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lunedì 27 novembre 2023

Natta guardava ancora al Pci in termini di alterità rispetto agli equilibri politici


Dopo la caduta del Muro di Berlino e lo smantellamento della Cortina di ferro si aprì, all’interno del Pci, una riflessione sull’identità del partito che non poteva non riguardare temi del passato come l’eredità politica di Togliatti e i crimini commessi dal totalitarismo stalinista <51. I segnali lanciati da Occhetto, specialmente nei confronti dei “cugini” socialisti, furono contraddittori, soprattutto in occasione del bicentenario della Rivoluzione francese <52, durante il quale emerse la possibilità di una ridefinizione del pantheon ideologico comunista. Ciò avvenne accantonando il divisivo “primato di Lenin” e, al contempo, riportando in auge gli ideali rivoluzionari di Libertà, Uguaglianza e Fratellanza e le figure storiche dei loro propugnatori Saint-Just e Robespierre <53. Ciò, tuttavia, non bastò a ricomporre le lacerazioni ideologiche con i socialisti in tempi brevi <54.
Il segretario Achille Occhetto aveva visto, sin dal XVIII Congresso del Pcus e nel cambio di passo delle politiche sovietiche, l’occasione per riformare il comunismo, tentando l’avvicinamento alla socialdemocrazia, di cui a lungo si era dibattuto in casa comunista. Non tutti all’interno del partito, tuttavia, si trovavano allineati con tale visione; il precedente segretario, Natta, per esempio, non si era rivelato per nulla entusiasta della nuova linea, tanto da commentare laconicamente l’evoluzione dello scenario politico internazionale con la celebre frase: «Qui crolla un mondo, cambia la storia… Ha vinto Hitler… si realizza il suo disegno dopo mezzo secolo». Craxi, dal canto suo, si poneva in una posizione mediana nel Psi, spartiacque tra chi come Gianni De Michelis credeva che i comunisti fossero ancora troppo pericolosi e chi come Claudio Martelli vedeva in loro validi alleati per un agognato «ritorno alle origini». Il segretario socialista, infatti, riconosceva nel Pci una volontà di cambiamento, cui, tuttavia, si opponevano ancora troppe resistenze <55. A luglio del 1990, però, Occhetto raffreddò considerevolmente i rapporti con i socialisti, definendo il pentapartito come la «realizzazione del progetto eversivo per il sistema-Italia» portato avanti da Licio Gelli, venerabile maestro della loggia massonica P2. Il gelo tra i due partiti durò per mesi, mentre gli sconvolgimenti ad Est rubavano la scena agli avvenimenti del quadro politico italiano <56.
Ciononostante, Occhetto, perseverando nelle sue convinzioni riformatrici, di ritorno da un vertice del gruppo politico Com a Bruxelles, domenica 12 novembre partecipò a sorpresa alle celebrazioni per il 45esimo anniversario della battaglia partigiana della Bolognina e, davanti a militanti, ex partigiani e giornalisti, rilasciò una dichiarazione che avrebbe mutato per sempre la storia del più grande Partito comunista d’Occidente: il Pci avrebbe potuto cambiare nome e rinnovarsi negli obiettivi e nell’azione politica <57.
Di un cambio del nome si discuteva da tempo all’interno del partito. La corrente migliorista, guidata da Giorgio Napolitano, sosteneva in tal senso la necessità di una rottura rispetto alla tradizione, in un’ottica europea piuttosto che sovietica; la sinistra del Pci, invece, opponeva resistenza al cambiamento, avvertito come segno di un irreversibile mutamento identitario.
L’estenuante discussione testimoniava lo stato di confusione e fibrillazione dei comunisti in quel periodo. Proprio per la conflittualità tra le suddette visioni, del tutto antitetiche, all’inizio del 1990 molti vecchi dirigenti comunisti pensarono che la svolta della Bolognina necessitasse maggiore collegialità e ponderazione. La nuova generazione di dirigenti, tra i quali Massimo D’Alema, Walter Veltroni, Livia Turco, Claudio Petruccioli, Piero Fassino, sosteneva, invece, già da tempo, che il partito dovesse trasformarsi in qualcosa di diverso rispetto al passato e che non fosse più sufficiente essere soltanto la forza di opposizione al sistema, oggetto di una conventio ad excludendum che non aveva più ragione di esistere <58.
Il partito, in conseguenza dei fatti internazionali e dell’horror vacui dovuto alla dissoluzione della Cortina di ferro, fu costretto ad affrontare quei nodi di dipendenza - politica, ideale ed economica - dall’Unione Sovietica che Berlinguer negli anni Settanta non aveva voluto sciogliere. Il gruppo dirigente e i militanti erano ora costretti a riconsiderare il peso del rapporto con Mosca, determinante nell’intera storia del partito, nonostante la rivendicazione di una “via italiana al socialismo” <59. Questa formula aveva costituito una sorta di “rifugio ideologico”, che aveva allontanato il Pci dall’autoritarismo sovietico, e nello stesso tempo lo aveva isolato dalle altre socialdemocrazie europee e dalle giovani generazioni, condizionate da esigenze generate dal cambiamento della società del tempo <60. Aveva altresì generato un’incomprensione profonda e l’impossibilità di dialogare con il Psi, stante la strenua difesa delle posizioni di principio <61. In questo contesto emerse l’ambivalente posizione di Craxi nei confronti del processo in atto nel Pci. Dopo la Bolognina, infatti, il segretario socialista lasciò a Botteghe Oscure il tempo per riflettere <62, esitante se radunare i voti in uscita dai comunisti in crisi o accogliere l’eventualmente rinominata formazione politica sotto la sua influenza <63.
Il Pci manifestava difficoltà anche nella comprensione dei caratteri della nuova società che, con il diminuire degli operai occupati nell’industria pesante e l’aumento di impiegati nel settore terziario, cominciava a mostrare i primi segni di un assetto post-industriale <64. Il Psi, con la sua condotta innovativa e riformista, manifestò invece una più acuta sensibilità nei confronti di questi cambiamenti e delle inquietudini che generarono. Per questa ragione, il Psi vide crescere i propri voti, specialmente nelle grandi città, ma ciò non fu sufficiente a raggiungere l’obiettivo del “sorpasso a sinistra” ai danni di un Pci in piena crisi ideologica <65.
Questa situazione rafforzò Occhetto nel convincimento che il vecchio partito non avesse futuro e che spettasse a lui guidarne il percorso di trasformazione verso nome, simbolo e identità diversi, capaci di marcare una netta rottura con il passato.
La dirigenza del partito, infatti, aveva mantenuto tutte le caratteristiche strutturali che ne avevano garantito il radicamento nella società: la natura “laica” dell’organizzazione, in antitesi con la Chiesa Cattolica, i legami di appartenenza tra militanti e la struttura centralizzata di comando. Con l’incalzare del processo di modernizzazione del Paese, però, era giunto il momento di smantellare tale impostazione estremamente rigida; si avvertì la necessità di rendere meno rigorosa la disciplina interna, di attenuare la funzione “ieratica” di cui erano rivestiti i dirigenti e di assecondare la crescita dell’elettorato di opinione, garantendo maggiore libertà di critica.
In tal senso, negli ultimi anni di vita del Pci, entrarono a far parte del dibattito politico comunista anche molteplici e divergenti orientamenti interni al partito, pur formalmente vietati dallo statuto dello stesso, in nome del centralismo democratico. Questi si polarizzarono, da un lato, intorno al principio del “compromesso sull’identità di programma” di Natta e, dall’altro, sulle “ritirate strategiche” di Occhetto. Natta guardava ancora al Pci in termini di alterità rispetto agli equilibri politici e coniugava slancio propositivo a mantenimento delle posizioni; Occhetto propendeva sempre più per un cambio di riferimenti culturali ed un avvicinamento rapido alla sfera del nuovo “socialismo dal volto umano” post-Guerra fredda <66, che metteva definitivamente alle spalle lo stalinismo e il dispotismo asiatico. Il dibattito fra le due opzioni divideva sia il gruppo dirigente che la massa di militanti ed era reso ostico dall’assenza di una leadership forte.
Nonostante tale processo di revisione dirigistico, con tutte le sue contraddizioni, fu sempre ampia la fascia di militanza che continuò a porre fortissime resistenze alla messa in discussione dell’identità partitica, in nome della memoria culturale comunista, “patria” politica per un terzo degli elettori italiani.
I dirigenti, gli intellettuali, e soprattutto i militanti, che pure vivevano con passione ed euforia le settimane successive alla caduta del muro di Berlino, erano mossi da un’ondata di “patriottismo di partito” che contrastava con la “crisi identitaria”; sarebbero stati propensi a mettere in discussione il simbolo o il patrimonio simbolico, ma in nessun caso sarebbero stati disposti a riconsiderare criticamente la propria storia o il deposito di memorie e tradizioni <67, in difesa delle quali si era alzata una fermissima levata di scudi.
[NOTE]
51 F. Merlo, Uno storico: Occhetto non sa quando è nata la democrazia e Craxi ha preteso di piegare Machiavelli ai propri fini, in «Corriere della Sera», 26 gennaio 1989.
52 E. Scalfari, E Occhetto ha intonato la marsigliese, in «la Repubblica», 22 gennaio 1989.
53 S. Colarizi, M. Gervasoni, La cruna dell’ago. Craxi, il partito socialista e la crisi della Repubblica, cit., p. 231.
54 V. Coletti, L’arduo sogno dell'unità a sinistra, in «il Corriere della Sera», 11 febbraio 1989.
55 P. Franchi, Intervista a Bettino Craxi, in «il Corriere della Sera», 15 giugno 1989. 56 L. Cafagna, La grande slavina, l'Italia verso la crisi della democrazia, Marsilio, Venezia, 1993, p.16.
57 L. Fabiani, Forza giovane Pci: ti aiuteremo noi a cambiar nome, in «la Repubblica», 30 settembre 1989.
58 A. Possieri, Il Peso della storia. Memoria, identità, rimozione dal Pci al Pds (1970-1991), il Mulino, Bologna, 2007, pp. 273-279
59 Ibidem.
60 S. Colarizi, M. Gervasoni, La cruna dell’ago. Craxi, il partito socialista e la crisi della Repubblica, cit., p. 213.
61 Ivi, p. 214.
62 B. Craxi, Lasciar riflettere il Pci, in «Avanti!», 17 novembre 1989.
63 S. Colarizi, M. Gervasoni, La cruna dell’ago. Craxi, il partito socialista e la crisi della Repubblica, cit., p. 233.
64 Ivi, p. 208.
65 Ivi, p. 206.
66 Tempo di Inquietudini. La segreteria di Natta raccontata dall’Unità (1984-1989), in «Diacronie, studi di storia contemporanea», 2014. https://journals.openedition.org
67 Lettera a «l’Unità» del 25 gennaio 1990, in A. Possieri, Il Peso della storia. Memoria, identità, rimozione dal Pci al Pds (1970-1991), cit., pp. 280-281.
Leonardo De Marco, “Il duello a sinistra: Pci e Psi tra pentapartito e Tangentopoli” (1987-1992), Tesi di laurea, Università Luiss "Guido Carli", Anno Accademico 2018-2019

[...] Gorbaciov costituì più un ostacolo che uno stimolo per l’evoluzione e la trasformazione della cultura politica del Pci verso la socialdemocrazia europea. Questa interpretazione era peraltro largamente condivisa dai moderati capeggiati da Giorgio Napolitano, il quale cercò inutilmente di indicare una strada diversa tra l’integrazione piena nella sinistra europea e il socialismo riformatore di Gorbaciov suscitando non poche reazioni negative all’interno del Partito. <13
Nel maggio del 1988, mosso dalle critiche che si erano levate all’interno del gruppo dirigente e da ragioni di salute, Alessandro Natta scelse di rassegnare le dimissioni dalla segreteria del Partito. Aldo Agosti ha osservato che sotto la direzione del nuovo segretario Achille Occhetto, simbolo del suddetto ricambio generazionale, cercò di imprimere una svolta più netta all’evoluzione del partito. Il Pci proclamò la volontà di recuperare un rapporto con la tradizione socialista identificando come unica strada percorribile «quella di un’alternativa di sinistra al sistema di potere della Dc». <14 Malgrado la profonda rottura della segreteria di Occhetto rispetto a quella di Natta, l’esplicita collocazione del Pci nella sinistra europea, la presunta “laicizzazione” del partito e la sua emancipazione da ogni residuo di ideologia leninista, il “nuovo corso” fu caratterizzato da numerosi elementi di confusione e di improvvisazione, quella che Pons ha definito tutto ciò come «una continuità più selettiva, ma non meno forte, con la cultura politica berlingueriana». <15
A proposito del Pci all’indomani della svolta della Bolognina Pons scrive: "L’apice del disorientamento viene raggiunto all’indomani della strage di Tienanmen nel giugno 1989, quando Occhetto dichiara che il suo partito non ha nulla a che fare con il comunismo internazionale, ma respinge ogni richiesta di cambiamento del nome. Sotto questo profilo, il Pci costituisce la parte più debole, contraddittoria ed esposta di un intero sistema politico dominato dal riflesso bipolare e impreparato a fronteggiare il repentino disfacimento dell’ordine della Guerra fredda dalla fine del 1989 in avanti". <16
L’affermazione spesso rivendicata dai comunisti italiani della propria specificità e “diversità” fece in modo che il Pci lasciasse un’impronta di rinnovamento di fronte alla crisi finale del comunismo mondiale. Si trattò tuttavia di un percorso di “riconversione” irto e difficile e che, pretendendosi risolto nella sua vicenda nazionale, finì per offrire agli avversari un’ulteriore sponda al discorso anticomunista.
[NOTE]
13 Pons S., La bipolarità italiana e la fine della guerra fredda, in L’Italia contemporanea dagli anni Ottanta ad oggi, Volume I, Fine della Guerra fredda e globalizzazione, a cura di Pons S., Roccucci A. e Romero F., Roma, Carocci, 2014, pp. 45-46.
14 Agosti A., Storia del Partito comunista italiano 1921-1991, Bari, Laterza, 2000, pp. 151-152.
15 Pons S., La bipolarità italiana e la fine della guerra fredda, in L’Italia contemporanea dagli anni Ottanta ad oggi, Volume I, Fine della Guerra fredda e globalizzazione, a cura di Pons S., Roccucci A. e Romero F., Roma, Carocci, 2014, p. 46.
16 Ibidem.
Maria Chiacchieri, Il Pci da Berlinguer a Occhetto. L’onda lunga della cultura pacifista e la prima Guerra del Golfo (1984-1991), Tesi di dottorato, Università degli Studi Roma Tre, Anno Accademico 2019-2020

domenica 19 novembre 2023

La nascita dei GAP


Il 20 settembre 1943 a Milano in casa dei coniugi Morini nacque il Comando generale delle Brigate Garibaldi, alla presenza di Massola, Roasio, Novella, Negarville, Scotti, appena rientrato dalla Francia, e Secchia, giunto da Roma. Nei giorni successivi sarebbe arrivato anche Longo, mandando Negarville a Roma e assumendo la responsabilità militare delle Brigate del Pci, mentre Secchia era incaricato della guida politica. Nonostante la mancanza di un'effettiva struttura di partito in Italia, si scelse di rompere l'attesismo e lanciare nell'immediato l'attacco all'occupante e al suo collaboratore. Pur con supporti logistici da socialisti e azionisti, in Italia come in Francia, i comunisti risultano gli unici fautori del terrorismo urbano, mentre gli altri partiti antifascisti "non sono convinti della sua produttività, in termini di consenso da parte dei cittadini, e della praticabilità, in termini morali, del terrorismo urbano" <16. Per il PCI invece, l'esperienza di vita clandestina e di lotta in Francia fu di centrale importanza nella decisione di ricorrere a tale pratica, di cui conosceva già le modalità e i fini, ma anche i rischi e le difficoltà. La scelta di ricorrere alla guerriglia in città fu adottata consapevolmente, in accordo con il comportamento dei comunisti a livello europeo e con la convinzione di costituire l'avanguardia del movimento operaio nella liberazione. Una filiazione delle azioni dei GAP da quelle dei FTP, un filo diretto com'è dipinto da Amendola nel suo panegirico di Ilio Barontini, può forse essere valido sul piano strettamente personale, apparirebbe invece sul piano storiografico un salto deduttivo, in relazione alle scarse informazioni ufficiali sull'operato degli italiani a Marsiglia.
Per Amendola "l'azione all'albergo Terminus divenne l'azione compiuta dai Gap romani contro l'albergo Flora, con la stessa tecnica e l'ordigno gettato davanti alla coda della casa di tolleranza di Marsiglia, divenne l'ordigno gettato da Bentivegna davanti al cinema Barberini a Roma" <17.
Questi eventi potevano forse essere legati nella memoria del protagonista, che si servì del precedente di alcune azioni realizzate in Francia da comunisti italiani per la guerriglia in patria, ma, in assenza di testimonianze e riscontri documentari, tali parallelismi non possono valere sul piano storiografico. Si può tuttavia riconoscere che le strutture di un organismo già noto servirono da modello alla preparazione delle squadre deputate al terrorismo nelle città italiane. Santo Peli riconosce l'imprescindibilità dell'esperienza francese all'inizio della sua storia dei GAP, asserendo che "senza questi dirigenti, senza l'esperienza della concreta organizzazione della lotta armata nelle città di Lione, a Marsiglia, progettare la formazione dei Gap sarebbe stato impensabile" <18.
I comunisti passati per la Francia costituirono lo scheletro dei Gap ma dovettero scontrarsi in Italia con i nodi già presentatisi ai comunisti francesi, il timore delle rappresaglie, l'impreparazione della classe operaia italiana a questo tipo di lotta, la scarsità cronica dei reclutati. Com'era successo oltralpe infatti, la previsione di versare alla lotta armata in città il 10% dei propri effettivi fu impossibile da realizzare per tutta la durata dell'occupazione. La direzione comunista decise comunque che bisognava agire e i più versati nella lotta armata furono impiegati nell'attuazione della direttiva, colpire e sabotare il nemico in città sin dalle prime settimane. Anche i problemi logistici sorti in Francia, la necessità di documenti falsi, armi, vettovagliamenti e appartamenti, si ripresentarono in Italia, aggravati però dalla mancanza di una struttura clandestina preesistente alla lotta, come quella del PCF. I finanziamenti per i Gap vennero dai contributi richiesti ai tesserati al partito, ma anche dalle cosiddette azioni di recupero, ovvero rapine in banca o assalti alle caserme fasciste, esponendo i patrioti alla mescolanza con criminali comuni e con individui di dubbia moralità.
Ad ogni modo, il 25 ottobre Longo, telegrafando a Mosca sulle novità dell'estate e l'armistizio, poteva riferire sinteticamente "Sta nascendo la guerriglia" <19. Infatti le risorse umane più attive del partito erano mobilitate: sotto la guida di Longo e Secchia, Scotti era ispettore generale incaricato dell'organizzazione della lotta in Piemonte, Lombardia e Liguria, mentre a Roasio spettavano il Veneto, l'Emilia e la Toscana. Ritroveremo molti dei militanti addestrati in Spagna e Francia incaricati della costituzione delle singole brigate, mentre Ilio Barontini, prima di assumere la responsabilità militare in Emilia, viaggiò nelle principali città italiane per dare consigli ai comandanti di formazione e insegnare come fabbricare gli ordigni. Come in Francia quindi, non si attese di avere i mezzi e gli uomini necessari alla lotta, ma furono ampiamente dispiegate le risorse disponibili, nella convinzione che bisognasse agire subito, poiché spettava al partito il compito di innescare la miccia per l'azione delle masse.
Il 24 ottobre Ateo Garemi e l'anarchico Dario Cagno colpirono a morte Domenico Giardina, seniore della Milizia a Torino, e, catturati in seguito all'azione, lasciarono spazio al I Gap del Piemonte, guidato da Giovanni Pesce. Le prime azioni di Garemi e Cagno, che, pur avendo avuto contatti con il partito, non ne dipendevano, rientravano nell'ambito di azioni di disturbo da parte di un gruppo anarco-comunista, i cui obiettivi risultavano abbastanza casuali, come per altre cellule autonome, ad esempio Stella Rossa. Appunto per portare sotto la propria autorità la lotta urbana, il PCd'I convocò a Torino Remo Scappini in qualità di responsabile federale, Arturo Colombi, responsabile regionale, e Romano Bessone, commissario politico dei Gap per la città <20. Tutti e tre militanti di vecchia data, i primi due passati per Mosca, per l'emigrazione in Francia e la detenzione a Civitavecchia, Colombi anche per il confino a Ventotene. Bessone invece era nato nel vercellese nel 1903, operaio comunista dalla gioventù, era stato deferito al Tribunale Speciale nel 1927 per aver partecipato ad una riunione comunista nei pressi di Torino. Resosi latitante, fu arrestato il 25 ottobre 1930 e condannato a 16 anni di reclusione e 3 di libertà vigilata, ridotti poi a 7 per amnistia, fu scarcerato nell'ottobre 1935. Al momento dell'arresto dichiarò di essere tornato da Mosca e fu trovato in possesso di volantini comunisti. Durante la reclusione, a partire dal '32, gli fu impedito di tenere corrispondenza con Elodia Malservigi, dattilografa residente in Russia che dichiarò di aver sposato con rito sovietico a Nowieltz nel 1928. La sua scheda personale riporta che in carcere "tenne cattiva condotta politica, appalesandosi pericolosissimo comunista. Pertanto è stato incluso nel 2° elenco di sovversivi pericolosi da arrestare in determinate contingenze" <21. Infatti, dopo l'ingresso in guerra, il 20 luglio 1940, era stato inviato al confino a Ventotene, dove aveva ripreso contatto con i dirigenti confinati e da cui sarebbe stato liberato nell'agosto '43, poche settimane pima di ricevere la responsabilità della formazione dei Gap torinesi. La direzione fu invece affidata al venticinquenne Giovanni Pesce, che abbiamo incontrato tra i giovani accorsi in Spagna sette anni prima. Al rientro in Francia era tornato dalla famiglia nella regione della Gran Combe ma, vista la difficoltà di trovare lavoro e il timore di essere internato per la propria condizione di straniero comunista, entrò clandestinamente in Italia e fu arrestato a Torino il 23 marzo 1940. Trasferito a Ventotene sei mesi dopo, vi trovò compagni vecchi e nuovi: "Terracini, Scoccimarro, Secchia, Roveda, Frasin, Camilla Ravera, Spinelli, Ernesto Rossi, Li Causi, Pertini, Bauer, Curiel, Ghini" <22. In assenza di militanti provati da versare alla nascente formazione, Bessone e Pesce si volsero agli appartenenti a queste cellule di fabbrica spontanee, comuniste ma non legate alla linea di partito, reclutando giovani provenienti soprattutto dall'ambiente operaio.
In Lombardia invece, il comando regionale era assegnato alla metà di ottobre a Vittorio Bardini, responsabile politico, a Cesare Roda, responsabile tecnico, e ad Egisto Rubini, addetto alle operazioni. Il profilo di questi uomini è quello spesso incontrato nel nostro percorso: tutti sopra i 35 anni, divenuti nell'esilio rivoluzionari professionali, passati per la Spagna, e Rubini anche per i FTP del Sud della Francia. In questi parametri generali rientravano tutti i comandi regionali e i principali istruttori dei distaccamenti, che si esposero in un primo momento per dare l'esempio ai nuovi, sotto i trent'anni, che sarebbero stati i fautori del terrorismo urbano. Il primo obiettivo di grande rilievo fu Aldo Resega, responsabile della federazione del fascio a Milano, colpito dal primo nucleo operativo dei GAP milanesi, che sarebbe diventato il distaccamento Gramsci (Validio Mantovani Barbisìn, Carlo Camesasca Barbisùn, Antonio La Fratta Totò e Renato Sgorbaro Lupo). Come rileva Borgomaneri, autore del lavoro più completo sul terrorismo urbano a Milano, "il primo gappismo milanese nasce dalla fabbrica e affonda le proprie radici in quell'oscuro lavoro di agitazione, di propaganda e di proselitismo che l'organizzazione comunista è riuscita a tessere nel ventennio,[inoltre…] la prima forza combattente dei Gap è costituita da operai non più giovanissimi" <23. Essi erano infatti tutti operai dell'area di Sesto San Giovanni, il più giovane, Mantovani, aveva 29 anni, il più anziano, La Fratta, 35. I ragazzi, inesperti poco più che ventenni, sarebbero subentrati tra il gennaio e la primavera. Il 18 dicembre 1943, in concomitanza con uno sciopero che bloccava da giorni i principali stabilimenti milanesi, il federale venne atteso all'uscita della propria abitazione. La Fratta e Mantovani erano di guardia, uno accanto al portone e l'altro all'angolo della via, Camesasca e Sgorbaro nei pressi di un edicola leggevano un giornale, dietro il quale erano nascoste le armi. Resega venne colpito nel momento in cui il proprio cammino incrociava quello dei terroristi, che si affrettavano poi a raggiungere le biciclette e fuggire nel trambusto creato dagli spari. Le prime azioni, spesso improvvisate, rappresentavano per questi militanti, provati ma non temprati nella lotta, una prova del fuoco, lo scoglio da superare per altre azioni. Borgomaneri individua alla fine del '43 due distaccamenti, il Gramsci di Mantovani e il Cinque giornate di Oreste Ghirotti, composti ciascuno da tre squadre. Con le azioni iniziarono però anche le prime cadute. Il 19 dicembre Arturo Capettini, addetto alla logistica e ai rifornimenti di armi, fu arrestato. In seguito al rinvenimento di materiale bellico ed esplosivo nel suo magazzino di riparazione per biciclette, esso divenne una trappola per alcuni ragazzi del Cinque giornate, come Stefano Brau e Augusto Mori. L'individuazione di Sgorbaro portò inoltre all'isolamento del gruppo di Sesto, lasciando spazio alle azioni dei distaccamenti Matteotti e Rosselli, autori in gennaio di attacchi nei ritrovi tedeschi e mordi e fuggi in bicicletta. All'inizio di febbraio, per l'omicidio del nuovo questore di Milano, Camillo Santamaria Nicolini, fu richiamato il distaccamento Gramsci, del quale Camasasca e Mantovani erano stati promossi responsabile militare e politico. In questa fase più avanzata della guerriglia in città però, le autorità non si muovevano a piedi senza protezione: il piano prevedeva perciò di colpire Nicolini in auto da un'altra auto in corsa, una lancia Aprilia appositamente rubata a due tedeschi. L'azione, affidata ai giovani di Niguarda (Elio Sammarchi, Dino Giani e Sergio Bassi) ricorda ancora una volta come la riuscita di un colpo fosse questione di attimi, in cui non mancava l'intervento del caso. Un tram si interpose tra le due vetture e una frenata dell'autista di Nicolini impedì che venisse colpito. L'ultima azione di questa prima fase del gappismo milanese fu un attacco alla casa del fascio di Sesto San Giovanni il 10 febbraio 1944, compiuto con l'aiuto di un operaio della Breda infiltrato, Lacerra. Egli però, invece di lasciare la città (come previsto) si recò sul proprio posto di lavoro, dove fu arrestato due giorni dopo, portando ad una catena di arresti e delazioni che sbaragliò i gruppi di città, giungendo sino al vertice con la cattura di Bardini, Roda e Rubini. Quest'ultimo e Ghirotti si suicidarono in carcere dopo giorni di tortura. Il terrorismo urbano a Milano si sarebbe riacceso in estate, grazie alla riorganizzazione di Giovanni Pesce, che nell'inverno '43 era però ancora a Torino.
[NOTE]
16 Santo Peli, Storie di Gap, op.cit., pag. 31.
17 Amendola, Comunismo, Antifascismo, Resistenza, op.cit., pag. 364.
18 Santo Peli, Storie di Gap, op.cit., pag. 33.
19 Longo, op.cit., pag. 100-101.
20 Nicola Adduci, Il mito e la storia: Dante Di Nanni, in Studi Storici, fascicolo 4, settembre-ottobre 2012, pag. 260-262.
21 Acs, Cpc, fascicolo personale, busta 591
22 Giovanni Pesce, Senza Tregua. La guerra dei GAP, Feltrinelli, Milano 1967, pag. 161.
23 Luigi Borgomaneri, Due inverni, un'estate e la rossa primavera. Le Brigate Garibaldi a Milano e provincia. 1943-1945, Franco Angeli, Milano, 1995, pag. 24.
Elisa Pareo, "Oggi in Francia, domani in Italia!" Il terrorismo urbano e il PCd'I dall'esilio alla Resistenza, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Pisa, 2019

sabato 11 novembre 2023

Per i bombardamenti di Marghera la parrocchia fu invasa da sfollati che occuparono ogni locale libero

Salzano (VE): Chiesa di San Bartolomeo apostolo. Fonte: Wikipedia

Meno pericolosi, ma impegnativi in egual misura, i sacrifici, sia materiali che psicologici credo, sopportati dalle famiglie, per poter accogliere gli sfollati, provenienti a centinaia dalle zone bombardate di Marghera e Mestre; vere e proprie «acrobazie di adattamento» <384, così come definite da Gino Pizzato, necessarie al fine di alleggerire l’inevitabile disagio derivante dalla coabitazione fra estranei sotto lo stesso tetto. I numeri risultano impressionanti, se sommati insieme, e bastano da soli a spiegare le esortazione dei parroci a collaborare, nel momento in cui, inevitabilmente, i locali della parrocchia, compresi la canonica, l’asilo ed eventuali istituti religiosi, fossero al completo.
Don Boschin, ad esempio, si prodigò per gli sfollati che, stando a quanto riportato da don Volpato, affluirono a centinaia nei territori della parrocchia di Gardigiano, facendo «pressione presso parecchie famiglie per l’accoglimento di tutti» <385; dopo averne accolto egli stesso dodici, nella canonica, «ove rimasero per più di 1 anno», mentre altri dieci furono ospitati nella casa del cappellano, dove «rimasero fin dopo la fine della guerra» <386. «[…] per i bombardamenti di Marghera la parrocchia [di S. Maria di Sala] fu invasa da sfollati che occuparono ogni locale libero» <387, mentre «La parrocchia [di Robegano] ha dato alloggio a circa 400 sfollati e tre famiglie furono alloggiate nelle aule della Casa della Dottrina Cristiana» <388; altri 300 a Briana di Noale, provenienti, per la maggior parte, da Marghera e Mestre, ma anche da Treviso, Padova e Zara. Don Zandonadi scrisse anche come le Suore Missionarie d’Egitto, anch’esse sfollate di Marghera, accolte nella Casa della Dottrina Cristiana, avessero aperto un asilo infantile, mentre vi trovò temporanea sede anche la Scuola Interparrocchiale per i seminaristi delle classi seconda e terza ginnasiale, gestita dal prof. don Mario Carraro, che ricevette personale ospitalità in canonica.
Manca qualsiasi riferimento ad eventuali soccorsi prestati dall’autorità civile, forse perché realmente non vi furono, forse per l’elogio che un simile operato, privo di eguali, avrebbe ricevuto; sta di fatto, comunque, che ciò contribuì non poco al delinearsi di un nuovo e più forte ruolo sociale della parrocchia. Ci fu un’eccezione, nella parrocchia di Mirano, dove, ad affiancare don Muriago, nel tentativo di garantire agli sfollati e alle famiglie povere dei richiamati l’aiuto necessario al sostentamento, c’era l’Ente Comunale di Assistenza, «al quale l’Arciprete prestò la sua opera assidua encomiata dalla superiore Autorità locale» <389, oltre alle istituzioni di S. Vincenzo De’ Paoli e S. Antonio.
L’impegno dei sacerdoti non poteva comunque fermarsi alla mera assegnazione di un alloggio, bensì doveva comprendere necessariamente anche il reperimento dei generi di prima necessità, quali cibo e vestiario innanzitutto, senza contare l’aiuto per la ricerca di un eventuale impiego lavorativo: il parroco di Gardigiano indisse «giornate di carità [sottolineato nel testo]» per la raccolta di generi alimentari «a prezzo modico o di calmiere» <390, mentre a Salzano mons. Eugenio Bacchion mise a disposizione dei circa tremila sfollati che giunsero in quel comune, «tutto il grano raccolto colle questue per la Chiesa sempre al prezzo dell’ammasso e così il grano di loro proprietà» <391.
E come dimenticare infine, il compito principale e più importante del sacerdote, quello caratterizzante il suo ruolo ecclesiastico, quello, cioè, concernente la cura spirituale dei propri fedeli? Nelle suddette circostanze, i preti, si trovavano di fronte ad una comunità, talvolta più che raddoppiata, alla quale era d’obbligo garantire, alla stregua dei parrocchiani residenti, la confessione, la somministrazione dei sacramenti, le visite di routine. Molto probabilmente i parroci si avvalevano del supporto di cappellani (sporadicamente menzionati nelle cronistorie) nell’esercizio delle mansioni spirituali, forse le cifre pervenuteci sono state volutamente esagerate, sta di fatto, comunque, che simili parentesi, che ci riportano ad un vissuto più quotidiano, dunque concreto, legato alle necessità della vita reale, simili parentesi, dicevo, hanno il pregio, non solo di ricostruire, anche se parzialmente ed in modo frammentario, le vicissitudini di un paese, ma soprattutto di restituire l’immagine di un clero curato quasi risvegliatosi dal torpore di una vita tranquilla, qual era quella di molte parrocchie del Miranese prima dello scoppio della guerra, e fors’anche del 1943; un clero travolto dagli eventi, al pari di qualsiasi italiano comune, ma che, anche in forza del proprio ruolo, riuscì a trovare il coraggio e il dinamismo necessario (chi più chi meno), per ergersi a guida delle rispettive comunità e condurle così alla fine di quel tragico “tunnel” che fu la storia dell’Italia settentrionale tra la fine del 1943 e la primavera del ’45. Piccole sfide nella quotidianità, affrontate di volta in volta all’insegna della collaborazione o dell’ostilità, della trattativa o della cauta attesa, ma che spesso, proprio a causa del contesto così familiare, molti sacerdoti hanno trascurato di riportare, consegnandone, così facendo, il ricordo all’oblio. Certamente molto è andato perduto, ma attenzione a non trasformare questa indubbia certezza in una cantilena, da ripetere fra sé e sé ogniqualvolta, da documenti di questo tipo, nulla emerge di straordinariamente evocativo dell’epopea resistenziale; noi contemporanei, condizionati come siamo dalle insistenza di certa storiografia su storie di preti eroici, espostisi in prima persona per la salvezza dei parrocchiani dinanzi al pericolo di rappresaglie, informatori delle bande partigiane, se non addirittura torturati e uccisi, siamo propensi a dare marginale importanza a testi che magari si limitano a riportare lunghe liste di bombardamenti sul paese o di nomi di soldati periti al fronte, o peggio, dispersi. Ciò che ritengo doveroso precisare è come la sola presenza del sacerdote, responsabile, lo ricordiamo, di un organismo che andava rivestendo un significativo ruolo di supplenza, era di per sé estremamente importante e decisiva per gli abitanti, forse addirittura per l’equilibrio morale e, aggiungerei, psicologico, degli stessi: trattavasi spesso della sola figura autorevole rimasta, nel momento in cui qualsiasi altra, nell’ambito civile, aveva abbandonato le proprie responsabilità, e la sola autorità degna di rispetto quando il forestiero occupò i posti di comando, nazista o repubblicano che fosse. Forse è in questo senso che vanno lette le affermazioni di don Zandonadi, relativa ai brianesi, una «popolazione cristiana, docile alle direttive del Parroco» <392, aiutati a non perdere «la [sua] calma e fiducia in Dio nemmeno nei momenti cruciali della ritirata tedesca» <393.
Così come l’operato dei parroci fu l’elemento decisivo per la tenuta, sia fisica che morale, della comunità, allo stesso modo tale merito può essere evidenziato nel prodigarsi di quella per i bisognosi, sfollati o soldati renitenti. Dinanzi ai primi bombardamenti aerei, ai segnali, cioè, dell’approssimarsi degli orrori della guerra, con l’emergente consapevolezza di essere coinvolti in prima persona nei fatti che avrebbero deciso del destino del popolo italiano, possiamo solo immaginare quanto significativo sia stato questo soccorso, non solo al fine della sopravvivenza di quelli, ma probabilmente anche nell’operare la scelta di darsi alla macchia; i combattenti erano sostenuti nella loro scelta ed incoraggiati da quel ampio retroterra di solidarietà ed affetti che era il tessuto della comunità parrocchiale, garantendo un senso di continuità esistenziale che andava oltre i referenti familiari.
[NOTE]
384 G. Pizzato, Sotto il terrore (I fatti di Peseggia). Alle vittime innocenti dell’odio fraterno, op. cit., p. 2.
385 Don R. Volpato, Cronistoria, op. cit., pp. I-II.
386 Ibidem.
387 Don G. de Pieri, S. Maria di Sala, op. cit.
388 Don A. Semenzato, Cronistoria della parrocchia di Robegano. 1939-1945, op. cit.
389 Mons. F. Muriago, Parrocchia di Mirano. Relazione degli avvenimenti durante il periodo della guerra 1940-1945, op. cit.
390 Don R. Volpato, Cronistoria, op. cit., p. II.
391 Mons. E. Bacchion, Salzano durante l’ultima guerra, op. cit.
392 Don P. Zandonadi, Allegato alla Cronistoria di Briana durante la seconda guerra mondiale, op. cit., p. 1.
393 Idem, Allegato alla Cronistoria di Briana durante la seconda guerra mondiale, p. 2.
Daiana Menti, Il clero del Miranese dall’inizio del Novecento alla seconda guerra mondiale nelle sue relazioni con le pubbliche autorità, Tesi di laurea, Università Ca' Foscari - Venezia, Anno Accademico 2012-2013

domenica 5 novembre 2023

Praticamente, la Linea Gotica correva lungo il confine tra le province di Lucca e di Massa Carrara


Il compito assegnato agli uomini comandati da Vinci Nicodemi “Uberti”, era quello di controllare la strada Castelnuovo Garfagnana-Arni con particolare riguardo alle zone di Isola Santa e del Col di Favilla, occupate da truppe nemiche. <331 Ulteriori richieste di Pietro [Pietro Del Giudice, comandante del Gruppo Patrioti Apuani] in cambio dell'adesione alla divisione, si rintracciano in un altro appunto manoscritto datato 23 ottobre 1944 e nella successiva risposta del comando divisionale. L'appunto su carta intestata del comando GPA (Gruppo Patrioti Apuani) reca come luogo lo stesso comando di divisione e riporta: “Richieste da fare al maggiore: 1 - che nel nostro schieramento ci sia soluzione di continuità. 2 - che i nostri patrioti ubbidiscano esclusivamente a comandanti del gruppo sotto l'alta direttiva del maggiore comandante la divisione. 3 - due mitragliatori Breda 30 e 10 sten con munizionamento per rinforzare il nostro schieramento senza contare naturalmente quelli che saranno dati in dotazione alle nostre forze che rimangono in Garfagnana. 4 - Promessa di assistenza alla popolazione della nostra zona sacrificando magari in parte i paesi molto più ricchi della Garfagnana. In proposito dovrebbe venir stipulata una convenzione. 5 - accordo per un piano militare.” <332
Condizione fondamentale per l'aiuto dato dal GPA alla Divisione Lunense era l'accordo per ricevere rifornimenti e viveri per la popolazione apuana costretta a sopravvivere in piena zona di guerra sulla linea del fronte. Un primo passo in questa direzione si era avuto durante l'incontro del 17 ottobre a Forno, quando venne rilasciata un'autorizzazione firmata da Oldham, agli uomini della 3^ compagnia del GPA, comandata da Arnaldo Pegollo, per la requisizione di viveri in alcune zone della Garfagnana <333. Le ulteriori richieste formulate da Pietro trovarono immediato e pieno riscontro nella convenzione sottoscritta da Oldham, da “Barocci” [Roberto Battaglia], dal comandante della 1^ brigata della Lunense, Coli e dallo stesso comandante del GPA. Questo il testo dell'importante documento: “Il Comando della Lunense e il Comando della 1^ Brigata sentite le richieste del Gruppo Patrioti Apuani chiarisce e risponde in perfetto accordo col Comandante del detto Gruppo quanto segue:
1 - Schieramento difensivo continuo. Il Comando di Divisione prende atto con compiacimento della prontezza con cui il Comando Patrioti Apuani ha inviato un primo distaccamento delle sue forze nel settore della 1^ Brigata e rifornisca immediatamente di 4 fucili mitragliatori Breda e relative munizioni il detto distaccamento. […] Gli affida infine un settore da difendersi ad oltranza, tale da poter stabilire collegamento col grosso dei Patrioti Apuani mediante un'ora di strada.
2 - Comando militare e disciplina del Distaccamento dei Patrioti Apuani. Valgono le direttive generali qui allegate.
3 - Richiesta di armi per il gruppo dei Patrioti Apuani. Il Comando di Divisione, sentito il parere del Comando della 1^ Brigata è lieto di aderire alla detta richiesta. […].
4 - Richiesta di viveri per la popolazione civile di Massa e dintorni. Il Comando di Divisione e così pure il Comando della 1^ Brigata s'impegna di aiutare con ogni suo sforzo e mezzo le popolazioni civili della zona di Massa favorendo l'esportazione di generi alimentari dalla Garfagnana. Come prima prova concreta di questo suo interessamento promette l'invio di 20 quintali di patate a detta popolazione in cambio di un adeguato quantitativo di sale.
5 - Piano militare comune. Il Comandante Pietro è incaricato di riferire a voce su detto piano la cui esecuzione è subordinata a un efficiente schieramento da parte dei partigiani e alle opportune direttive da parte del Comando alleato e del Governo Italiano.” <334
La convenzione si concludeva con un'ulteriore richiesta di invio di uomini rivolta anche alla Brigata Garibaldi “Muccini” e con un chiarimento sul punto più importante dell'accordo: l'invio di viveri verso Massa: “Riguardo al grave e urgente problema dell'incubo della fame sulle popolazioni di Massa e dintorni è dovere di ogni buon Italiano contribuire alla sua soluzione nella misura del possibile. Il Comando di Divisione rivolge a questo proposito un appello ai CLN della Garfagnana. Poiché non si può assumere direttamente la responsabilità di organizzare i rifornimenti dalla Garfagnana a Massa che è compito delicato di competenza civile richiede al CLN di Apuania l'invio di una persona a ciò delegata, cui la Lunense darà l'appoggio incondizionato di tutte le sue formazioni partigiane.” <335
[NOTE]
331 Notizie dettagliate sulla zona occupata dai Patrioti Apuani in Garfagnana si trovano in V. Nicodemi, G. Lenzetti Guerra sulle Apuane, ANPI, Massa, 2006. Il reparto guidato da Vinci si stabilì sul Monte Grotti e giornalmente svolgeva servizio di pattuglia fra il Monte Grotti e il Monte Sumbra.
332 AAM busta 19, fascicolo 19.
333 AAM busta 24, fascicolo 1. Le località designate per la requisizione viveri erano: Giuncugnano ed altre frazioni; Capoli e tutto il comune di Piazza al Serchio. Gli uomini di “Naldo” ricevevano inoltre il compito di agire anche sul paese di Gorfigliano ponendovi un proprio presidio: “Secondo gli accordi prestabiliti i Patrioti Apuani sono autorizzati ad agire su Gorfigliano per la totale epurazione di questo centro fascista repubblicano punendo esemplarmente secondo giustizia tutti i responsabili mediante fucilazione e requisizione dei beni.”
334 AAM busta 24, fascicolo 1. “Convenzione fra il Comando della Divisione Lunense, il Gruppo Patrioti Apuani e la 1^ brigata Garfagnina”.
335 Ivi pag. 2.
Marco Rossi, Il Gruppo Patrioti Apuani attraverso le carte dell'archivio ANPI di Massa. Giugno-Dicembre 1944, Tesi di laurea, Università degli Studi di Pisa, 2016


Il 5 ottobre, a Viareggio, il generale Edward M. Almond assunse il comando della Task Force 92, formata dai primi contingenti della 92 Divisione di Fanteria “Buffalo” <7, da alcuni mesi in Italia - vale a dire il 370 reggimento di fanteria, il 598 Gruppo d'Artiglieria Campale, il 124 Gruppo d'Artiglieria campale, reparti del genio, sanità e sussistenza - e dall'894 battaglione anticarro, dal 434 e 435 battaglione di fanteria, dal 751 battaglione carri armati e dai reparti britannici, già facenti parte della Task Force 45.
In quei giorni la Quinta Armata si stava preparando ad assestare il colpo definitivo alla Linea Gotica sull'asse Firenze-Bologna e, nell'ambito dell'operazione, alle forze schierate in Versilia e in Garfagnana fu assegnato un compito diversivo, quello di tenere impegnate le truppe nemiche e conquistare alcune posizioni strategiche nel rispettivo settore. In particolare alla Task Force 92 fu ordinato di prendere il m. Canala, sovrastante Seravezza e il Monte di Ripa, che aveva una notevole importanza strategica, essendo il suo controllo indispensabile per poter puntare su Montignoso, Massa e Carrara.
Mentre i Brasiliani, con l'apporto del “Battaglione Autonomo Patrioti Italiani” agli ordini di Manrico Ducceschi (“Pippo”), occuparono Fornaci di Barga, Coreglia e Barga, in Versilia la Task Force 92 non riuscì a prendere il m. Canala, nonostante gli accaniti e sanguinosi combattimenti sostenuti dal 6 all'11 ottobre. Dalla metà di ottobre ai primi di novembre, pattuglie americane arrivarono nelle frazioni montane di Giustagnana, Minazzana, Basati ed Azzano (Comune di Seravezza) e di Terrinca e Levigliani (Comune di Stazzema), poi, il fronte si stabilizzò fino all'aprile 1945, lungo una linea, che seguiva il tratto finale del fiume Versilia, la piana di Porta, le colline di Strettoia e del Monte di Ripa, i monti Folgorito, Altissimo, Corchia ed il gruppo delle Panie. <8
Ad eccezione di Strettoia e di Arni, tutto il territorio versiliese era stato liberato e si erano insediate le Amministrazioni Comunali, nominate dai CLN con il consenso del Governo Militare Alleato, ma la situazione continuò ad essere molto problematica in quanto la Versilia si trovò a essere un territorio “liberato, ma ancora in prima linea”, sottoposto al fuoco dell'artiglieria nemica ed alla minaccia di possibili puntate offensive da parte dei Tedeschi. A correre i rischi maggiori erano il centro di Seravezza e alcuni paesi dello Stazzemese, dislocati a poche centinaia di metri dalle sovrastanti postazioni tedesche, poi Forte dei Marmi e Pietrasanta, situati nelle immediate vicinanze, mentre relativamente più tranquilla era la situazione nel territorio di Camaiore, Viareggio e Massarosa.
Nel settore apuoversiliese della Linea Gotica i Tedeschi non avevano costruito particolari strutture difensive artificiali, ma, piuttosto, adattato o rinforzato quelle naturali, offerte dal terreno collinare e montano, impiegando i lavoratori della TODT e centinaia di uomini, catturati nel corso dei frequenti rastrellamenti. Sulla spiaggia del Cinquale, lungo le sponde del fiume Versilia e la piana di Porta, fino alla via Aurelia, erano stati posti numerosi campi minati, distrutti i ponti, disseminati numerosi ostacoli lungo strade e sentieri, approntati nidi di mitragliatrici. Le colline intorno al Castello Aghinolfi, quelle di Strettoia e del Monte di Ripa, protette da una fitta rete di campi minati, erano presidiate da numerose postazioni di mitragliatrici e mortai, da dove i Tedeschi potevano dominare la zona sottostante, essendo stati rasi al suolo oliveti, vigneti e buona parte della vegetazione spontanea. Sui monti Canala, Folgorito e Carchio, da cui parte la cresta scoscesa che raggiunge il monte Altissimo, dominante la vallata del torrente Serra, erano state scavati ripari e trincee per mitragliatrici e mortai, mentre erano stati allestiti una stazione radio e un posto di osservazione sulla vetta del Folgorito, da dove era possibile tenere sotto controllo la costa da La Spezia a Livorno e gran parte della Versilia. Anche sui monti Altissimo, Corchia, Pania della Croce e Pania Secca, che sovrastano da un lato il territorio di Stazzema e dall'altro la Garfagnana, nel tratto tra Castelnuovo e Gallicano, erano stati allestiti posti d'osservazione, trincee, postazioni per mitragliatrici, obici e mortai.
A difesa del settore occidentale della Gotica i Tedeschi schieravano la 148 Divisione di Fanteria, a cui, nella fase finale, furono aggregati il battaglione mitraglieri Kesselring ed alcuni battaglioni d'alta montagna, mentre il tratto tra l'Altissimo e la Pania erano affidati al battaglione “Intra” della Divisione Alpina “Monterosa”.
Praticamente, la Linea Gotica correva lungo il confine tra le province di Lucca e di Massa Carrara e, di conseguenza, il territorio di Montignoso e di Massa costituiva le immediate retrovie, dove erano dislocati servizi logistici, mezzi, depositi di materiale e postazioni di artiglieria. Un ruolo fondamentale, per la difesa di questo settore della Linea Gotica, era svolto dalle batterie dei cannoni di Punta Bianca, situate nei pressi di Bocca di Magra, dove Tedeschi avevano rafforzato una serie di postazioni precedentemente allestite dalla Marina Militare Italiana. Il sistema difensivo era costituito da due cannoni navali da 152/52 in località Ameglia, 4 cannoni navali da 152/52, posti tra le rocce, e 4 dello stesso tipo in un bunker, oltre a torrette di osservazione e attrezzature varie. Inoltre, era stato aggiunto un cannone di grosso calibro montato su un affusto ferroviario, collocato in una galleria.
[NOTE]
7 - La 92 Divisione di Fanteria “Buffalo” fu costituita il 15 ottobre 1942 a Fort Mc Clellan in Alabama, con una forza iniziale di 128 ufficiali e 1200 soldati, aumentata progressivamente fino al raggiungimento degli effettivi di una divisione. I reparti effettuarono l'addestramento in varie località , poi, nel 1943, si trasferirono a Fort Huachuca. Il 15 luglio salpò per l'Italia il primo contingente, cioè il 370 Regimental Combat Team, formato dal 370 reggimento di fanteria, dal 598 reggimento di artiglieria campale, da reparti del Genio, Sanità, Servizi e Polizia Militare. 8 - Sul settore apuoversiliese della Linea Gotica cfr: Eserciti Popolazione Resistenza sulle Alpi Apuane - Prima parte: aspetti politici e militari, a cura di Gino Briglia, Pietro Del Giudice, Massimo Michelacci, Massa, Tipografia Ceccotti, 1995 - parte seconda: aspetti politici e sociali, a cura di Lilio Giannecchini e Giuseppe Pardini, Lucca, Tipografia San Marco, 1997 - Fabrizio Federigi, Versilia Linea Gotica, Versilia Oggi Edizioni, Roma, 1979 - Davide Del Giudice, La Linea Gotica tra la Garfagnana e Massa Carrara - settembre 1944-aprile 1945, vol. 2, Tipografia Glue&c. Massa, 2000
Giovanni Cipollini, La Linea Gotica in territorio apuoversiliese, saggio pubblicato in “La Linea Gotica - Settore Occidentale 1943-45”, atti del Convegno di studi svoltosi a Borgo a Mozzano il 9 maggio 2004, a cura dell'Istituto Storico Lucchese - sezione di Borgo a Mozzano

domenica 29 ottobre 2023

Le indagini di Paolo Borsellino e il suo assassinio


Il 1° luglio 1992, Paolo Borsellino si trova a Roma. La sua agenda recita: «ore 9.50 - Holiday Inn; ore 15 - Dia; ore 18.30 - Parisi; ore 19.30 - Mancino; ore 20 - Dia» <68. Quello del pomeriggio alla Direzione investigativa antimafia è un appuntamento particolarmente importante, con un nuovo pentito pronto a parlare. Si tratta di Gaspare Mutolo, boss mafioso coinvolto nel Maxiprocesso del 1986 e condannato in primo grado a dieci anni di reclusione. Mutolo ha deciso di collaborare con la giustizia, proposta che gli era già stata avanzata due anni prima da Giovanni Falcone, dopo aver ricevuto notizia della strage di Capaci. Quando si trovano faccia a faccia, il pentito rivela la sua intenzione di rilasciare dichiarazioni scottanti su Domenico Signorino e Bruno Contrada: un giudice e un poliziotto, due membri delle istituzioni <69. Proprio mentre Mutolo procede declinando le sue generalità necessarie per aprire ufficialmente la verbalizzazione, Borsellino viene convocato d’urgenza al Ministero dell’Interno, dove ad attenderlo c’è Nicola Mancino.
A ricostruire gli eventi di quel pomeriggio sono due testimonianze particolarmente rilevanti. Una è quella di Rita Borsellino, sorella del magistrato, che racconta come «A un tratto, durante l'interrogatorio, Paolo riceve una telefonata, chiude il verbale, si precipita al Viminale, poi ritorna da Mutolo. Il pentito ha detto successivamente che di ritorno dal Viminale Paolo era talmente nervoso che fumava due sigarette contemporaneamente e decise di non continuare l'interrogatorio» <70. Ancora più dettagliata è la ricostruzione di Mutolo, illustrata il 21 febbraio 1996 nell’aula del processo per la strage di via D’Amelio. «Il giudice Borsellino mi viene a trovare io ci faccio un discorso molto chiaro e ci ripeto quello che io sapevo su alcuni giudici e su alcuni funzionari dello Stato molto importanti. Allora mi ricordo probabilmente che il dottor Borsellino la prima volta che mi interroga riceve una telefonata, quindi manca qualche ora e mi ricordo che quando è venuto, è venuto tutto arrabbiato, agitato, preoccupato. Io insomma non sapendo gli ho chiesto “dottore ma che cos’ha?” e lui molto preoccupato e serio mi fa che si è incontrato con il dottor Parisi e il dottor Contrada, mi dice di scrivere che il dottor Contrada era colluso con la mafia e che il giudice Signorino era amico dei mafiosi» <71.
A quel punto, dunque, Borsellino sa: è stato informato dei contatti che gli uomini dello Stato hanno con Cosa Nostra e, come logica conseguenza, il suo primo pensiero va alla morte dell’amico Falcone. Ci mette poco, il giudice, a immaginarsi quale sarà il prossimo obiettivo dei mafiosi: la sera stessa infatti, in una telefonata alla moglie, confessa sconsolato «oggi ho respirato aria di morte» <72.
Nel frattempo, però, la malavita siciliana mette in pausa la sua strategia del terrore. È ben consapevole che in Parlamento sia ancora in discussione il decreto-legge che introduce il 41 bis, da convertire entro un massimo di due mesi di tempo. L’idea è, dunque, quella di attendere l’inizio di agosto e lasciare che il provvedimento decada, per poi ricominciare da dove il progetto stesso era stato lasciato, ma a questa strategia attendista, Borsellino risponde con un’ulteriore intensificazione delle indagini.
Il 15 luglio, una scoperta lo lascia senza parole. Tornando a casa la sera dopo una faticosa giornata di lavoro, il giudice è in preda a ripetuti conati di vomito. La moglie Agnese, vedendolo, corre in suo soccorso e Borsellino le dice «sto vedendo la mafia in diretta. Ho saputo che il generale Subranni è punciutu» <73. “Punciutu”, un termine prettamente siciliano che corrisponde a “punto” e che indica un rito di affiliazione alla mafia dove alla persona in esame viene punto l’indice della mano con cui, da quel momento in poi, dovrà sparare. Per completare la cerimonia, al nuovo membro della cosca viene fatto pronunciare un impegno solenne: «giuro di essere fedele a Cosa Nostra. Possa la mia carne bruciare come questo santino se non manterrò fede al giuramento» <74. Borsellino capisce così che anche gli altissimi esponenti dell’Arma sono coinvolti e si sente circondato da traditori, sapendo che il tempo stia ormai per finire.
Il 19 luglio è una domenica di sole e il giudice si trova al mare con la famiglia, a Villagrazia di Carini. Come ogni fine settimana, nel pomeriggio torna in città, a Palermo, e si reca dalla madre che abita in Via d’Amelio 21, considerata pericolosa già da tempo perché molto stretta e senza vie di fuga. Insomma, per un uomo posto sotto costante protezione della scorta, può essere considerata una pericolosa “trappola per topi” ed è infatti stato richiesto dalle autorità della città che in quella zona venga applicato il divieto di sosta per tutte le vetture, in modo da fugare ogni possibile timore di attentato <75. Eppure, in via D’Amelio, quel 19 luglio le macchine parcheggiate sono ancora molte.
L’orologio segna quasi le 17 quando il giudice, come da programma, suona al campanello della madre. Non fa in tempo a staccare il dito dal citofono che una Fiat 126, rubata qualche giorno prima e imbottita con circa 90 chili di esplosivo, viene fatta detonare. La strada salta in aria e così decine di macchine, oltre ai corpi di Borsellino e degli uomini della scorta. Uno di loro, Antonino Vullo, rimane in vita e per descrivere quegli attimi usa parole forti. «Il giudice e i miei colleghi» - racconta - «erano già scesi dalle auto, io ero rimasto alla guida, stavo facendo manovra, stavo parcheggiando l'auto che era alla testa del corteo. Improvvisamente è stato l'inferno. Ho visto una grossa fiammata, ho sentito sobbalzare la blindata. L'onda d'urto mi ha sbalzato dal sedile. Non so come ho fatto a scendere dalla macchina. Attorno a me c'erano brandelli di carne umana sparsi dappertutto» <76.
Subito dopo l’esplosione, un uomo delle istituzioni, il capitano Arcangioli, viene ripreso dalle telecamere mentre cammina in via D'Amelio con una borsa di pelle marrone nella mano sinistra, una pettorina azzurra su cui si staglia uno stemma dorato dell'Arma e un marsupio nero attorno alla vita <77. Non si hanno prove sufficienti per stabilire con esattezza cosa abbia fatto il capitano dopo essersi allontanato, ma dalla scena del crimine sparisce l’agenda rossa di Borsellino, quella su cui era solito scrivere minuziosamente tutti i risultati delle sue indagini. L’agenda grigia, dove erano segnati gli appuntamenti, viene invece lasciata. Poche ore dopo, con due telefonate alle redazioni Ansa di Torino e Roma, una persona che si annuncia come portavoce della Falange Armata rivendica la strage.
Nelle vicinanze arrivano il figlio di Borsellino, Manfredi, e il suocero, il magistrato in pensione Angelo Pirano Leto, ex Presidente della Corte d’Appello di Palermo. Entrambi camminano attorno al cratere provocato dall’esplosione cercando notizie sul giudice. Anche la moglie vuole sapere qualcosa e telefona a chiunque per chiedere informazioni. A nessuno di loro, in quel momento, viene detta la verità <78. Intanto, al Palazzo di Giustizia di Palermo, vengono apposti i sigilli alla stanza del magistrato e così alla sua cassaforte, dove, secondo i familiari, teneva le carte di lavoro riservate. Nei giorni successivi, la cassaforte verrà aperta, ma stranamente, al suo interno, non si troverà nulla di importante <79.
[NOTE]
68 G. Lo Bianco e S. Rizza, L’agenda rossa di Paolo Borsellino, Chiarelettere, Milano, 2007, p. 137.
69 Ibidem, p. 140.
70 Ibidem
71 Ibidem, p. 141.
72 https://www.ilfattoquotidiano.it/2012/07/15/intervista-inedita-a-borsellino-dimenticata-negli-archivi-rai/294265/
73 https://mafie.blogautore.repubblica.it/2019/08/24/senza-titolo-2/
74 P. Grasso, A. La Volpe, Per non morire di mafia, Pickwick, Milano, 2009, p. 132.
75 http://files24.rainews.it/strage-di-via-d-amelio/la-rai-racconta-borsellino/
76 https://espresso.repubblica.it/attualita/cronaca/2013/07/18/news/via-d-amelio-ancora-troppi-misteri-1.56776
77 https://www.archivioantimafia.org/libri/borsellino_e_l_agenda_rossa.pdf
78 G. Lo Bianco e S. Rizza, L’agenda rossa di Paolo Borsellino, Chiarelettere, Milano, 2007, p. 194.
79 Ibidem, p. 196.
Nicola Corradi, La trattativa Stato-mafia: Il biennio 1992-1993 da cui è nata la "Seconda Repubblica", Tesi di laurea, Università Luiss, Anno Accademico 2020-2021

mercoledì 18 ottobre 2023

Scalfari occupa una posizione anomala


«Nonostante la proliferazione memorialista degli ultimi anni, rimangono dei grandi buchi neri nella memoria collettiva del passato» scrive Colmeiro a proposito del contesto spagnolo. Un'analisi che nel caso italiano è ancora più azzeccata. Tuttavia alcuni elementi de "L'aspra stagione" permettono di fare luce su queste zone d'ombra.
Le due pagine di apertura de "L'aspra stagione" rappresentano un elemento del tutto anomalo rispetto al resto del libro. Non c'è alcuna indicazione numerica che le identifichi come un capitolo e le pagine successive, che costituiscono il primo capitolo hanno come numero identificativo lo “0”. Il testo iniziale del libro sembra dunque esterno rispetto al resto dell'apparato narrativo, eppure si trova nella pagina che segue il titolo del libro, la dedica e l'epigrafe in esergo. Si trova dunque dislocato in una sorta di non-luogo letterario che non è quello della classica introduzione. Anche la scrittura è anomala, dato che il testo è in corsivo. È anche l'unico capitolo ad avere una data, «Roma, gennaio 2010», che fornisce le indicazioni per storicizzare quanto scritto: "l'Italia non sogna più. Ha smesso di farlo un mattino di maggio del 1978. Da allora ha imparato a ingurgitare di tutto pur di restare con gli occhi sbarrati. Non lucida. Soltanto sveglia. Un Paese senza sonno. E senza sogni. Un Paese in cui non c'è differenza tra il giorno e la notte. Un Paese in cui sono successe troppe cose. Ma è come se niente fosse successo. Niente, dall'ultimo risveglio. Da quando ci siamo alzati e siamo usciti diretti al porto, per imbarcarsi sull'unica nave galleggiante. La nave sulla quale abbiamo viaggiato fino a oggi. Navigando a vista". <417
L'immagine della nave rende l'idea di un Paese che ormai ha abbandonato il proprio passato e le proprie sicurezze, senza tuttavia mai distaccarsene troppo. Il viaggio è la direzione intrapresa dal Paese dopo gli anni del passaggio storico descritto nel libro. La storia di Carlo Rivolta riguarda i momenti immediatamente precedenti all'inizio del viaggio, «è la storia del tragitto dalle piazze al molo, dalle case al porto. È la storia degli ultimi passi sulla terraferma» <418.
Al di là di Carlo Rivolta («l'uomo che se n'è andato un attimo prima che la nave salpasse»), il “prologo” contiene una serie di riferimenti che è necessario ricostruire per chiarire la filosofia del resto del libro. Prima di tutto la metafora, che in realtà è presa da un'immagine di Bettino Craxi, di cui nelle ultime pagine viene riportata la frase “E la nave va”, pronunciata nel 1983. Craxi appare nell'ultimo capitolo del libro senza essere mai stato citato prima, perlomeno in forma esplicita. È il Presidente del Consiglio che si incarica di stabilizzare il cambiamento e che vince lo scontro con il segretario del Partito Comunista, Enrico Berlinguer. È lui, dunque, il “Nostromo” del “prologo” che, all'epoca dei fatti «studiava da ammiraglio». Assieme al “Nostromo”, a salire sulla «unica nave galleggiante» c'è un intero equipaggio composto anche da «corsari e bucanieri» che hanno fretta di imbarcarsi e che sono «promossi - sul ponte - al rango di ufficiali». Una frase ambigua in cui però non è difficile individuare, tra gli altri, chi tramite la violenza o tramite l'inganno è riuscito a superare la fase di passaggio diventando potente. Da questo punto di vista è possibile ricollegare a questa immagine i nomi degli appartenenti alla loggia P2 che, all'interno del libro, appaiono nel capitolo dedicato alla narrazione dei convulsi eventi del 1981. Si tratta di un caso unico all'interno del testo, che vede l'alternanza sincopata dei testi in corsivo e in stampatello: il nome degli esponenti della P2 viene scritto in stampatello, secondo una forma rigorosa che fa eco allo stile formale burocratico “Cognome Nome, lavoro, numero di tessera”, gli eventi vengono invece scritti col carattere in stampatello e uno stile del tutto frenetico. L'effetto finale è quello della perdita dei punti di riferimento, come se nel bombardamento continuo di eventi disperati ciò che rimane sotto traccia fosse il filo dei nomi, ciascuno dei quali rimanda ad un percorso differente che caratterizza i successivi anni della storia d'Italia: Vito Miceli, Maurizio Costanzo, Mino Pecorelli, Roberto Calvi, Bruno Tassan Din, Franco di Bella e Silvio Berlusconi, i nomi citati vengono ripresi attraverso un salto multiplo in avanti: "un elenco di nomi. Una serie di numeri. E un «Piano di rinascita democratica». Alcuni anni prima. Durante i giorni del piccolo Rampi. Molti anni dopo. Fino ad oggi. Accade in Italia". <419 Alfredo Rampi è il bambino caduto in un pozzo il 12 giugno 1981, morto durante una diretta TV seguita da trenta milioni di persone. Un evento che anche Giuseppe Genna, in "Dies Irae", individua come un momento di svolta. Così come in "Dies Irae" <420, gli autori non cedono ad un'ipotesi che vede nel il caso di Alfredo Rampi un “complotto televisivo” <421 utile a coprire lo scandalo P2. Essi lasciano piuttosto al lettore il compito di un'interpretazione, concentrandosi ancora una volta sull'immagine dello sconfitto, Carlo Rivolta, il quale «accusa il colpo» <422. Che esista un complotto o meno, si tratta comunque di un momento in cui lo scandalo sfugge all'attenzione dei media.
Esiste infine una terza lacuna all'interno del libro, che corrisponde ad un'assenza che incide anche nei materiali a disposizione dei due autori. Eugenio Scalfari, il fondatore de "La Repubblica", rifiuta la richiesta degli autori di essere intervistato sulla vita di Carlo Rivolta: le sue interviste contenute nel libro provengono da materiali di archivio. E tuttavia la metafora sul mare è legata anche alla sua vicenda. Grazie alla successione tra il “prologo” e l'inizio del capitolo “0” viene suggerito un altro accostamento possibile:
"Acqua.
Tonnellate di acqua.
A mollo la pasta di legno, miscela concentrata di fibre in sospensione nel liquido. Abeti e pioppi spogliati, scortecciati, trasformati, trattati fino a ottenere polpa succosa. Cellulosa. Impasto diluito che diventerà carta". <423
Se da una parte il paese Italia avrà Craxi come “Nostromo”, Scalfari è il personaggio in grado di avere abbastanza preveggenza per dominare il “mare di carta” dell'informazione, un elemento non secondario all'interno di un libro che narra le vicende di un cronista. Scalfari viene presentato con uno stile che amplifica il mistero attorno alla sua figura; il suo nome viene svelato solo alla fine della descrizione della sua idea di fondare il giornale dopo che nelle due pagine precedenti ci si è riferiti alla sua figura come “lui” o “l'uomo”: "in un edificio tra piazza Indipendenza e via dei Mille, l'uomo - montatura leggera, lanugine candida - scandisce il mantra degli ultimi tempi: «Sessanta Righe”. Il limite è tassativo. Che tutti se ne facciano una ragione".
Pur essendo una figura decisiva, Scalfari rimane sempre molto distaccato dalle vicende narrate: le discussioni di redazione avvengono senza di lui, così come le liti, mentre le contrarietà alla linea del giornale rispetto alla politica mantenuta durante il sequestro Moro sono destinate a non emergere mai in maniera esplicita.
Nella modo in cui presenta il progetto per il suo quotidiano, Scalfari viene descritto come una persona in grado di ammaliare e ottenere ciò che vuole: "lui […] di anni ne ha cinquantadue. Gli ultimi dodici mesi li ha passati illustrando un progetto pazzesco presso i circoli degli industriali progressisti: «Vorrei fare un giornale liberal, della borghesia illuminata, un giornale nuovo sia nel formato che nella grafica, che nella stessa impostazione: diciamo non paludata, un giornale che non sia al servizio di nessuno, ma di una visione più moderna e avanzata del Paese. Cerco un po' di soldi e sono venuto da lei, perché mi sembra appartenere a quella ridotta categoria di imprenditori che ha una visione che supera l'interesse immediato nel profitto d'impresa»".
Il progetto è legato ad un discorso di mercato: il tema del “pubblico” e delle vendite è più volte sottolineato dagli autori che proprio nel capitolo “0” inseriscono la progressione dell'aumento del prezzo dei giornali nel corso degli anni Settanta. Lo stesso mutamento della linea editoriale viene ricollegato ad una scelta di mercato.
Innanzitutto c'è la scelta di conquistare i lettori del Partito Comunista, che comporta uno spostamento della linea editoriale che, prima del rapimento di Moro, «è sottile, ma percepibile» <424, e in seguito c'è la scelta della linea della fermezza rispetto alle Brigate Rosse, con cui Rivolta è in disaccordo: "la questione, per certi versi, è anche di mercato, perché - secondo Villoresi - «Carlo è entrato in contrasto con la linea di “Repubblica” quando le cose di cui amava occuparsi passano in secondo piano, quando - in virtù d'una particolare alchimia editoriale - si guarda ad altri target e ad altri mondi»". <425
Scalfari occupa una posizione anomala: è uno dei personaggi noti più citati nel romanzo, ma non rientra di fatto tra i “potenti”, coloro che determinano l'andamento del paese. Eppure la sua immagine si addice perfettamente alla figura del Grande Vecchio, del calcolatore che ha in mente un piano preciso per il futuro. La particolare prospettiva da cui Tommaso de Lorenzis e Mauro Favale osservano la storia mette dunque in luce un cono d'ombra ancora poco investigato. Gettare una luce su questa figura potrebbe forse rivelare attraverso quali discorsi e attraverso quali processi materiali (quali decisioni, quali interessi), nel corso degli anni, è andato formandosi un giudizio così univoco e inequivocabile sulla stagione che ancora oggi viene identificata attraverso la formula “anni di Piombo”.
[NOTE]
417 Tommaso de Lorenzis, Mauro Favale, L'aspra stagione, Torino, Einaudi, 2012, p. 5.
418 Ivi.
419 Tommaso de Lorenzis, Mauro Favale, L'aspra stagione, Torino, Einaudi, 2012, p. 216-217.
420 CFR. Claudia Boscolo, Stefano Jossa, “Finzioni metastoriche e sguardi politici della narrativa
contemporanea”, in Claudia Boscolo, Stefano Jossa (a cura di), Scritture di resistenza. Sguardi politici
nella narrativa italiana contemporanea, Carocci Editore, Roma, 2014, p. 23.
421 Claudio Milanesi, Il grande complotto televisivo: Giuseppe Genna Dies Irae, in “Cahiers d'études italiennes”, 2010, n. XI.
422 Tommaso de Lorenzis, Mauro Favale, L'aspra stagione, Torino, Einaudi, 2012, p. 218.
423 Tommaso de Lorenzis, Mauro Favale, L'aspra stagione, Torino, Einaudi, 2012, p. 7.
424 Tommaso de Lorenzis, Mauro Favale, L'aspra stagione, Torino, Einaudi, 2012, p. 113.
425 Tommaso de Lorenzis, Mauro Favale, L'aspra stagione, Torino, Einaudi, 2012, pp. 122-123.
Paolo La Valle, Raccontare la storia al tempo delle crisi, Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2015

mercoledì 11 ottobre 2023

Il compromesso degasperiano si inserisce nella tradizione del moderatismo italiano che non esclude l’utilizzo della forza e della violenza


Come abbiamo già visto sui temi economici, Mario Del Pero ha invece sottolineato nel suo lavoro sulla natura del rapporto DC-USA all’inizio della Guerra fredda che parlare di totale subalternità di De Gasperi e dei suoi all’alleato americano non è storicamente del tutto corretto: le venature autonomiste e nazionaliste presenti in buona parte della coalizione governativa tesero sempre ad accettare l’influenza atlantica, ma utilizzando la presenza e le pressioni americane spesso per fini dettati dalle logiche nazionali. D’accordo si dice anche Scoppola, in un paragone con il partito moderato risorgimentale che condividiamo e, dal nostro punto di vista, racchiude un significato storico molto più denso: "Non eravamo pienamente liberi ma non eravamo neppure del tutto dipendenti dalle decisioni altrui: influire sulle decisioni americane era l’unica via possibile e responsabile che un uomo politico illuminato potesse seguire. Cosa aveva fatto, negli dell’unificazione, Cavour se non utilizzare il quadro internazionale ai suoi fini, prendendo atto realisticamente dei rapporti di forza esistenti?" <554
Così sul piano economico, su quello militare e, anche, sulle misure di contenimento anticomunista che, in particolare dopo lo scoppio del conflitto coreano, assunsero sempre più caratteri anticostituzionali, De Gasperi resistette e non solo per opportunismo: "Valutando la posizione di De Gasperi sulla base delle pressioni interne ed esterne che egli ricevette affinché venisse promossa una più decisa azione anticomunista, non si può però fare a meno di notare una certa moderazione nelle scelte dello statista trentino. Da questo punto di vista sia il contenuto dei provvedimenti dell’autunno 1950 (con il rigetto dell’ipotesi di utilizzare volontari per svolgere funzioni di polizia) che la gestione dell’iter di approvazione dei medesimi testi di legge (che si arenarono in parlamento o non vennero nemmeno presentati) sembrano costituire un tipico compromesso degasperiano. Un compromesso finalizzato non solo a soddisfare le pressioni statunitensi, ma anche ad attutire posizioni più radicali presenti all’interno dell’alleanza di governo così come nel mondo cattolico organizzato". <555
'Compromesso degasperiano' che si inserisce nella tradizione del moderatismo italiano che non esclude l’utilizzo della forza e della violenza, senza tuttavia compromettere gli equilibri a suo favore, correndo il rischio di cedere quote di potere troppo elevate ai settori oltranzisti poi difficilmente controllabili: "È difficile sfuggire alla sensazione che questa scarsa disponibilità non fosse determinata anche dal timore che la pedissequa applicazione delle misure chiaramente anticostituzionali richieste da Washington avrebbe finito per travolgere la democrazia italiana, portando il paese sull’orlo della guerra civile e ponendo le premesse per una svolta autoritaria di cui potevano essere vittime anche De Gasperi e la stessa Democrazia Cristiana". <556
Sostanzialmente d’accordo si dice anche Bertucelli quando riflette sui motivi del rifiuto, da parte della classe dirigente centrista, dell’alternativa salazariana: "I comunisti vengono esclusi da ogni ruolo di governo o di direzione nella struttura dello Stato, ma continuano a partecipare alle istituzioni della democrazia rappresentativa. La realizzazione di questo delicato equilibrio […] richiede però alleanze forti e impone l’anticomunismo come fattore di coesione irrinunciabile. Un anticomunismo variegato e polimorfo, spesso connotato socialmente, che diviene un tratto distintivo della democrazia del dopoguerra, in grado di relegare in posizione subalterna le culture riformatrici dei partiti di governo e le spinte modernizzatrici nella società". <557
È l’esperienza antifascista, il coinvolgimento profondo di una parte significativa di popolazione e di paese nella guerra di Liberazione, la tendenza ancora embrionale ma manifestatasi di settori non comunisti della società a fare causa comune con PCI e PSI, a impedire tra le altre cose la svolta autoritaria: "La stessa Costituzione, esito alto del tormentato passaggio dal fascismo alla Repubblica e cifra straordinaria di discontinuità con il passato, può essere sospesa, limitata, forzata, ma non se ne possono oltrepassare le norme fondamentali, non tanto perché l’opposizione comunista ne fa una bandiera, ma perché da quella carta trae legittimità lo stesso ceto di governo del dopoguerra che si identifica con la libertà e il nuovo Stato italiano, sorto dalle ceneri dell’otto settembre, e inserito ora in un nuovo ordine internazionale". <558
Queste considerazioni che negano l’asservimento totale e l’imperialismo come categorie utili, in questo contesto, a spiegare l’equilibrio centrista tra costituzione formale (prodotto della Resistenza, fondata sul nesso democrazia-antifascismo) e costituzione materiale (prodotto della Guerra fredda, fondata sul nesso democrazia-anticomunismo), servono a problematizzare il quadro: la sociologia dei conflitti tende a suddividere le modalità di svolgimento e gestione del conflitto da parte degli attori in campo secondo categorie che distinguono chiaramente tra contesto democratico e contesto non-democratico.
Questo ci pone una domanda: è possibile considerare così nettamente separate le due dimensioni? Probabilmente è più corretto ammettere la presenza di sfumature: l’esperienza storica ha dimostrato come diversi gradi di democrazia interna si basino su eccezioni alla norma democratica ufficiale, che intaccano la struttura delle opportunità politiche anche per coloro che sono riconosciuti come cittadini a pieno titolo. Le discriminazioni de iure, soprattutto in presenza di un conflitto interno, che si manifesti sia nelle forme delle campagne dei movimenti sociali, sia del conflitto letale o armato, comportano spesso restrizioni alle libertà politiche e aumento di potere nelle mani di forze dell’ordine e apparati di sicurezza. Si tratta dunque di una potenziale causa di de-democratizzazione. Contrariamente a quanto osservato da C. Tilly e S. Tarrow <559, però, questo processo non è necessariamente innescato da governi democratici a bassa capacità, né tantomeno che hanno subìto un trauma o un indebolimento: paradossalmente sono proprio le democrazie segmentate forti <560 a disporre dei dispositivi dell’eccezione e ad applicarli. In questo, il condizionamento culturale è centrale nell’interpretazione dei fatti sociali e nella percezione del nemico.
Quella che costruisce la classe dirigente neo-popolare e centrista appare a tutti gli effetti una democrazia limitata più che protetta: la molteplicità degli apparati di sicurezza e il peso dell’esercito (che vedremo nelle prossime pagine) non rappresentano infatti un potere capace di dettare l’agenda politica e determinare l’azione di governo (non in modo complessivo quanto meno); è un complesso intreccio tra attori e soggetti, spesso in conflitto tra loro, fatto di condizionamenti e azioni di diversa natura, che però non giunge mai a sollevare il governo dalle proprie prerogative costituzionali. Il sistema di ordine pubblico e agibilità politica che costruiscono Scelba e De Gasperi dunque non tende tanto a proteggere i diritti costituzionali, quanto a limitarne l’accesso per ampi settori sociali e politici. E questa è una tendenza di lungo periodo: "le tradizioni dell’Italia unita sia al livello istituzionale sia al livello delle strategie prevalenti verso gli sfidanti sono di tipo esclusivo. Le istituzioni del regno sabaudo erano caratterizzate da un forte centralismo, un’accentuata supremazia del governo di fronte a un parlamento debole, e una forte influenza dell’esecutivo anche sul potere giudiziario. La domanda che da parte del potere politico giungeva alle forze di polizia, anch’esse tenute sotto stretto controllo, era generalmente quella di una rigida protezione dell’ordine costituito, utilizzando anche le strategie più brutali. […] Il regime fascista portò a un’ulteriore accentuazione dei tratti esclusivi delle istituzioni statali. La legislazione (il codice penale, la legge di Pubblica sicurezza) varata durante il fascismo restò a lungo in vigore anche nella repubblica democratica, con conseguenze durature in termini di un riconoscimento debole dei diritti democratici. […] La forte correzione introdotta dalla costituzione repubblicana nel campo delle istituzioni formali ebbe inizialmente effetti solo parziali a causa dell’ostruzionismo della maggioranza che ostacolò l’introduzione delle nuove istituzioni di controllo e di decentramento del potere come la corte costituzionale, il consiglio superiore della magistratura, le regioni e il referendum". <561
Limitazione che diventa conferma dell’esclusione tradizionale delle classi subalterne: "Queste limitazioni, giustificate proprio con un presunto pericolo per la democrazia, si riflessero in una continuità nella strategia di esclusione del movimento operaio, delle sue organizzazioni e dei suoi partiti, che si cercava di confinare nello spazio della subcultura rossa". <562
Su questo punto non si trova d’accordo Scoppola, che invece ha sottolineato la differenza tra il paternalismo prefascista e il neopopolarismo degasperiano, soprattutto sulla questione sociale e sul ruolo delle classi subalterne: "per De Gasperi la giustizia sociale non discende nella realtà solo in virtù della sua forza morale, non è affidata ad uno Stato attento, dall’alto, al benessere delle plebi […], ma è il frutto di una presenza nuova, attraverso la democrazia politica e il suffragio universale su cui essa si fonda, di operai e contadini nella vita politica. […] La classe lavoratrice nella sua concezione è protagonista e non oggetto di un’azione di rinnovamento sociale […]". <563
Bisogna operare qui, secondo noi, una distinzione tra quella che è la teoria politica, la consapevolezza, che lo statista trentino dimostra e quella che risulta essere la prassi seguita dai suoi governi. Per le ragioni sopra riportate e che ritroveremo nel seguito dell’esposizione, ritroviamo i medesimi motivi da cui nacque, storicamente, la particolare 'subcultura rossa' italiana, e che nel secondo dopoguerra contribuiscono al riprodursi dei suoi caratteri antagonisti e rivoluzionaristi; elementi dovuti anche alla rottura tra i poteri pubblici e le istanze del lavoro, o meglio al rifiuto dei primi nei confronti delle richieste contenute nella politica del conflitto dei ceti subalterni. Costante di lungo periodo che, unitamente al nuovo contesto geopolitico e interpretativo della Guerra fredda, produce il "paradosso - giustificato con costanti richiami all’eccezionalità della situazione italiana - di uno Stato democratico costretto ad affidare le sue sorti ai rigori di una vigilanza autoritaria". <564
[NOTE]
554 P. Scoppola, La proposta politica di De Gasperi, il Mulino, 1978, p. 181
555 M. Del Pero, L’alleato scomodo. Gli USA e la DC negli anni del centrismo (1948-1955), Carocci, 2001, p. 106
556 Ibidem, p. 156
557 L. Bertucelli, All’alba della Repubblica. Modena, 9 gennaio 1950. L’eccidio delle Fonderie Riunite, Unicopli, 2012, p. 84
558 Ibidem, p. 85
559 C. Tilly, S. Tarrow, La politica del conflitto, pp. 81-84, Mondadori 2008
560 Regimi politici democratico-parlamentari che presentano al loro interno diversi gradi di concessione della cittadinanza politica e di accesso ai diritti civili, producendo così segmenti interni di democrazia. L’esclusione o la limitazione può derivare da criteri etnici, religiosi, politici.
561 D. Della Porta, H. Reiter, op. cit., pp. 24-25
562 Ibidem, p. 25
563 P. Scoppola, op. cit., pp. 91-92
564 G.C. Marino, op. cit., p. 57
Elio Catania, Il conflitto sociale: “motore della Storia” o “tabù” storico-politico. Il caso di Milano nel secondo dopoguerra, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2016-2017