
Al congresso di Bologna, in ottobre, il capo acclamato del Psi è senza dubbio G. Menotti Serrati, e Bordiga appare come un leader tra le giovani generazioni. Hanno vinto i massimalisti elezionisti, ma nell'unità del partito. E tutti, da Serrati a Turati, sono favorevoli all'adesione alla Internazionale comunista appena fondata da Lenin. E Serrati dà il via alla pubblicazione di una nuova rivista, con il titolo chiaro ed emblematico: “Comunismo”.
Nel numero de “la Lima” del 17 ottobre viene pubblicata la lista dei candidati del Psi alla Camera, in perfetto ordine alfabetico: Abbo Pietro, poi c'è Marco Donzella (di Sanremo) e ancora Serrati Carlo Lucio.
L'esito delle elezioni del novembre segna un successo clamoroso del Psi (160 deputati), del Ppi (103 deputati), poi distanziati 14 Repubblicani e 23 Riformisti! I giolittiani, i fascisti, i democratici monarchici di tutte le risme sono [...]
In Liguria sono eletti: i socialisti Abbo, Rossi, Binotti, Bacigalupi, Serrati Lucio, Riba; i popolari: Cappa, Agnesi, Boggiano, Zunini; i democratici: Celesia, Guida; i ministeriali: Casoretto, Cerpelli, Poggi e infine Giulietti per il Partito del Lavoro e Macaggi per i combattenti.
Per queste elezioni Natta Antonio sottoscrive 20 lire e sottoscrivono anche Teresa Natta e Pietro Natta; e Coluccio Nante - tieniti forte - sottoscrive 500 lire: una cifra enorme che non credo di aver trascritto male, né che “la Lima” abbia cambiato un 50 in 500! Ma ormai è fatta. In compenso nel numero del 28 novembre “la Lima” annuncia il matrimonio di Coluccio Nante e Nannina Forlino.
Il 1919 si conclude - dice sempre “la Lima” - con una mascalzonata nazionalista: l'aggressione a Roma, a dicembre, dei deputati socialisti Abbo, Serrati, Murari, Bellagarda, Romita.

Nel 1920 l'abbonamento al settimanale diventa di 6 lire, un numero costa 20 centesimi, ma cresce anche la solidarietà, e in ogni elenco è presente con somme notevoli Nante Nicola, ed anche Natta Antonio, tanto che mi sono domandato se in quegli anni ci fosse ad Oneglia qualche altro socialista che si chiamava Natta Antonio (e forse sì!) e se quel Nante Nicola fosse proprio Coluccio!! Di altri socialisti che ho ben conosciuto, come Romolo Crivelli, anche lui generoso, non posso dubitare perché di Crivelli ad Oneglia c'era solo lui.
[...]
Il 23 luglio su “la Lima” c'è la notizia dell'incendio de “l'Avanti!” a Roma: “l'Avanti!” allora aveva tre edizioni - Milano, Torino, Roma - ed era uno dei quotidiani di maggior prestigio e diffusione.
Nello stesso numero è rilevante che il Circolo Giovanile socialista indichi tra i sottoscrittori del prestito comunista: Ughes Gaetano, Natta Pietro, Zanetta Tommaso, Senardi Stefano, Troni Giovanni, Amoretti Riccardo, rag. M. Valentini: saranno tutti ben noti!
Ed anche Natta Antonio sottoscrive, la settimana successiva, due cartelle: ed io mi interrogo sempre se si tratta proprio di mio padre (mentre non ho dubbi su Teresa e Pietro Natta, che sono mia sorella e mio fratello, su Tommaso Zanetta, mio futuro cognato).
Ad agosto a Giovanni Perasso viene data per appalto la gestione del teatro Umberto, per il 1920/’21. E dal numero de “la Lima” del 27 agosto si apprende che Nante Nicola era il presidente della Cooperativa Sociale di consumo.
 [...]
Il 10 settembre c'è l'annuncio della occupazione delle fabbriche, che non avrà un esito positivo. E la notizia del matrimonio con rito civile di Romolo Castagno e Rosa Persico.
 [...]
A novembre sarà memorabile, sia al teatro Umberto che al Cavour, la celebrazione del terzo anniversario della rivoluzione. Parleranno Piana, e poi Menotti Serrati, che è stato a Mosca al secondo congresso della Internazionale comunista, dove ha discusso in modo aperto con Lenin. Serrati al suo ritorno ha detto (come riferisce “la Lima”, con il linguaggio tipico dell'epoca e di Nanollo): «Le verità più crude ma anche più sante…».
Lui, il difensore primo della Russia e della rivoluzione, ha parlato delle condizioni drammatiche, delle difficoltà enormi, della guerra civile con cui i comunisti russi sono alle prese, ed anche dei punti di differenza e di contrasto tra gli orientamenti dell'Internazionale e le posizioni che sono proprie di Serrati e che egli sosterrà tenacemente fino alla tragica rottura, nel congresso di Livorno del gennaio 1921, proprio nel campo del massimalismo, tra Serrati e il grosso del partito socialista e i suoi allievi, Bordiga, e il gruppo torinese di Gramsci, Terracini, Togliatti, che daranno vita al partito comunista. Anche su “la Lima” è venuta accendendosi la discussione tra le diverse tendenze; e, anche se il settimanale è chiaramente sulle posizioni di Serrati, non mancano gli interventi che possiamo definire “bordighiani”.
[...] 
Ora però, negli ultimi mesi del 1920, compaiono articoli con la firma “Vladimiro”, a nome del “Circolo Giovanile socialista”.
Non so chi c'è dietro questo nome leninista (forse Leonardo Dulbecco?), ma so che ci sono i “bor- dighiani” che nel 1921 andranno nel partito comunista, e tra loro mia sorella Teresita e mio fratello Petruccio, e così io avrò la guerra in casa perché Zanetta, divenuto mio cognato, resterà fedele sempre a Serrati. Anche Piana e Nante continueranno a seguirlo fino a Livorno, ma non molto oltre perché in loro prevalse, e per sempre, l'anima del riformismo.
In crisi però non è solo il campo della sinistra, ma anche quello della democrazia liberale, che passa da un governo all'altro - da Orlando a Nitti, da Nitti a Giolitti. Nell'aprile del 1921 viene sciolta la Camera. 
Alle elezioni sono presenti le liste dei socialisti (ancora Abbo e Lucio Serrati), dei comunisti (credo Dulbecco), nello schieramento dei liberali e fascisti c'è il generale Asclepia Gandolfo; e si presenta anche il democratico Giacomo Molle, che “la Lima” prende un po' in giro («così giovane e già commendatore»). 

Verso la fine di aprile, la campagna elettorale viene funestata ad Oneglia da un tragico incidente nel corso del comizio di A. Gandolfo e Coda e del contraddittorio di Dulbecco e in attesa del discorso di Nino Bruno. Pare vi sia stata qualche provocazione dei fascisti, o comunque qualche intemperanza dei campi opposti, che determinò un intervento della polizia, che sparò ed uccise Maurizio Gorlero, uno di Porto Maurizio, che non era né fascista né socialista.
Questo episodio sensazionale che “la Lima” raccontò in due pagine - «La tragica domenica di sangue: la punizione contro Oneglia rossa…» - entrò nell'immaginario collettivo e famigliare, ed io l'ho sentito rievocare tante volte che più tardi mi sembrava di averlo vissuto!
Naturalmente ci furono gli strascichi polizieschi e politici: la chiusura, ancora una volta, del “Caffè del Popolo”; l'arresto per alcuni giorni dell'avvocato Nino Bruno; le polemiche dure contro i fascisti “colti”, i ragionieri Emilio Varaldo, Carlito Muratorio (mio cugino), Granara e, come diceva, “simili”.
Intanto l'avvocato Molle veniva escluso dalla lista del blocco giolittiano e il generale Gandolfo era chiamato in causa anche lui per l'incidente del Rondò.
L'esito delle elezioni fu sorprendente, in particolare per la tenuta del Psi, ed anche dei popolari. Nella nuova Camera entrarono 125 socialisti, 16 comunisti, 7 repubblicani, 107 popolari, 20 fascisti, 252 deputati del “minestrone” liberaldemocratico conservatore, e 8 tedeschi e slavi.
Ma in Liguria i “rossi” restarono forti, risultando eletti: Abbo, Baratono, Binotti, Faralli, Rossi, socialisti; Graziadei, comunista; Canepa Giuseppe, autonomo; quattro popolari e sei rappresentanti del Blocco. Poi Faralli risultò non eletto e il seggio toccò invece al popolare onegliese Agnesi. Il generale Gandolfo venne “trombato” e preso in giro da “la Lima”, ma fece in tempo, prima di scomparire prematuramente nel 1926, a fondare la milizia fascista!

È presente come sempre “milite devotissimo e disciplinato”, ma con la sua fede cocciuta ed intransigente, anche Menotti Serrati. Lui scomparirà nel maggio del 1926. Ma ad Oneglia i suoi compagni, i “terzini”, così erano chiamati, da Pietro Abbo a Goffredo Alterisio, da Gaetano Ughes a Menicco Amoretti, a Tommaso Zanetta saranno il nerbo del Pci e i suoi dirigenti di prima fila nella Resistenza, nella lotta di Liberazione e poi nella rinascita dell'Italia.
 [...]
“La Lima” si consente gli ultimi sfoghi contro le imprese criminali dei fascisti; e con le affermazioni incredibili (allora, ma anche oggi a rileggerle) di Ivanoe Bonomi, che aveva detto: «Il fascismo è nato per affermare i valori spirituali della nostra razza» e che “la Lima” bollava definendolo «pagliaccio e sanguinario come tutti i transfuga».
Siamo a dicembre del 1921.
Non c'è ancora il senso della sconfitta, anche se le preoccupazioni diventano sempre più acute e assillanti - ma intanto continua la sottoscrizione, e all'Umberto I si svolge, prima di Natale, la veglia rossa: «Dopo mezzanotte canta applauditissimo alcune romanze il dilettante baritono compagno Zanetta!».

L'abbonamento per il 1922 è salito a 10 lire.
“La Lima” continua imperterrita la sua battaglia: ricorda a tre anni dalla morte Rosa Luxembourg
 [...]
Ad aprile appare tuttavia un rimprovero esplicito di Serrati che scrive: «“La Lima” da qualche tempo è un giornale del più puro riformismo, che si rifiuta persino di pubblicare il pensiero della Direzione».
Seguono, naturalmente, spiegazioni e giustificazioni, ma è vero che il settimanale socialista viene perdendo il tono vigoroso, e si fa via via più scialbo.
E intanto anche ad Oneglia i fascisti fanno nuove reclute, in tutta Italia si fa più duro e distruttivo l'attacco dei “nuovi Unni” alle case del popolo, alle sedi delle Camere del lavoro, dei giornali, dei comuni; e ai militanti della sinistra.
Anche lo sciopero di agosto non riesce ad arginare la marea montante.
Ad Oneglia e a Porto si tengono nei teatri due comizi, nei quali parlano Nanollo Piana, Abbo, Nino Bruno, Ericario, Lucio Serrati, Alterisio.
Ma a Castelvecchio i fascisti distruggono il monumento ai caduti che portava l'iscrizione «Guerra al regno della guerra».
 [...]
Ma le sconfitte non sono mai corroboranti, e le rinascite esigono tempi lunghi e sforzi inauditi, eroici.
Per il momento il fascismo, «sorto tra le simpatie e sotto gli auspici di tutte le gamme più svariate del padronato italiano», va all'assalto del potere. Ad Oneglia anticipa: sotto i colpi del manganello cadono ora anche i popolari; anche Lucio Serrati viene aggredito da una squadra, guidata da “Sciguretta” (Ardoino).
Nel comune l'amministrazione socialista di Piana e poi di Agostino Berio, sistematicamente oggetto di critiche e attacchi furibondi per la politica fiscale da parte di tutti “i signori”, viene messa in mora ad agosto con l'invio di un commissario e a settembre si dimette la giunta e si scioglie il consiglio comunale.
È la fine. Anche per “la Lima” che chiude la sua grande e gloriosa vicenda con l'ultimo numero del 30 settembre 1922.

CARO LIBERO,
mi sono fatto prendere la mano e, anche se ho cercato di tenermi alla cronaca e di lasciare da parte la grande politica, ho finito per non resistere alla rievocazione sommaria delle vicende grandi e drammatiche vissute dai nostri vecchi nei primi venti anni del XX secolo!
 [...]
Io sento assai forte l'orgoglio per ciò che le forze di sinistra - i comunisti e i socialisti - anche attra- verso tante traversie e contrasti, sono riuscite a fare nell'ultimo cinquantennio.
Ed oggi il mio auspicio più schietto, insistente e grande, è che si riprenda con chiarezza e vigore la via dell'unità e del socialismo.
Non so se mi perdonerai di avere trasformato un ricordo e un omaggio per Coluccio, per Nanollo, per mio padre e i miei in questa pappardella.
E non me la prenderò se non riuscirai a leggerla interamente.
tuo
SANDRO NATTA

Alessandro Natta (1918-2001), in PAGINE NUOVE DEL PONENTE, bimestrale di politica e cultura, Imperia, ANNO III n. 4 - luglio-agosto 2001

 

lunedì 5 aprile 2021

Malgrado la fame, il mio peso era sempre di un quintale circa

Giorgio Amendola con la moglie Germaine

Bisognava ora che le posizioni unitarie affermate a Tolosa fossero fatte conoscere in America e fossero approvate dai gruppi antifascisti che vi si trovavano. Ma, soprattutto, bisognava che quelle posizioni fossero fatte conoscere in  Italia.
Attraverso i «legali», ritornati in Italia, ed i rapporti stabiliti con le famiglie di emigrati, copie dell'appello di Tolosa e circolari e lettere redatte nei mesi successivi, durante il 1942, furono inviate in Italia. Dalla corrispondenza inviata dai «legali» ai recapiti concordati appariva che il materiale inviato aveva avuto una certa diffusione e anche che veniva riprodotto. Una ricerca di archivio dovrebbe permettere di tratteggiare la carta delle aree di diffusione del  materiale inviato dalla Francia. È certo che già entro il 1941 in molte località italiane era pervenuta copia dell'appello di Tolosa. È certamente da deplorare la circostanza che, invece, copia dell'appello sia pervenuta al compagno Massola soltanto nell'estate del '42. Questo ritardo nel collegamento tra il centro estero e il centro interno non mancherà di provocare molti dannosi equivoci. Credo che, per quanto ridotta l'area di diffusione dell'appello di Tolosa, questo abbia servito a promuovere una certa preparazione politica, che dovrà permettere di accogliere con minore resistenza nel '43, dopo il 25 luglio e l'8 settembre, la linea di unità nazionale promossa dal  partito.
Era necessario tuttavia stabilire in Italia un contatto qualificato con gli esponenti antifascisti, per fare giungere loro i testi dei documenti approvati dal Comitato di Tolosa, compresa la lettera redatta da Sereni e diretta ai liberal-socialisti (della cui attività e linea politica eravamo stati informati), e per raccogliere notizie sullo stato in cui si trovavano i partiti antifascisti e sulle linee di attività che andavano svolgendo. Pensammo di affidare questo incarico a Gillo Pontecorvo, cugino di Emilio Sereni, che si trovava a Saint Tropez e che allora era per noi soprattutto un giovane simpatico sportivo, e il «fratello del fisico Bruno Pontecorvo». Ma bisognava prepararlo politicamente a compiere la sua missione, e questa fu l'occasione per fare con Germaine dei viaggi in quella magnifica località, allora ancora intatta nella bellezza delle sue spiagge deserte.
A Saint Tropez aveva trovato rifugio uno strano mondo di ìntellettuali francesi e stranieri, che sembravano vivere fuori del tempo e dello spazio, come se la guerra fosse una cosa remota. (Ma a Saint Tropez vi erano anche dei bravi compagni emigrati italiani, tra i quali il proprietario di un noto ristorante, dove aveva trovato rifugio e una base di attività Claudine Pajetta, che intravidi senza avvicinarla perché la consegna era di non conoscerci).
I viaggi a Saint Tropez erano allietati dalla squisita ospitalità di Gillo e di sua moglie Henriette. Quando non c'era nulla da mangiare, c'era sempre la risorsa della pesca subacquea nella quale Gillo era un asso. Il mare era allora  molto pescoso. Gillo si tuffava e tornava con un grosso pesce, per poi rituffarsi e prenderne rapidamente un secondo. Il primo era destinato allo scambio contro generi in natura: pane, olio, pasta. Il secondo veniva arrostito. E saltava  fuori un magnifico pranzo che per noi affamati di Marsiglia rappresentava una grande festa. Ma non fu per questi motivi turistico-gastronomici che la preparazione di Gillo andò per le lunghe. Alla fine, quando egli partì, si era già nell'estate del 1942.
In Italia egli prese contatto con Edoardo Volterra e questi lo presentò a La Malfa e a Tino. Gillo consegnò a  Volterra il materiale che aveva portato con sé e, tornato in Francia, ci portò informazioni dalle quali risultava che in quel  momento, nel settembre '42, alla vigilia di El Alamein e dello sbarco in Africa degli anglo-americani, lo stato di organizzazione dei partiti antifascisti era ancora assolutamente arretrato. In pratica, si era ancora ai primi contatti. I vecchi «popolari» andavano riannodando prudentemente le fila e preparavano i loro «nuovi orientamenti». I vecchi socialisti erano anch'essi alla fase dei radi contatti tra vecchi amici. Era in corso una discussione sul carattere di un partito nuovo in formazione, dove la pregiudiziale repubblicana spingeva dei democratici liberali come La Malfa accanto ai liberal-socialisti in un bell'imbroglio ideologico e politico, mentre altri democratici liberali venivano respinti a destra verso Croce e i conservatori. Queste informazioni, abbastanza deludenti, contrastavano con quelle provenienti dai nostri compagni «legali», attestanti tutte una crescente estensione del malcontento antifascista nelle masse. In particolare veniva segnalata la importanza assunta dal rifiuto dei contadini di obbedire all'ordine di consegna del raccolto all'ammasso. Veniva indicata la crisi crescente del partito fascista, il dilagare di un atteggiamento di indisciplina, di larga e palese violazione delle disposizioni fasciste.
Portai queste notizie a Nenni che, dopo un breve arresto, era stato trasferito dalle autorità francesi da Palade, nei Pirenei, a Le Croizet, un paese di montagna presso la cittadina di Saint Flour nell'Auvergne. In quel periodo (1942) andai più volte a trovare Nenni. Era una zona della vecchia provincia francese verde e fresca, miracolosamente intatta, non colpita dalla guerra né dalle sue conseguenze. Erano per Nenni giorni di grande ansia per la sorte di sua figlia Vittoria, arrestata a Parigi assieme a suo marito.
L'accoglienza della famiglia Nenni fu molto affettuosa e generosa. Il primo problema era sempre quello di trovare il modo di soddisfare la mia fame arretrata. E la signora Carmen, da brava romagnola, riusciva fare anche il miracolo di trovare la farina per fare delle tagliatele, condite con i funghi raccolti nei boschi da Nenni con la mia impacciata partecipazione. Una volta Nenni arrivò a compiere la prodezza sportiva di portarmi, per non farmi perdere il treno, sulla canna della bicicletta fino alla stazione lontana circa dieci chilometri. Malgrado la fame, il mio peso era sempre di un quintale circa.
In quelle visite, oltre alle questioni politiche di attulità, ci imbarcammo in lunghe e interminabili accalorate discussioni, che ci permisero un ampio e libero riesame critico delle vicende sfortunate dell'antifascismo italiano. Fu in quella occasione che conobbi meglio Nenni e strinsi con lui un'amicizia che dura tuttora e che ha resistito a tutti i motivi di gravi dissensi politici maturati nel corso dei travagliati sviluppi della lotta politica italiana.
Giorgio Amendola, Lettere a Milano, Editori Riuniti, 1973, pp. 68-70

 

giovedì 1 aprile 2021

Enrico Ghezzi da Genova a...


[...] A pensarci bene, restando su questa linea riflessiva ghezziana, si potrebbe mettere in rilievo che sebbene il medium fosse freddo (la Tv), per di più con Ghezzi che adottò la straniante asincronia del commento sulle sue immagini pre-registrate molto tempo prima, il suo esprimersi arruffato era caldo, proprio perché appassionato, in bilico tra faceta critica ed elucubrata cinefilia.
Spedita scheda anagrafica e professionale di Enrico Ghezzi.
Nasce a Lovere, un piccolo comune di Bergamo, il 26 giugno 1952, per poi trasferirsi in giovane età con la famiglia a Genova. È nel capoluogo ligure che si plasma la sua cultura cinematografica, frequentando il cineclub Filmstory e aderendo al gruppo cattolico Agesci.
Per inciso, la Liguria ha dato i natali ad alcune fondamentali colonne della critica cinematografica, come Roberto Chiti, Claudio G. Fava o Gianni Amico, ed è nella seconda metà degli anni Sessanta che si forma una generazione di futuri giovani turchi-liguri che lasceranno un marcato segno nel mondo della critica cinematografica e nei palinsesti Rai: Tatti Sanguineti (Savona, 1946), Carlo Freccero (Savona, 1947), Oreste De Fornari (Genova, 1951) e Marco Giusti (Grosseto, 1953 - ma trasferitosi già bambino a Genova).
Il tipo di esegesi critico-cinefila proposta da Enrico Ghezzi si può comprendere sia dalle assidue frequentazioni di cineclub d’essai e di sale di terza categoria, e sia dal suo percorso di studi, culminato con una tesi in Filosofia morale. Nel 1974, assieme a Marco Giusti e Teo Mora, fonda la rivista Il falcone maltese, con cui il gruppo propone una critica espansa, che non sia legata a usuali schemi bacchettoni. Purtroppo la rivista sopravvive tenacemente soltanto per due anni. Nel 1978 Ghezzi vinse il concorso di programmista-regista indetto dalla Rai per creare il polo ligure per la nascente terza rete, e nel 1980 si trasferì a Roma, iniziando a curare la programmazione cinematografica di Rai 3, ad esempio ideando cicli di film. Dal 1987 cominciò ad occuparsi del palinsesto della terza rete Rai, dando spazio a nascenti talenti (Ciprì e Maresco) e ideando alcuni programmi che hanno fatto la storia della televisione italiana. Nel 1985, assieme a Marco Giusti, creò una portentosa personale su Walt Disney al Festival del cinema di Venezia. Nel 1988 esordì dietro la macchina da presa realizzando l’episodio Gelosi e tranquilli del film collettivo Provvisorio quasi d’amore.
Nel suo percorso professionale, fondamentale fu la stretta collaborazione con Marco Giusti, conosciuto durante le scorribande cinefile a Genova, che durò fino alla prima metà degli anni Novanta, per poi infrangersi con una furente litigata.
[...]
Tappe ghezziane fondamentali
Enrico Ghezzi ha messo il suo zampino filosofico su alcuni capisaldi della critica cinematografica e della televisione italiana, e un paio di essi ancora sono lì a (di)mostrare il loro sfavillio.
Cominciamo dai libri:
Paura e desiderio. Cose (mai) viste, 1974-2001 (1995). Come già accennato contiene una mole enorme degli scritti di Ghezzi. Se si vuole conoscere l’autore e il suo stile, questo è il primo passo per comprenderlo, facendo gincane mentali - comunque piacevoli e costruttive - per capire nel profondo le sue riflessioni. Il titolo è il sunto perfetto delle sue ossessioni: Paura e desiderio, poli indiscussi del genere cinematografico (Thanatos ed eros), ma soprattutto omaggio alla sua passione per Kubrick, citando il suo lungometraggio d’esordio, per decenni visionabile solamente in copie clandestine; Cose (mai) viste, auto-citazione del sottotitolo del suo programma di punta; 1974-2001, le datazioni degli scritti, che iniziano con una data vera (1974) e terminano con l’anno domini cinematografico per eccellenza, immortalato da Stanley Kubrick. Infine, la data di pubblicazione del volume, uscito proprio nell’anno del centenario del cinematografo.
Stanley Kubrick (1999). Tra i diversi volumi che compongono la collana Il Castoro Cinema, il tomo dedicato a Kubrick è stato uno dei più venduti.
Ghezzi si è appropriato, sin dalla prima edizione del 1977, del regista per eccellenza, e nelle pagine di questo saggio il critico ha dato sfogo alle sue elucubrazioni, filosofeggiando con costrutti ermetici su tutte e 13 le pellicole, cominciando in medias res, ossia da 2001: Odissea nello spazio (2001 - A Space Odyssey 1968), pellicola spartiacque della carriera del regista. In 20 anni il volume non ha subito modifiche o correzioni di pensiero, e ha subito poche aggiunte, anche perché da quel lontano 1977, Kubrick ha realizzato solo 3 pellicole: Shining (The Shining, 1980), Full Metal Jackett (1987), Eyes Wide Shut (1999).
L’ossessione per Kubrick si è manifestata, attraverso la stesura della prefazione, anche nel libro Ladro di sguardi - Fotografie di fotografie 1945-1949 (1995), raccolta dei giovanili scatti fotografici del regista; e nell’introduzione, per l’edizione italiana, del libro/sceneggiatura Lolita (1997) di Vladimir Nabokov.
I programmi televisivi:
La magnifica ossessione (1985). Maxi maratona di 40 ore, curata assieme a Irene Bignardi e Marco Melani, per rendere omaggio ai primi 90 anni del cinematografo. Andata in onda su Rai 3, tra il 28 dicembre e il 30 dicembre, questo programma espanso si potrebbe definire il primo assaggio di quello che sarà poi Fuori orario, ossia riflessioni critiche e messa in onda di pellicole rare. Anche il titolo, che ossequia il melò per eccellenza Magnificent Obsession (1954) di Douglas Sirk, serve a corroborare la mania cinefila che vibra in questo straordinario evento televisivo. Per inciso, gli interventi critici erano tutti pre-registrati.
Schegge (1988-1995). Ideato assieme a Marco Giusti, era un programma di montaggio che prevalentemente attingeva, rispolverando i materiali rari sparsi, dal ricco magazzino Rai.
La struttura Rai teche, creata per mettere in ordine la mole di materiale, sarebbe stata creata solo nel 1995. Come avverte il titolo, è solo una brevissima riproposizione di qualcosa proveniente dal passato, un frammento di memoria.
Schegge, usualmente programma notturno, era un erudito momento nostalgico che riorganizzava per tematica gli spezzoni proposti.
Famoso quello denominato Schegge Jazz, andato in onda tra il 31 agosto 1992 e l’11 dicembre 1992, che riproponeva vecchi filmati di concerti dal vivo di alcuni tra i più grandi jazzisti del Novecento.
Fuori orario. Cose (mai) viste (1988-presente).
Dal 20 febbraio 1988, è la piccola oasi del cinema d’essai televisivo. La canzone Because the Night di Patty Smith che commenta le scene oniriche de L’Atalante sono ormai leggenda, e non ci si stanca mai di rivederle/riascoltarle.
Lontano dalle mode e dallo spietato share, è stato per moltissimi anni l’unico luogo dove poter “reperire” pellicole rare o, per citare il sottotitolo, cose mai viste. Un appuntamento notturno fondamentale, non sempre rispettoso degli orari di palinsesto, ma saziante per quello che proponeva.
[...] Purtroppo Fuori orario con gli anni si è ridimensionato, da un lato perché Rai 3 gli concede meno spazio, e dall’altro per l’arrivo di internet delle nuove piattaforme di streaming, senza dimenticare il Peer to Peer, che consente il rispecaggio di cose mai viste. In ogni modo Fuori orario rimane a tutt’oggi l’unico vero atto d’amore verso il cinema.
P.s.: anche questo programma ha un titolo cinefilo, prendendo in prestito quello di Fuori orario (After Hours, 1985) di Martin Scorsese.
Blob (1989-presente). Ideato assieme a Marco Giusti (e tanti altri collaboratori succedutisi negli anni), la prima puntata andò in onda il 17 aprile 1989. L’intento di questo magmatico programma, che va in onda quotidianamente in fascia pre-serale, è quello di montare insieme i più bizzarri momenti televisivi del giorno prima (o della settimana), creando connessioni discorsive tra il variegato materiale televisivo scelto, a cui a volte si innestano clip cinematografiche. Come nei sopracitati programmi, anche questo recupera il titolo di un famoso cult, ovvero dallo Sci-Fi (anti-comunista) Blob - Fluido mortale (The Blob, 1958) di Irvin S. Yeaworth, e come la massa gelatinosa di quel B-Movie, anche il programma Blob è una creatura che lorda e soffoca lo schermo televisivo.
Negli anni il programma ha avuto anche “puntate speciali”, creando delle beffarde monografie su un determinato personaggio.
Roberto Baldassarre, Enrico Ghezzi tra paura e desiderio cinefilo, Diari di Cineclub, Anno X, N. 93, Aprile 2021


 

sabato 27 marzo 2021

Moreschi considera molto democratica la fotografia

In uno degli archivi dello Studio Moreschi - Foto: Silvana Maccario

Lunedì scorso, nella Sala degli Specchi di Palazzo Bellevue, Unitre Sanremo ha riscoperto le origini dell’immagine che ormai molta importanza nella nostra società ormai definita la cività dell’immagine. La Presidente Forneris ha introdotto Alfredo Moreschi che appartiene ad una dinastia di fotografi sanremesi e lo Studio Moreschi custodisce una memoria visiva degli eventi e dei personaggi celebri che a Sanremo sono stati numerosissimi.
Ma Alfredo Moreschi ha delle curiosità storiche della tecnica fotografica ed ha esposto numerosi oggetti legati alla fotografia che risalgono proprio agli albori di questa scoperta il cui anno di nascita è il 1839. 

In uno degli archivi dello Studio Moreschi - Foto: Silvana Maccario

Gli inventori della fotografia sono stati più d’uno e non è facile discernere chi vi ha maggiormente contribuito, anche perché, come ricorda Moreschi, paradossalmente non sapevano di averla inventata. Il bisogno di vedere la propria immagine e possibilmente riprodurla è antica quanto l’uomo. Quando ancora le tecniche figurative erano rozze, in alcune grotte preistoriche i nostri antenati lasciavano l’impronta delle proprie mani in negativo colorandone il contorno e Narciso addirittura s’innamorò della propria immagine riflessa nello stagno. Le tecniche figurative si sono sempre più evolute e nel Rinascimento la raffigurazione dei corpi e dei paesaggi raggiunge espressività mirabili. La parola scritta con l’invenzione della stampa a caratteri mobili da parte di Gutenberg verso la fine del 1400, ha potuto raggiungere un sempre maggior numero di lettori, mentre la fotografia ha dovuto aspettare altri quattro secoli.


In uno degli archivi dello Studio Moreschi - Foto: Silvana Maccario

Eppure le prime intuizioni risalgono addirittura ad Aristotele e poi al grande Leonardo da Vinci. Eppure qualcosa che registri le immagini come l’occhio umano sembra sempre sfuggire. Si perfezionano le lenti e col canocchiale di Galileo si punterà al cielo, diventeranno d’uso abbastanza comune complicati aggeggi detti camere oscure anche portatili dotate di gruppi ottici, periscopi e pantografi per disegnare agevolmente paesaggi e figure. Per il fissaggio delle immagini su di una superficie dovrà però venire in soccorso la chimica. La transizione dalla pittura alla fotografia è avvenuta grazie a Louis Daguerre, singolare figura di pittore appassionato di chimica che inventerà il dagherrotipo, primitivo parente della fotografia. Nel dagherrotipo la superficie è una lastra metallica ricoperta d’argento e cosparsa di iodio inserita in una camera oscura dotata di obiettivo. Poi con vapori di mercurio avviene lo sviluppo e si ottiene una immagine positiva non riproducibile. Altri contemporaneamente lavoravano a far nascere la fotografia senza comunicare fra loro, soprattutto William Talbot, John Herschel e Hippolyte Bayard, con l’utilizzo della carta, nuovi metodi di fissaggio a base iposolfito e l’immagine in negativo sviluppabile in positivo in numerose copie.


In uno degli archivi dello Studio Moreschi - Foto: Silvana Maccario

L’importanza della riproduzione delle immagini non fu subito compresa anzi per alcuni anni si continuò a privilegiare il costoso dagherrotipo. Il perfezionamento dei materiali sensibili, dei procedimenti di sviluppo e degli strumenti ottici porterà verso la fine dell’ottocento a rendere obsoleto il dagherrotipo ed a rendere la fotografia sempre più popolare, gli studi fotografici prosperarono e nel secolo scorso si diffusero apparecchi portatili per professionisti e dilettanti che veramente faranno diventare la storia recente una sequenza di immagini. Le macchine avevano le pellicole sensibili, che andavano sviluppate in laboratorio, ma arrivò anche la POLAROID che addirittura sviluppava in pochi secondi la fotografia. L’ultima rivoluzione è quella digitale con cui scattiamo foto con macchine sofisticate oppure anche con un telefonino e possiamo conservare decenni di nostri ricordi su di un computer. Moreschi dopo tutte queste informazioni storiche non ha mancato di fare qualche riflessione sulla fotografia come attività umana.
Egli considera molto democratica la fotografia perché consente a tutti di raffigurare il mondo e le persone anche senza avere il talento del pittore o del disegnatore.
Tuttavia per chi ne fa una professione, senza scomodare l’arte figurativa, è possibile esprimere un buon artigianato, perché al di là dei mezzi tecnici, dietro l’obiettivo c’è l’occhio di un esperto che sa cogliere gli attimi giusti, i sentimenti e le situazioni. Anzi Moreschi ritiene che non a caso il novecento è stato il secolo della innovazione artistica e della pittura astratta perché ormai la realtà era appannaggio della fotografia e l’artista poteva liberamente dedicarsi a rappresentare sulla tela puramente le emozioni.
 

Chiara Salvini, ... scuserete l'amore del paesello, anche voi l'avrete, è un signore che conosco bene, anzi, lo conoscono tutti a Sanremo, "è il fotografo"..., neldeliriononeromaisola, 27 novembre 2014