Dopo la caduta del Muro di Berlino e lo smantellamento della Cortina di ferro si aprì, all’interno del Pci, una riflessione sull’identità del partito che non poteva non riguardare temi del passato come l’eredità politica di Togliatti e i crimini commessi dal totalitarismo stalinista <51. I segnali lanciati da Occhetto, specialmente nei confronti dei “cugini” socialisti, furono contraddittori, soprattutto in occasione del bicentenario della Rivoluzione francese <52, durante il quale emerse la possibilità di una ridefinizione del pantheon ideologico comunista. Ciò avvenne accantonando il divisivo “primato di Lenin” e, al contempo, riportando in auge gli ideali rivoluzionari di Libertà, Uguaglianza e Fratellanza e le figure storiche dei loro propugnatori Saint-Just e Robespierre <53. Ciò, tuttavia, non bastò a ricomporre le lacerazioni ideologiche con i socialisti in tempi brevi <54.
Il segretario Achille Occhetto aveva visto, sin dal XVIII Congresso del Pcus e nel cambio di passo delle politiche sovietiche, l’occasione per riformare il comunismo, tentando l’avvicinamento alla socialdemocrazia, di cui a lungo si era dibattuto in casa comunista. Non tutti all’interno del partito, tuttavia, si trovavano allineati con tale visione; il precedente segretario, Natta, per esempio, non si era rivelato per nulla entusiasta della nuova linea, tanto da commentare laconicamente l’evoluzione dello scenario politico internazionale con la celebre frase: «Qui crolla un mondo, cambia la storia… Ha vinto Hitler… si realizza il suo disegno dopo mezzo secolo». Craxi, dal canto suo, si poneva in una posizione mediana nel Psi, spartiacque tra chi come Gianni De Michelis credeva che i comunisti fossero ancora troppo pericolosi e chi come Claudio Martelli vedeva in loro validi alleati per un agognato «ritorno alle origini». Il segretario socialista, infatti, riconosceva nel Pci una volontà di cambiamento, cui, tuttavia, si opponevano ancora troppe resistenze <55. A luglio del 1990, però, Occhetto raffreddò considerevolmente i rapporti con i socialisti, definendo il pentapartito come la «realizzazione del progetto eversivo per il sistema-Italia» portato avanti da Licio Gelli, venerabile maestro della loggia massonica P2. Il gelo tra i due partiti durò per mesi, mentre gli sconvolgimenti ad Est rubavano la scena agli avvenimenti del quadro politico italiano <56.
Ciononostante, Occhetto, perseverando nelle sue convinzioni riformatrici, di ritorno da un vertice del gruppo politico Com a Bruxelles, domenica 12 novembre partecipò a sorpresa alle celebrazioni per il 45esimo anniversario della battaglia partigiana della Bolognina e, davanti a militanti, ex partigiani e giornalisti, rilasciò una dichiarazione che avrebbe mutato per sempre la storia del più grande Partito comunista d’Occidente: il Pci avrebbe potuto cambiare nome e rinnovarsi negli obiettivi e nell’azione politica <57.
Di un cambio del nome si discuteva da tempo all’interno del partito. La corrente migliorista, guidata da Giorgio Napolitano, sosteneva in tal senso la necessità di una rottura rispetto alla tradizione, in un’ottica europea piuttosto che sovietica; la sinistra del Pci, invece, opponeva resistenza al cambiamento, avvertito come segno di un irreversibile mutamento identitario.
L’estenuante discussione testimoniava lo stato di confusione e fibrillazione dei comunisti in quel periodo. Proprio per la conflittualità tra le suddette visioni, del tutto antitetiche, all’inizio del 1990 molti vecchi dirigenti comunisti pensarono che la svolta della Bolognina necessitasse maggiore collegialità e ponderazione. La nuova generazione di dirigenti, tra i quali Massimo D’Alema, Walter Veltroni, Livia Turco, Claudio Petruccioli, Piero Fassino, sosteneva, invece, già da tempo, che il partito dovesse trasformarsi in qualcosa di diverso rispetto al passato e che non fosse più sufficiente essere soltanto la forza di opposizione al sistema, oggetto di una conventio ad excludendum che non aveva più ragione di esistere <58.
Il partito, in conseguenza dei fatti internazionali e dell’horror vacui dovuto alla dissoluzione della Cortina di ferro, fu costretto ad affrontare quei nodi di dipendenza - politica, ideale ed economica - dall’Unione Sovietica che Berlinguer negli anni Settanta non aveva voluto sciogliere. Il gruppo dirigente e i militanti erano ora costretti a riconsiderare il peso del rapporto con Mosca, determinante nell’intera storia del partito, nonostante la rivendicazione di una “via italiana al socialismo” <59. Questa formula aveva costituito una sorta di “rifugio ideologico”, che aveva allontanato il Pci dall’autoritarismo sovietico, e nello stesso tempo lo aveva isolato dalle altre socialdemocrazie europee e dalle giovani generazioni, condizionate da esigenze generate dal cambiamento della società del tempo <60. Aveva altresì generato un’incomprensione profonda e l’impossibilità di dialogare con il Psi, stante la strenua difesa delle posizioni di principio <61. In questo contesto emerse l’ambivalente posizione di Craxi nei confronti del processo in atto nel Pci. Dopo la Bolognina, infatti, il segretario socialista lasciò a Botteghe Oscure il tempo per riflettere <62, esitante se radunare i voti in uscita dai comunisti in crisi o accogliere l’eventualmente rinominata formazione politica sotto la sua influenza <63.
Il Pci manifestava difficoltà anche nella comprensione dei caratteri della nuova società che, con il diminuire degli operai occupati nell’industria pesante e l’aumento di impiegati nel settore terziario, cominciava a mostrare i primi segni di un assetto post-industriale <64. Il Psi, con la sua condotta innovativa e riformista, manifestò invece una più acuta sensibilità nei confronti di questi cambiamenti e delle inquietudini che generarono. Per questa ragione, il Psi vide crescere i propri voti, specialmente nelle grandi città, ma ciò non fu sufficiente a raggiungere l’obiettivo del “sorpasso a sinistra” ai danni di un Pci in piena crisi ideologica <65.
Questa situazione rafforzò Occhetto nel convincimento che il vecchio partito non avesse futuro e che spettasse a lui guidarne il percorso di trasformazione verso nome, simbolo e identità diversi, capaci di marcare una netta rottura con il passato.
La dirigenza del partito, infatti, aveva mantenuto tutte le caratteristiche strutturali che ne avevano garantito il radicamento nella società: la natura “laica” dell’organizzazione, in antitesi con la Chiesa Cattolica, i legami di appartenenza tra militanti e la struttura centralizzata di comando. Con l’incalzare del processo di modernizzazione del Paese, però, era giunto il momento di smantellare tale impostazione estremamente rigida; si avvertì la necessità di rendere meno rigorosa la disciplina interna, di attenuare la funzione “ieratica” di cui erano rivestiti i dirigenti e di assecondare la crescita dell’elettorato di opinione, garantendo maggiore libertà di critica.
In tal senso, negli ultimi anni di vita del Pci, entrarono a far parte del dibattito politico comunista anche molteplici e divergenti orientamenti interni al partito, pur formalmente vietati dallo statuto dello stesso, in nome del centralismo democratico. Questi si polarizzarono, da un lato, intorno al principio del “compromesso sull’identità di programma” di Natta e, dall’altro, sulle “ritirate strategiche” di Occhetto. Natta guardava ancora al Pci in termini di alterità rispetto agli equilibri politici e coniugava slancio propositivo a mantenimento delle posizioni; Occhetto propendeva sempre più per un cambio di riferimenti culturali ed un avvicinamento rapido alla sfera del nuovo “socialismo dal volto umano” post-Guerra fredda <66, che metteva definitivamente alle spalle lo stalinismo e il dispotismo asiatico. Il dibattito fra le due opzioni divideva sia il gruppo dirigente che la massa di militanti ed era reso ostico dall’assenza di una leadership forte.
Nonostante tale processo di revisione dirigistico, con tutte le sue contraddizioni, fu sempre ampia la fascia di militanza che continuò a porre fortissime resistenze alla messa in discussione dell’identità partitica, in nome della memoria culturale comunista, “patria” politica per un terzo degli elettori italiani.
I dirigenti, gli intellettuali, e soprattutto i militanti, che pure vivevano con passione ed euforia le settimane successive alla caduta del muro di Berlino, erano mossi da un’ondata di “patriottismo di partito” che contrastava con la “crisi identitaria”; sarebbero stati propensi a mettere in discussione il simbolo o il patrimonio simbolico, ma in nessun caso sarebbero stati disposti a riconsiderare criticamente la propria storia o il deposito di memorie e tradizioni <67, in difesa delle quali si era alzata una fermissima levata di scudi.
[NOTE]
51 F. Merlo, Uno storico: Occhetto non sa quando è nata la democrazia e Craxi ha preteso di piegare Machiavelli ai propri fini, in «Corriere della Sera», 26 gennaio 1989.
52 E. Scalfari, E Occhetto ha intonato la marsigliese, in «la Repubblica», 22 gennaio 1989.
53 S. Colarizi, M. Gervasoni, La cruna dell’ago. Craxi, il partito socialista e la crisi della Repubblica, cit., p. 231.
54 V. Coletti, L’arduo sogno dell'unità a sinistra, in «il Corriere della Sera», 11 febbraio 1989.
55 P. Franchi, Intervista a Bettino Craxi, in «il Corriere della Sera», 15 giugno 1989. 56 L. Cafagna, La grande slavina, l'Italia verso la crisi della democrazia, Marsilio, Venezia, 1993, p.16.
57 L. Fabiani, Forza giovane Pci: ti aiuteremo noi a cambiar nome, in «la Repubblica», 30 settembre 1989.
58 A. Possieri, Il Peso della storia. Memoria, identità, rimozione dal Pci al Pds (1970-1991), il Mulino, Bologna, 2007, pp. 273-279
59 Ibidem.
60 S. Colarizi, M. Gervasoni, La cruna dell’ago. Craxi, il partito socialista e la crisi della Repubblica, cit., p. 213.
61 Ivi, p. 214.
62 B. Craxi, Lasciar riflettere il Pci, in «Avanti!», 17 novembre 1989.
63 S. Colarizi, M. Gervasoni, La cruna dell’ago. Craxi, il partito socialista e la crisi della Repubblica, cit., p. 233.
64 Ivi, p. 208.
65 Ivi, p. 206.
66 Tempo di Inquietudini. La segreteria di Natta raccontata dall’Unità (1984-1989), in «Diacronie, studi di storia contemporanea», 2014. https://journals.openedition.org
67 Lettera a «l’Unità» del 25 gennaio 1990, in A. Possieri, Il Peso della storia. Memoria, identità, rimozione dal Pci al Pds (1970-1991), cit., pp. 280-281.
Leonardo De Marco, “Il duello a sinistra: Pci e Psi tra pentapartito e Tangentopoli” (1987-1992), Tesi di laurea, Università Luiss "Guido Carli", Anno Accademico 2018-2019
[...] Gorbaciov costituì più un ostacolo che uno stimolo per l’evoluzione e la trasformazione della cultura politica del Pci verso la socialdemocrazia europea. Questa interpretazione era peraltro largamente condivisa dai moderati capeggiati da Giorgio Napolitano, il quale cercò inutilmente di indicare una strada diversa tra l’integrazione piena nella sinistra europea e il socialismo riformatore di Gorbaciov suscitando non poche reazioni negative all’interno del Partito. <13
Nel maggio del 1988, mosso dalle critiche che si erano levate all’interno del gruppo dirigente e da ragioni di salute,
Alessandro Natta scelse di rassegnare le dimissioni dalla segreteria del Partito. Aldo Agosti ha osservato che sotto la direzione del nuovo segretario Achille Occhetto, simbolo del suddetto ricambio generazionale, cercò di imprimere una svolta più netta all’evoluzione del partito. Il Pci proclamò la volontà di recuperare un rapporto con la tradizione socialista identificando come unica strada percorribile «quella di un’alternativa di sinistra al sistema di potere della Dc». <14 Malgrado la profonda rottura della segreteria di Occhetto rispetto a quella di Natta, l’esplicita collocazione del Pci nella sinistra europea, la presunta “laicizzazione” del partito e la sua emancipazione da ogni residuo di ideologia leninista, il “nuovo corso” fu caratterizzato da numerosi elementi di confusione e di improvvisazione, quella che Pons ha definito tutto ciò come «una continuità più selettiva, ma non meno forte, con la cultura politica berlingueriana». <15
A proposito del Pci all’indomani della svolta della Bolognina Pons scrive: "L’apice del disorientamento viene raggiunto all’indomani della strage di Tienanmen nel giugno 1989, quando Occhetto dichiara che il suo partito non ha nulla a che fare con il comunismo internazionale, ma respinge ogni richiesta di cambiamento del nome. Sotto questo profilo, il Pci costituisce la parte più debole, contraddittoria ed esposta di un intero sistema politico dominato dal riflesso bipolare e impreparato a fronteggiare il repentino disfacimento dell’ordine della Guerra fredda dalla fine del 1989 in avanti". <16
L’affermazione spesso rivendicata dai comunisti italiani della propria specificità e “diversità” fece in modo che il Pci lasciasse un’impronta di rinnovamento di fronte alla crisi finale del comunismo mondiale. Si trattò tuttavia di un percorso di “riconversione” irto e difficile e che, pretendendosi risolto nella sua vicenda nazionale, finì per offrire agli avversari un’ulteriore sponda al discorso anticomunista.
[NOTE] 13 Pons S., La bipolarità italiana e la fine della guerra fredda, in L’Italia contemporanea dagli anni Ottanta ad oggi, Volume I, Fine della Guerra fredda e globalizzazione, a cura di Pons S., Roccucci A. e Romero F., Roma, Carocci, 2014, pp. 45-46.14 Agosti A., Storia del Partito comunista italiano 1921-1991, Bari, Laterza, 2000, pp. 151-152.15 Pons S., La bipolarità italiana e la fine della guerra fredda, in L’Italia contemporanea dagli anni Ottanta ad oggi, Volume I, Fine della Guerra fredda e globalizzazione, a cura di Pons S., Roccucci A. e Romero F., Roma, Carocci, 2014, p. 46.16 Ibidem.Maria Chiacchieri,
Il Pci da Berlinguer a Occhetto. L’onda lunga della cultura pacifista e la prima Guerra del Golfo (1984-1991), Tesi di dottorato, Università degli Studi Roma Tre, Anno Accademico 2019-2020